Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13821 del 06/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 06/07/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 06/07/2020), n.13821

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 13749/2013 R.G. proposto da:

s.r.l. Romani Components, in persona del l.r.p.t., rappresentata e

difesa dall’avv. Riccardo Conte, elettivamente domiciliata in Roma

alla via dei Gracchi n. 6, presso l’avv. Giuseppe Miani;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa, ai soli fini dell’eventuale partecipazione

all’udienza, dall’Avvocatura generale dello Stato, presso cui

domicilia in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– intimata –

avverso la sentenza n. 134/45/12 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, depositata in data 5 dicembre 2012 e non

notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12 febbraio 2020

dal consigliere Andreina Giudicepietro;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Tommaso Basile, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso;

udito l’Avv. Riccardo Conte per la ricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La s.r.l. Romani Components ricorre con cinque motivi contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n. 134/45/12 della Commissione tributaria regionale della Lombardia (di seguito C.t.r.), depositata in data 5 dicembre 2012 e non notificata, che ha rigettato l’appello della contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento di maggiori imposte Ires, Irap ed Iva per l’anno di imposta 2004 sulla base degli studi di settore.

2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r. ha ritenuto che la ricorrente non avesse fornito la prova delle giustificazioni addotte in relazione alle incongruenze rilevate dall’Ufficio.

3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate si è costituita al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza.

4. Il ricorso è stato fissato alla pubblica udienza del 12 febbraio 2020.

5. La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2769 e 2729 c.c., degli artt. 112 e 115 c.p.c. del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, artt. 62 bis e 62 sexies, della L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5.

Secondo la ricorrente (lett. a del primo motivo), la C.t.r. avrebbe male interpretato le suddette norme, finendo per invertire l’onere della prova a carico dell’Agenzia delle entrate e ritenendo legittimo l’accertamento sugli studi di settore, senza ulteriori elementi ed indizi e senza che l’Amministrazione argomentasse in ordine alle giustificazioni fornite dal contribuente.

La ricorrente deduce, inoltre (lett. b del primo motivo), che la C.t.r. avrebbe omesso di considerare le prove addotte dalla contribuente ed ha ritenuto fondata la pretesa dell’amministrazione finanziaria per lo scostamento dagli studi di settore e l’antieconomicità dell’attività d’impresa per soli due anni, senza prendere in alcuna considerazione le giustificazioni e le prove addotte dalla contribuente.

La C.t.r. si sarebbe limitata ad affermare che l’Ufficio aveva replicato compiutamente alle obiezioni della contribuente, senza alcuna motivazione in merito.

1.2. Il motivo è infondato.

1.3. Secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente; in tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto e delle ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente.

L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte (cfr. Cass., Sez. U, n. 26635/2009).

Nel caso in esame, è circostanza pacifica tra le parti che l’amministrazione abbia applicato lo studio di settore dichiarato dalla stessa società contribuente per gli anni oggetto di contestazione.

Il giudice di appello ha ritenuto, quindi, che vi fosse la prova della adeguatezza dello studio di settore applicato, relativo alla “fabbricazione di parti intercambiabili”, considerando che la società per nove anni continuativi aveva indicato tale parametro, corrispondente, per sua stessa ammissione, al tipo di attività svolta in maniera prevalente.

Secondo la C.t.r., a fronte di tale quadro indiziario, la contribuente aveva l’onere probatorio di dimostrare che i parametri utilizzati erano in sè erronei, perchè basati su elementi fattuali non corrispondenti alla realtà, ovvero che l’Agenzia è incorsa in un errore operativo nell’applicare i parametri alla sua realtà, o ancora l’estraneità della propria attività rispetto alla tipologia alla quale quei parametri intendono riferirsi e la sussistenza, nella propria attività, di caratteri anomali, cioè di elementi che la diversificano rispetto a quelle in riferimento alle quali è stata individuata la normalità reddituale.

Nel merito, il giudice di appello ha ritenuto che non sussistessero elementi indiziari da cui trarre con univocità il dedotto errore nell’indicazione dei parametri.

La C.t.r., infatti, ha rilevato che la società ricorrente aveva chiesto la modifica del parametro, originariamente indicato nell’anno 2000 per l’attività di produzione di parti intercambiabili di macchine utensili, solo dopo avere avuto rituale contezza dell’avvio di un’attività di verifica con l’invito al contraddittorio e, peraltro, a distanza di nove anni dalla costituzione della società.

Inoltre, secondo il giudice di appello, non era “oggetto di contestazione il fatto che la società operasse tanto nel settore della produzione quanto in quello della commercializzazione di prodotti di altrui fabbricazione, si che avrebbe dovuto la stessa dimostrare quantomeno la prevalenza di quest’ultima, nel tempo sempre maggiormente realizzatasi”, conclusione che, secondo la C.t.r., risulterebbe contraddetta, sia dalle affermazioni contenute nel ricorso, sia dalla riferita acquisizione nel 2003 di quote di ulteriori aziende produttive.

Rileva, infatti il giudice di appello che la stessa ricorrente, nell’originario ricorso introduttivo, avrebbe precisato di non aver mutato il proprio codice perchè, nonostante l’acquisizione di un ramo di azienda rivolto alla commercializzazione di componenti industriali dopo soli due mesi dalla propria costituzione, l’attività di produzione risultava essere ancora la sua principale.

Pertanto non si ravvisa un’inversione dell’onere probatorio, nè la violazione delle norme sull’accertamento presuntivo, denunziate con il primo motivo di ricorso, in quanto la C.t.r. ha ritenuto che vi fosse la prova dell’applicabilità dello studio di settore, relativo all’attività effettivamente esercitata, e che la contribuente non avesse provato, nè di aver commesso un errore nell’indicazione del parametro, nè che vi fosse una giustificazione allo scostamento riscontrato.

2.1. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la ricorrente, la C.t.r. non ha ritenuto ammissibile la rettifica del codice di attività della società, ritenendola tardiva, pur essendo intervenuta prima dell’avviso di accertamento.

Ciò in violazione dell’articolo citato e del principio di emendabilità della dichiarazione, enunciato dalla Corte di Cassazione, secondo cui “la dichiarazione dei redditi del contribuente, affetta da errore sia esso di fatto che di diritto commesso dal dichiarante nella sua redazione, è emendabile e ritrattabile anche in sede contenziosa, quando dalla medesima possa derivare l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico” (vedi Cass. n. 5399/2012).

2.2. Il motivo è infondato.

2.3. Per quanto riguarda l’errore sull’indicazione del parametro, il giudice di appello ha ritenuto che non si potesse evincere dagli elementi acquisiti.

In particolare, la C.t.r., pur affermando la tardività della dichiarazione di emenda dell’errore sull’indicazione del parametro, avvenuta in corso di verifica dopo l’invito al contraddittorio, ha comunque esaminato l’eccezione relativa all’inadeguatezza del parametro applicato, evidentemente riconoscendo alla contribuente la possibilità di provare in giudizio la sussistenza di tale errore, per opporsi alla pretesa dell’amministrazione, che si asserisce fondata sulla indicazione erronea.

Ciò, sostanzialmente, in conformità con l’orientamento espresso di recente dalle Sezioni Unite di questa Corte in tema di correzione della dichiarazione, secondo cui “la possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi, per correggere errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior reddito o, comunque, di un maggior debito d’imposta o di un minor credito, mediante la dichiarazione integrativa di cui all’art. 2, comma 8 bis, è esercitabile non oltre il termine prescritto per la presentazione della dichiarazione relativa ai periodo d’imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante. La possibilità di emendare la dichiarazione dei redditi conseguente ad errori od omissioni in grado di determinare un danno per l’amministrazione, è esercitabile non oltre i termini stabiliti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43. Il rimborso dei versamenti diretti di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, è esercitabile entro il termine di decadenza di quarantotto mesi dalla data del versamento, indipendentemente dai termini e modalità della dichiarazione integrativa di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2, comma 8 bis. Il contribuente, indipendentemente dalle modalità e termini di cui alla dichiarazione integrativa prevista dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2 e dall’istanza di rimborso di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, in sede contenziosa, può sempre opporsi alla maggiore pretesa tributaria dell’amministrazione finanziaria, allegando errori, di fatto o di diritto, commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria” (Cass. S.U. sent. n. 13378/2016).

Quindi, il secondo motivo di ricorso non è fondato, poichè non vi è stata violazione del D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 2, avendo il giudice di appello riconosciuto alla contribuente la possibilità di provare in sede giudiziale l’eventuale errore nell’indicazione del parametro applicabile all’attività effettivamente svolta, ma avendo escluso nel merito l’avvenuta dimostrazione.

3.1. Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento a fatti ritenuti erroneamente pacifici.

Secondo la ricorrente, il giudice di appello avrebbe considerato che “non era oggetto di contestazione il fatto che la società operasse tanto nel settore della produzione quanto in quello della commercializzazione di prodotti di altrui fabbricazione, sì che avrebbe dovuto la stessa dimostrare quantomeno la prevalenza di quest’ultima, nel tempo sempre maggiormente realizzatasi, il che risulta peraltro contraddetto sia dalle già dianzi riportate affermazioni contenute nel ricorso – relative al fatto che l’attività produttiva era quella principale – sia dalla riferita acquisizione nel 2003 di quote di ulteriori aziende produttive (cfr. ricorso di primo grado)”.

Tale affermazione, secondo la contribuente, contrasta con il tenore letterale del ricorso di primo grado, in cui la ricorrente afferma solo che “le parti intercambiabili di macchine ed utensili ed operatrici… costituivano l’oggetto principale dell’attività”, senza alcun riferimento all’attività produttiva.

3.2. Il motivo è inammissibile.

3.3. Le affermazioni del giudice di appello sono contestate dalla ricorrente, la quale deduce di non aver mai ammesso di aver svolto attività produttiva.

Il motivo, quindi, mira a porre in discussione l’apprezzamento della sussistenza o della insussistenza della non contestazione compiuta dal giudice di merito; tale apprezzamento esige l’interpretazione della domanda e delle deduzioni delle parti ed è perciò riservato al giudice di merito, essendo sindacabile in cassazione solo per difetto assoluto o apparenza di motivazione o per manifesta illogicità della stessa.

Come è stato detto, “l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27490 del 28/10/2019; vedi anche Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 3680 del 07/02/2019).

4.1. Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione degli artt. 2082 e 2462 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

In particolare, la ricorrente rileva come l’acquisizione nel 2003 di quote di società produttive non modifichi la natura commerciale dell’attività svolta dalla società contribuente.

4.2. Il quarto motivo è inammissibile, in quanto, pur denunziando la violazione delle norme codicistiche in tema di attività d’impresa, in realtà è volto a censurare la valutazione degli elementi di fatto compiuta dal giudice di appello, con un giudizio di merito che sfugge al sindacato di legittimità.

5.1. Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia l’inesistenza della motivazione su di un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e la violazione dell’art. 112 c.p.c..

Secondo la ricorrente, la C.t.r. avrebbe omesso di motivare in ordine ad una serie di circostanze, quali problematiche del mercato e perdita di competitività, in relazione alla struttura aziendale, dedotte dalla contribuente a giustificazione dello scostamento dallo studio di settore.

5.2. Anche il quinto motivo risulta inammissibile, in quanto, denunziando l’omesso esame di una serie di argomentazioni ed elementi probatori dedotti dalla ricorrente, sostanzialmente tende ad una rivalutazione del merito della causa, insindacabile in Cassazione.

Pertanto, il ricorso va complessivamente rigettato.

Nulla deve disporsi in ordine alle spese, poichè l’Agenzia delle entrate non ha svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2020

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