Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13827 del 09/06/2010

Cassazione civile sez. III, 09/06/2010, (ud. 17/03/2010, dep. 09/06/2010), n.13827

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FILADORO Camillo – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10104-2006 proposto da:

P.P.G., (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in Roma, presso CANCELLERIA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato P.P.G.

difensore di sè medesimo, con studio in 10017 Montanaro (TO), Via

Tremoli, 47;

– ricorrente –

contro

T.U., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA N. PICCIOTTI 11, presso lo studio dell’avvocato SINIBALDI

MICHELE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MANNE

ROBERTO giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 823/2005 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

Sezione 3 Civile, emessa il 14/01/2005, depositata il 20/05/2005;

R.G.N. 2980/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/03/2010 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO

P.P.G., insegnante presso un liceo scientifico di (OMISSIS), evocò in giudizio dinanzi al locale tribunale il preside dell’istituto, T.U., chiedendone la condanna al risarcimento dei danni “non patrimoniali o morali”, ex art. 2059 c.c., conseguenti a comportamenti diffamatori tenuti in suo danno dal convenuto.

Il giudice di primo grado respinse la domanda. L’impugnazione proposta dal P., volta al conseguimento anche del danno esistenziale e biologico (così estesa l’originaria domanda svolta in primo grado e già contenuta in una memoria dichiarata irrituale dal primo giudice) fu rigettata dalla corte di appello di Torino.

La sentenza è stata impugnata dall’appellante con ricorso per cassazione sorretto da 3 motivi e illustrato da memoria.

Resiste con controricorso T.U..

Diritto

IN DIRITTO

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 15; L. n. 241 del 1990, art. 24; D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 161; artt. 326 e 595 c.p.).

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p..

Con il terzo motivo, infine, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c..

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono privi di pregio.

Essi, nel loro complesso, si infrangono, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto impredicabile il lamentato vulnus all’onore e al prestigio del ricorrente, e le ulteriori violazioni di legge lamentate, conseguenti alla condotta del preside dell’istituto scolastico consistita nella lettura e divulgazione, nella seduta del consiglio di istituto, di atti provenienti dall’archivio della scuola, e nella pubblicizzazione della notizia di una ispezione ministeriale cui il P. era stato sottoposto.

Con motivazione ampia, articolata e immune da vizi logico-giuridici, la corte torinese ha, dopo analitica valutazione dei fatti di causa, escluso che il complessivo comportamento tenuto dal preside, sia in sede di consiglio di istituto che altrove, integrasse gli estremi delle violazioni, penali e regolamentari, addebitategli, escludendo, in particolare e del tutto correttamente, il fatto materiale della divulgazione e, nel contempo, il contenuto oltraggioso e offensivo degli scritti, mentre lo stesso elemento soggettivo sotteso alla condotta deLl’odierno resistente viene esattamente ricondotto al più che lecito intento di chiarire l’esatta portata della vicenda che vedeva coinvolto il P. nella sua qualità di docente.

Vero è che i motivi dianzi esposti, nel loro complesso, pur lamentando formalmente una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., n. 5 non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd.

legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) si come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

La disciplina delle spese – che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate – segue come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 17 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2010

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