Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13845 del 09/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 09/06/2010, (ud. 28/04/2010, dep. 09/06/2010), n.13845

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.M.R., G.V., GR.CA., S.

G., SE.MA.GI., elettivamente domiciliati in

ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE ARTI 8, presso lo studio dell’avvocato

PELLICANO’ ANTONINO, che li rappresenta e difende, giusta mandato in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati FABIANI

GIUSEPPE, TRIOLO VINCENZO, giusta delega in calce alla copia

notificata del ricorso;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 456/2006 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 06/06/2006 r.g.n. 1853/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/04/2010 dal Consigliere Dott. ULPIANO MORCAVALLO;

udito l’Avvocato PELLICANO’ ANTONINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 24 gennaio 2001 il Tribunale di Palmi, in funzione di giudice del lavoro, previa riunione di distinte controversie promosse dagli odierni ricorrenti, condannava l’INPS al pagamento in favore di ciascuna delle parti attrici delle somme corrispondenti all’adeguamento della indennità di disoccupazione agricola percepita nella misura di lire 800 giornaliere, per gli anni per ciascuna parte indicati; condannava altresì il medesimo Istituto alla rifusione della metà delle spese di lite, da distrarsi ai sensi dell’art. 93 c.p.c., liquidate complessivamente in L. 1.200.000, di cui L. 500.000 per diritti di procuratore.

2. Su appello proposto dai lavoratori, la Corte d’appello di Reggio Calabria, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della decisione di primo grado, con riguardo alla liquidazione delle spese, rilevato che la determinazione dei diritti ed onorari liquidati dal primo giudice risultava ictu oculi inferiore ai minimi, affermava che dovevano essere riconosciute le voci tariffarie indicate nelle note spese allegate, ma, considerata la facile trattazione delle cause e l’identità delle questioni trattate, i diritti e gli onorari dovevano essere attribuiti in misura inferiore al minimo ai sensi del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 60 con determinazione dell’intero, per ciascuna delle cause riunite, in Euro 73 per diritti e in Euro 80 per onorari; dichiarava inammissibile, invece, la censura relativa alla parziale compensazione delle spese di primo grado, in quanto avanzata solo in sede di note conclusionali, e compensava, infine, le spese del giudizio d’appello, in considerazione di ragioni di equità.

3, Avverso detta sentenza gli assicurati, in epigrafe specificati, propongono ricorso per cassazione deducendo sei motivi. Illustrati con memoria. L’INPS ha depositato procura speciale ai propri difensori.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo, secondo, terzo e quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione delle norme relative alla liquidazione delle spese, in particolare con riferimento all’applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 60 nonchè vizi di motivazione. Con il quinto motivo denunciano “omessa decisione” e “errata di motivazione”, lamentando che la Corte territoriale – interpretando non correttamente l’atto di appello – abbia ritenuto non proposta con tale atto la censura relativa alla compensazione parziale delle spese. Con il sesto motivo si dolgono dell’avvenuta compensazione, a loro dire erronea e immotivata, delle spese del giudizio d’appello.

1.1. Con i primi quattro motivi, in particolare, si assume che illegittimamente la sentenza impugnata abbia fatto applicazione del richiamato art. 60, trattandosi di norma non più in vigore perchè sostituita dalla L. n. 794 del 1942, art. 4 che ha previsto il criterio della “facile trattazione” in luogo di quello della “particolare semplicità” della causa e ha introdotto un preciso limite al potere del giudice di attribuire onorari inferiori al minimo di tariffa stabilendo che la riduzione può essere operata (solo) “fino alla metà dei minimi”.

1.2. Si aggiunge che, in ogni caso, ove si ritenga tuttora in vigore l’art. 60 cit., la sua applicazione da parte della Corte territoriale è stata palesemente errata, in quanto la riduzione è stata operata senza alcuna motivazione, pure richiesta dalla norma, tale non potendosi considerare la mera enunciazione del criterio legale, e comunque senza tenere conto che le questioni trattate erano “di difficile trattazione”, nonchè in maniera onnicomprensiva, ossia su tutte le voci indicate in ciascuna nota spese (onorari, diritti e spese vive), laddove la stessa norma conferisce al giudice il potere di riduzione, al di sotto del minimo previsto dalle tabelle professionali, soltanto per la voce relativa agli onorari di avvocato.

1.3. In ogni caso, secondo i ricorrenti, il giudice d’appello non ha correttamente applicato la medesima norma, da leggersi in correlazione con il D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 4 non essendo ravvisabili nel caso di specie i presupposti fissati da tale ultima disposizione per la derogabilità della tariffa, cioè, in particolare, la “manifesta sproporzione” fra l’attività svolta dall’avvocato e gli onorari previsti in tabella e l’acquisizione del parere o della richiesta di parere del Consiglio dell’ordine.

1.4. Infine, si rileva un ulteriore profilo di illegittimità della decisione della Corte territoriale per avere attribuito a ciascuno degli appellanti – operata la riduzione ai sensi del citato art. 60 – le somme liquidate per diritti, onorari ed esborsi, in maniera forfettaria e globale ed a prescindere dal valore di ogni singola causa riunita, mentre, come si era specificamente dedotto nell’atto di appello, la liquidazione andava effettuata, secondo le rispettive note spese regolarmente allegate, per ciascuna causa.

2. L’esame congiunto di tali motivi rivela la fondatezza di alcuni dei profili evidenziati dai ricorrenti, alla stregua dell’orientamento consolidato espresso da questa Corte in analoghe controversie (cfr., ex pluribus, Cass. n. 27804 del 2008, e altre successive conformi).

2.1. Va premesso che il mancato rispetto dei minimi risulta dalla stessa sentenza impugnata, che proprio a tal fine ha fatto applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 60 (cfr. Cass. n. 18829 del 2007).

Quest’ultima disposizione, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, non può ritenersi implicitamente abrogata dalla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 4 che, nel prevedere la riduzione dei minimi tariffari per le controversie di particolare semplicità, dispone che la riduzione degli onorari non possa superare il limite della metà;

tale disposizione, invero, non sostituisce, ma integra, la previsione contenuta nell’art. 60, comma 5 cit., indicando il limite massimo della riduzione degli onorari (cfr., con riguardo al collegamento fra le due disposizioni, Cass. n. 27804 del 2008, cit.).

2.2. Orbene, l’art. 60, nel disciplinare la liquidazione degli onorari, stabilisce che quando la causa risulta di facile trattazione il giudice può attribuire l’onorario in misura inferiore al minimo e, in tal caso, la decisione deve essere motivata.

L’esame della norma ha consentito alla giurisprudenza di questa Corte l’affermazione di due principi, ognuno distintamente violato dalla sentenza qui impugnata. Anzitutto, poichè la regola posta dalla disposizione in esame è limitativa del diritto della parte al rimborso delle spese processuali sostenute per l’affermazione del proprio diritto (cfr. art. 24 Cost. e art. 91 c.p.c.), deve ritenersi che la facoltà di scendere al di sotto dei minimi sia limitata alla sola voce, espressamente menzionata, dell’onorario (cfr., a superamento di un risalente indirizzo, Cass. n. 14070, n. 14311 e n. 18829 del 2007). In secondo luogo, il giudice ha l’obbligo di motivare espressamente la sua decisione, con riferimento alle circostanze di fatto del processo, e non può, per converso, limitarsi ad una pedissequa enunciazione del criterio legale (cfr.

Cass. n. 13478 del 2006, nonchè le successive sopra citate), ovvero alla mera aggiunta di un elemento estrinseco, meramente indicativo, quale la identità delle questioni (cfr., in particolare, Cass. n. 14311 del 2007). Nè potrebbe sostenersi che il menzionato obbligo di motivazione sia venuto meno per effetto della disposizione, sopra richiamata, di cui alla L. n. 724 del 1942, art. 4 poichè questa, come s’è visto, integra la previsione di riduzione degli onorari contenuta nell’art. 60 in esame, e dunque presuppone che tale riduzione sia stata motivata (cfr. Cass. n. 27804 del 2008).

2.3. Va aggiunto, poi, che la sentenza impugnata è erronea anche per avere proceduto alla liquidazione delle spese – una volta operata la riduzione – in modo forfettario e globale, senza procedere alla necessaria determinazione del valore di ciascuna delle controversie riunite.

2.4. In relazione ai profili sopra evidenziati, dunque, la sentenza impugnata merita di essere censurata. Rimane così assorbito il sesto motivo, con cui i ricorrenti si dolgono della compensazione delle spese relative al giudizio d’appello.

3. Non fondato è invece il quinto motivo.

L’interpretazione che la sentenza impugnata ha dato del contenuto dell’atto di appello non merita le censure che le sono rivolte. Come ripetutamente affermato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra tante, Cass. n. 9378 del 2002, Cass. n. 20261 del 2006), nel giudizio di appello – che non è un “novum iudicium” – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Nel caso concreto – come, del resto, riferisce la stessa parte ricorrente – il giudice del lavoro di primo grado aveva disposto la compensazione parziale delle spese processuali, così come liquidate, giustificando il provvedimento con la (ritenuta) esistenza di una soccombenza parziale essendo la domanda fondata solo in parte. A questa specifica motivazione nessuna esplicita censura viene mossa nell’atto di appello dalla odierna ricorrente, che, significativamente, ancora oggi, insiste nel sostenere la sufficienza -ai fini di una corretta impugnazione (anche) della statuizione di compensazione – della prospettata illegittimità, nella sua interezza, del capo della sentenza relativo alla regolamentazione delle spese e della sua conclusiva espressa richiesta di riforma di tale capo. Restano invece irrilevanti, in quanto svolte solo nel ricorso per cassazione, le considerazioni intese a dare supporto alla tesi della mera pretestuosità della motivazione di compensazione, a fronte dell’asserito totale accoglimento della pretesa azionata.

4. In conclusione, devono essere accolti i primi quattro motivi, nei termini sopra precisati, e rigettato il quinto, con assorbimento del sesto motivo. La decisione impugnata va quindi cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro, che procederà a rideterminare le spese del giudizio di primo grado, attenendosi, per quanto concerne l’applicazione dell’art. 60 in esame, al seguente principio di diritto:

“Il R.D. n. 1578 del 1933, art. 60, comma 5, – disposizione non sostituita, ma solo integrata, da quella contenuta nella L. n. 794 del 1942, art. 4 – consente al giudice di scendere sotto i limiti minimi fissati dalle tariffe professionali quando la causa risulti di facile trattazione, sebbene limitatamente alla sola voce dell’onorario e non anche a quelle dei diritti e delle spese, cui non fa riferimento detta norma, e sempre che sia adottata espressa ed adeguata motivazione con riferimento alle circostanze di fatto del processo, non limitata, pertanto, ad una pedissequa enunciazione del criterio legale, ovvero all’aggiunta dell’elemento estrinseco, meramente indicativo, quale l’identità delle questioni; la riduzione dei minimi previsti dalla tariffa per gli onorari, in ogni caso, non può superare il limite della metà, ai sensi della L. n. 724 del 1942 cit., art. 4 nè, in caso di riunione di cause, esime il giudice – una volta operata la riduzione – dall’obbligo di procedere alla liquidazione mediante la determinazione del valore di ciascuna delle controversie riunite”.

4.1. Il giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi quattro motivi di ricorso nei sensi di cui in motivazione, rigetta il quinto motivo e dichiara assorbito il sesto; cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2010

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