Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13839 del 22/05/2019

Cassazione civile sez. I, 22/05/2019, (ud. 05/02/2019, dep. 22/05/2019), n.13839

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16904/2014 proposto da:

B.G., e O.C., elettivamente domiciliati in

Roma, Via Portuense 104, presso Antonia De Angelis e rappresentati e

difesi dall’avvocato Harald Massimo Bonura, in forza di procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Banco Popolare Società Cooperativa, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via

Carlo Alberto Racchia 2, presso lo studio dell’avvocato Massimo

Mancini, e rappresentata e difesa dall’avvocato Sergio Di Modica, in

forza di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. 1595/2014 della CORTE di APPELLO di MILANO,

depositata il 01/04/2014, e la sentenza n. 450/2013 del TRIBUNALE di

LODI, depositata il 18/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/02/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha chiesto l’inammissibilità e in subordine il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.G. e O.C. hanno evocato in giudizio dinanzi al Tribunale di Lodi Maja Finance s.r.l. e il Banco Popolare Società Cooperativa (già Banca Popolare di Lodi e Banca Popolare Italiana Soc.Coop.) chiedendo il risarcimento dei danni per l’erronea segnalazione dei loro nominativi alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, in relazione ad un credito, relativo allo scoperto di un conto corrente ceduto dalla Banca a Maja Finance nel maggio 2006, che invece era già stato completamente estinto.

Per quanto in questa sede rileva, il Tribunale di Lodi, con sentenza del 18/6/2013, ha rigettato la domanda risarcitoria degli attori, condannandoli a rifondere le spese processuali ai convenuti.

A tal proposito, nonostante che la Banca avesse espressamente riconosciuto di aver erroneamente effettuato il giroconto a sofferenza del conto estinto, determinando così l’automatica segnalazione alla Centrale Rischi, il Tribunale ha osservato che gli attori non avevano provato il nesso causale intercorrente fra l’erronea segnalazione e i danni lamentati, con riferimento sia alla difficoltà di accesso al sistema bancario, sia alla presunta interruzione dei rapporti commerciali con i fornitori privati, assumendo al proposito che costoro non avevano accesso ai dati inseriti nella banca dati della Centrale Rischi.

2. Avverso la sentenza di primo grado hanno proposto appello gli attori, dolendosi della mancata liquidazione equitativa del danno da lesione all’immagine sociale e professionale e del mancato accoglimento delle loro istanze istruttorie.

Con ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. del 15/4/2014 l’adita Corte di appello di Milano ha dichiarato inammissibile l’impugnazione, considerata priva di una ragionevole probabilità di accoglimento, condannando gli appellanti a rifondere le spese processuali alle parti appellate.

Secondo la Corte milanese non era stato contestato il percorso argomentativo del giudice di primo grado posto a presidio della ritenuta esclusione del nesso causale, il che precludeva la richiesta valutazione equitativa; inoltre le istanze istruttorie erano inammissibili, perchè non reiterate in sede di precisazione delle definitive conclusioni di primo grado e pertanto da ritenersi abbandonate.

3. Con atto notificato il 16/6/2014 B.G. e O.C. hanno proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza della Corte di appello di Milano del 15/4/2014, nonchè ex art. 348 ter c.p.c., comma 3, avverso la sentenza del Tribunale di Lodi del 18/6/2013, svolgendo complessivamente otto motivi (i primi cinque diretti contro l’ordinanza della Corte di appello, gli ultimi tre diretti contro la sentenza di primo grado).

Ha resistito con controricorso notificato il 23/7/2014 il Banco Popolare, chiedendo rigetto del ricorso.

Con ordinanza interlocutoria del 2/8/2018 questa Corte ha disposto rimettersi la causa sul ruolo per verificare l’avvenuta notificazione del ricorso anche alla Maja Finance. Espletato positivamente l’incombente con l’acquisizione della predetta notificazione, il ricorso torna a decisione all’udienza del 5/2/2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I primi cinque motivi di ricorso sono diretti contro l’ordinanza 15/4/2014, comunicata il 16/4/2014, che ha dichiarato inammissibile l’appello, ex art. 348 bis e ter c.p.c..

Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348 ter c.p.c. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l’inosservanza delle specifiche previsioni di cui all’art. 348 bis c.p.c., comma 2 e art. 348 ter c.p.c., comma 1, primo periodo e comma 2, primo periodo), purchè compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso, mentre non sono deducibili nè errores in iudicando (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nè vizi di motivazione, salvo il caso (che, però, trascende in violazione della legge processuale) della motivazione mancante sotto l’aspetto materiale e grafico, della motivazione apparente, del contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili ovvero di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile(Sez. 3, 21/08/2018, n. 20861; Sez. 2, 22/02/2018, n. 4308).

In particolare la decisione che pronunci l’inammissibilità dell’appello per ragioni processuali, ancorchè adottata con ordinanza richiamante l’art. 348 ter c.p.c. ed eventualmente nel rispetto della relativa procedura, è impugnabile con ricorso ordinario per cassazione, poichè si tratta, nella sostanza, di una sentenza di carattere processuale che, come tale, non contiene alcun giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame, differendo, così, dalle ipotesi in cui tale giudizio prognostico venga espresso, anche se, eventualmente, fuori dei casi normativamente previsti (Sez. U, n. 1914 del 02/02/2016, Rv. 638370 – 01).

2. Con il primo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, i ricorrenti deducono la nullità della predetta ordinanza, lamentando che la Corte territoriale abbia illegittimamente utilizzato il procedimento sommario, di cui all’art. 348 bis c.p.c., pur avendo pronunciato su una questione di rito (inammissibilità delle istanze istruttorie) che avrebbe invece richiesto la forma della sentenza.

La censura sollevata dai ricorrenti può essere condivisa, sia pure al limitato fine di legittimare l’impugnazione da essi rivolta con i primi cinque mezzi di ricorso avverso il provvedimento della Corte territoriale, in quanto avente valore sostanziale di sentenza, al di là della sua veste formale di ordinanza.

La giurisprudenza di questa Corte infatti esclude la possibilità di pronunciare l’inammissibilità dell’appello per ragioni processuali, con ordinanza richiamante l’art. 348 ter c.p.c., dal momento che una sentenza di carattere processuale, come tale, non contiene il necessario giudizio prognostico negativo circa la fondatezza nel merito del gravame (Sez. un., 02/02/2016, n. 1914).

La Corte territoriale infatti, con il settimo capoverso di pagina 2, ha espresso un giudizio (sostanziale) di inammissibilità per difetto di specificità e pertinenza rispetto alla ratio decidendi del motivo di appello inerente la mancata liquidazione equitativa del danno, assumendo che gli attori appellanti non avessero “adeguatamente contestato il procedimento argomentativo seguito dal giudice di prime cure”.

Inoltre la Corte di appello ha ritenuto inammissibili le istanze istruttorie articolate dai ricorrenti, perchè volte a riproporre in sede di gravame, in violazione del divieto di cui all’art. 345 c.p.c., istanze tacitamente rinunciate in primo grado.

Proprio in tema di valutazione di istanze istruttorie (peraltro nella fattispecie relativa ad istanze formulate in primo grado e non dichiarate inammissibili dal giudice di primo grado) si è espressa la sentenza della Sez. 3, n. 15776 del 29/07/2016 (Rv. 641291 – 01), secondo la quale l’ordinanza di inammissibilità resa ex art. 348 bis c.p.c. che contenga, accanto alla valutazione complessiva, in chiave prognostica, dei motivi di gravame, anche un’ulteriore statuizione di inammissibilità delle istanze istruttorie formulate in primo grado, assume il carattere sostanziale di sentenza, impugnabile con l’ordinario ricorso per cassazione, solo quando le ragioni rilevate ex novo dal giudice di appello si sovrappongano a quelle della decisione di primo grado, in applicazione della efficacia sostitutiva propria della sentenza di appello, sicchè quando la pronuncia aggiuntiva non integra una autonoma ratio decidendi, tale da esaurire o elidere la valutazione di manifesta infondatezza, il motivo di ricorso per cassazione proposto avverso tale ulteriore statuizione va dichiarato inammissibile, per difetto di interesse, restando invece ricorribili avanti la Suprema Corte ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., comma 3, gli accertamenti già compiuti in primo grado.

E’ il caso di precisare che la natura processuale della pronuncia della Corte milanese vale peraltro solo a legittimare la proposizione del ricorso avverso di essa, e non ne travolge affatto di per sè le statuizioni.

3. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss. e art. 2909 c.c., lamentando che la Corte d’appello abbia ritenuto tacitamente rinunziate le istanze istruttorie, perchè non ribadite nella comparsa conclusionale di primo grado, male interpretando il tenore della precisazioni delle conclusioni e non considerando il giudicato interno formatosi in ordine alla decisione di rigetto delle stesse istanze adottata dal Tribunale.

3.1. Con la prima parte della censura i ricorrenti lamentano un’errata applicazione delle norme di interpretazione dei contratti, ritenute implicitamente estensibili all’interpretazione degli atti processuali, senza neppure indicare quale specifica regola sarebbe stata in concreto mal applicata.

Le censure dei ricorrenti sono inficiate in via preliminare dalla loro genericità poichè essi non precisano il contenuto delle richieste istruttorie (peraltro già ritenute irrilevanti dal Tribunale), non ponendo così la Corte in condizione di valutarne la decisività. L’unico e molto generico accenno al capitolato di prova è contenuto a pagina 34 del ricorso, ove si menziona però solo la prassi delle ditte fornitrici di informarsi sulla solidità del cliente consultando banche dati prima di effettuare le consegne di merce.

3.2. Inoltre i ricorrenti nella sostanza invocano una diversa lettura delle loro conclusioni concretamente rassegnate, così sollecitando dalla Corte di legittimità una ricostruzione alternativa della volontà sottesa all’atto processuale, per giunta ammettendo di aver richiamato soltanto le conclusioni di merito e non quelle istruttorie.

In linea generale, la valutazione della manifestazione di volontà contrattuale è giudizio di fatto, come tale affidato alla discrezionalità del giudice di merito e quindi sottratto allo scrutinio di legittimità della Corte di Cassazione, purchè vi sia un’adeguata motivazione a sostegno delle scelte interpretative (Sez. 2, 10/04/2012, n. 5697).

Più in particolare, l’interpretazione operata dal giudice di appello riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di Cassazione comporta l’identificazione della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Sez. lav., 06/02/2006, n. 2467).

Non è quindi consentito in questa sede denunciare l’erronea interpretazione della volontà trasfusa nelle conclusioni di primo grado sotto il profilo della violazione di legge, tanto più che neppure in prospettazione i ricorrenti deducono ragioni di manifesta illogicità della lettura interpretativa operata dai Giudici di appello.

4. Con la seconda parte del secondo motivo i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 2909 c.c., perchè la Corte d’appello aveva ritenuto tacitamente rinunziate le istanze istruttorie, non considerando il giudicato interno formatosi in ordine alla decisione di rigetto delle stesse istanze adottata dal Tribunale.

Tale profilo può essere esaminato congiuntamente al terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, con cui i ricorrenti deducono la nullità dell’ordinanza in relazione al mancato rilievo del giudicato interno sulle istanze istruttorie.

Le censure sono infondate.

4.1. Anche a questo proposito sussiste l’ostacolo insuperabile della mancata specifica descrizione del contenuto delle richieste istruttorie disattese in primo grado e non ammesse neppure in secondo grado.

4.2. In ogni caso, il Giudice di primo grado non si è affatto pronunciato sulla questione delibata dalla Corte di appello (rinuncia tacita alle richieste istruttorie scaturente dalla loro mancata riproposizione in sede di conclusioni definitive), ma si è limitato a ribadire in sentenza la superfluità delle istanze istruttorie degli attori, considerate quindi comunque inammissibili per irrilevanza.

Anche volendo leggere, in controluce, nell’affermazione del Tribunale circa la superfluità della prova (perchè l’errata segnalazione alla Centrale Rischi non poteva essere conosciuta dai fornitori) una sorta di accertamento preliminare implicito di persistente insistenza degli attori nella deduzione probatoria, resta il fatto che il Giudice di primo grado ha ritenuto comunque di non ammettere le prove in questione, semmai per una ragione diversa da quella ulteriore posta in evidenza dalla Corte territoriale, sicchè appare del tutto fuor di luogo discorrere di giudicato interno.

5. Con il quarto motivo proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti denunciano l’omesso esame circa un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, non avendo la Corte d’appello esaminato il profilo del danno all’immagine inteso in re ipsa.

Con il quinto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti lamentano violazione di legge in relazione ai criteri di valutazione del danno non patrimoniale, che il giudice d’appello aveva ritenuto che fosse da dimostrare e non in re ipsa.

5.1. I motivi possono essere esaminati congiuntamente e appaiono comunque infondati.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte il danno all’immagine ed alla reputazione per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi, che pur sempre costituisce “danno conseguenza”, alla luce della più ampia ricostruzione operata dalla fondamentali pronunce delle Sezioni Unite dell’11/11/2008 n. 26972-26975, non può ritenersi sussistente in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento (Sez.3, 19/07/2018, n. 19137; Sez.6, 28/03/2018, n. 7594; Sez.1, 25/01/2017, n. 1931).

5.2. In secondo luogo, i ricorrenti sostengono che i fornitori privati avevano la possibilità di accedere ad altre banche dati per rinvenire informazioni relative alla solidità del cliente, ma non deducono e non dimostrano affatto quel che era stato escluso, ossia che la specifica informazione pregiudizievole sul loro conto contenuta nella Centrale Rischi fosse stata inserita nelle predette banche dati private liberamente consultabili (come sopra rilevato, l’unico generico accenno al capitolato di prova è contenuto a pagina 34 del ricorso, ove si menziona però solo la prassi delle ditte fornitrici di informarsi sulla solidità del cliente consultando banche dati prima di effettuare le consegne di merce).

6. Con il sesto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5 e diretto avverso la sentenza di primo grado, i ricorrenti lamentano l’omesso esame circa fatti decisivi di giudizio, con riferimento a due questioni: la sussistenza in re ipsa di un danno provocato dall’indebita segnalazione alla Centrale Rischi e la mancata considerazione della possibilità dei privati di aver accesso ad altre banche dati, diverse da quella della Centrale Rischi, da cui era possibile attingere informazioni sulla solidità del cliente.

Con il settimo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3 i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 2043 c.c. per le stesse ragioni di cui al precedente motivo.

Con l’ottavo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3 i ricorrenti denunziano violazione del D.M. n. 140 del 2012, avendo il Tribunale liquidato le spese a carico degli attori sulla base del valore originario della causa (Euro 500.000,00), comunque espresso in maniera meramente indicativa, senza tener conto della modifica della domanda con la riduzione della somma richiesta a Euro 150.000,00, effettuata con la prima memoria istruttoria ex art. 183, comma 6, n. 1.

I tre motivi sono inammissibili in quanto dichiaratamente e inequivocabilmente rivolti avverso la sentenza di primo grado, non direttamente censurabile con ricorso per cassazione, ove, come nella fattispecie, sia stato ritenuto proponibile e ammissibile il ricorso avverso l’ordinanza resa dalla Corte di appello ex art. 348 ter c.p.c. in quanto avente valore sostanziale di sentenza.

7. Il ricorso va quindi rigettato in quanto diretto avverso l’ordinanza della Corte di appello e dichiarato inammissibile in quanto rivolto avverso la sentenza di primo grado.

Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso in quanto proposto avverso l’ordinanza della Corte di appello e dichiara inammissibile il ricorso in quanto proposto avverso la sentenza del Tribunale; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente Banco Popolare Società Cooperativa delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 %, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 5 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

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