Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1381 del 21/01/2011

Cassazione civile sez. trib., 21/01/2011, (ud. 11/11/2010, dep. 21/01/2011), n.1381

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – rel. Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20466/2006 proposto da:

B.E., elettivamente domiciliato, in ROMA VIA CELIMONTANA 38

presso lo studio dell’avvocato PANARITI Benito Piero, che la

rappresenta e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI PRATO (OMISSIS), in persona del

Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

sul ricorso 32621/2006 proposto da:

B.E., elettivamente domiciliate in ROMA VIA CELIMONTANA 38,

presso lo studio dell’avvocato PANARITI BENITO, rappresentata e

difesa dagli avvocati TRIPPANERA FILIPPO, DI FALCO ADRIANO, giusta

delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI PRATO (OMISSIS), in persona del

Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso le sentenze n. 21/2005 e n. 79/2005 della COMM. TRIB. REG. di

FIRENZE, depositata il 18/05/2005 e l’08/10/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

11/11/2010 dal Consigliere Dott. ETTORE FERRARA;

udito per il ricorrente l’Avvocato PANARITI BENITO per delega Avv. DI

FALCO ADRIANO, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con due distinti atti notificati il 25.9.2001 l’Ufficio Provinciale di Prato (OMISSIS) della Agenzia delle Entrate accertava a carico della contribuente B.E., rispettivamente per l’anno 1995 e per l’anno 1996, una maggiore imposta sul reddito persone fisiche nella misura di L. 3.334.000 e di L. 1.229.000 in conseguenza in entrambi i casi del mancato riconoscimento degli oneri portati in deduzione nella dichiarazione.

La B. proponeva autonomi ricorsi dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Prato per impugnare i due accertamenti, insistendo nella deducibilità degli oneri indicati, alla luce della L. n. 825 del 1971, e dei principi costituzionali in materia di capacità contributiva, sollevando la questione di illegittimità costituzionale del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 10 e 13 (T.U.I.R.) con riferimento agli artt. 2, 3 e 53 Cost., ma in entrambe le procedure il giudice adito rigettava il ricorso, ritenendo manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata, e la sentenza, appellata dalla contribuente, venivano successivamente confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana rispettivamente con le sentenze n. 21/33/05, depositata il 18.5.2005, e n. 79, depositata il 8.10.2005.

Per la cassazione delle sentenze di appello ha proposto ancora una volta due autonomi ricorsi la B., articolando quattro motivi, successivamente sostenuti anche con memorie aggiunte.

In entrambe le procedure resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente rileva la Corte doversi procedere alla riunione del ricorso R.G. n. 32621/06 a quello R.G. n. 20466/06, ex art. 274 c.p.c., trattandosi di ricorsi tra le stesse parti che traggono origine dall’impugnazione di avvisi di accertamento relativi ad annualità contigue, notificati all’esito di un’unici verifica fiscale, effettuata dal competente ufficio finanziario sulla base degli stessi riscontri (cfr. Cass. 11.5.2007, n. 10792).

Tanto premesso, in entrambe le procedure con il primo motivo deduce la ricorrente il vizio di violazione e falsa applicazione della L. 9 ottobre 1971, n. 825, artt. 1 e 2 e degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., assumendo che la legge citata, nel delegare il Governo alla istituzione dell’Irpef, avrebbe previsto la necessità che l’imposta fosse applicata al reddito complessivo netto del contribuente e che a tal fine si sarebbe dovuto prevedere la deduzione dal reddito complessivo di oneri e spese rilevanti che incidono sulla situazione personale del soggetto; per la disciplina della gerarchia delle fonti, il T.U.I.R. non avrebbe potuto disporre diversamente in proposito, portando ad escludere nel caso di specie la deducibilità di spese per essa necessarie, onde la sopravvivenza delle norme previste nella legge delega.

Tralasciando, per il momento, la censura di illegittimità costituzionale qui genericamente formulata, e che costituisce invece lo specifico oggetto del successivo motivo di ricorso, osserva la Corte che, anche a prescindere dai contenuti effettivi della legge delega (sui quali più innanzi si dirà), del tutto erronea, almeno nei termini in cui risulta formulata, è l’affermazione secondo la quale: “Il principio gerarchico delle fonti del diritto esclude infatti che una norma di rango inferiore possa abrogare una norma di rango superiore, e ciò è tanto più vero se è proprio quest’ultima a dare forza e validità alla prima”. Ed invero, l’affermazione in astratto corretta, non è riferibile al caso in esame nel quale il rapporto è tra legge delega e legge delegata, che è atto equiparato a tutti gli effetti alla legge ordinaria, e pertanto avente pari forza di legge. Altro sarebbe ipotizzare l’inosservanza dei limiti posti al Governo con la legge delega citata, e quindi la violazione dell’art. 76 Cost.: in tal caso, invero, non sarebbe certamente invocabile la sopravvivenza del principio contenuto nella delega, come pretenderebbe la ricorrente, ma si porrebbe un problema di violazione dei limiti posti alla potestà legislativa delegata a Governo (art. 76 Cost.), violazione da accertarsi unicamente da parte della Corte Costituzionale, eventualmente investita della questione.

Negli esposti termini però il problema, posto dalla parte soltanto con la memoria di discussione, ma in ogni caso esaminabile d’ufficio da parte della Corte, risulta assolutamente privo di fondamento. Ed invero, per quanto in questa sede rileva, deve osservarsi che la legge delega si limitava a prevedere che: 1) l’imposta sul reddito fosse applicata ai reddito complessivo netto delle persone fisiche;

2) fossero previste deduzioni di oneri e spese rilevanti che incidano sulla situazione personale del soggetto; 3) fosse inoltre prevista per i lavoratori dipendenti e per altre categorie di contribuenti, una ulteriore detrazione forfettaria sia per le spese inerenti la produzione del reddito che per le spese di cui al punto 2) che precede, fatta salva per queste ultime la facoltà per l’interessato di richiedere la deduzione dal reddito della spesa nella sua effettiva misura. Tutti tali limiti risultano rispettati dal legislatore delegato con il D.P.R. n. 917 del 1986 (T.U.I.R.) dovendosi intendere per “reddito netto” (art. 2, comma 1, n. 2 cit.

T.U.I.R.) quello al netto dei costi di produzione, e non anche, secondo l’accezione ampia fatta propria dalla ricorrente, quello al netto di qualsiasi onere o spesa sostenuta per le esigenze di vita del contribuente. Queste ultime, in tanto possono assumere rilievo ai fini del computo della base imponibile, in quanto comprese tra gli oneri deducibili previsti dall’art. 2, comma 1, n. 6 della Legge Delega (oneri e spese rilevanti che incidono sulla situazione personale del soggetto) proprio al fine di conciliare le conseguenze della valutazione analitica delle singole manifestazioni di capacità contributiva, con una considerazione globale della stessa, essenziale ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost.. Oneri deducibili che il legislatore delegato ha previsto all’art. 10 del cit. T.U.I.R. così rispettando il secondo dei limiti innanzi indicati come posti dalla legge delega, individuando, nella sua discrezionalità, quali fossero gli oneri e le spese di carattere generale ritenute meritevoli di essere computate ai fini della valutazione della effettiva capacità contributiva del cittadino, e non potendosi affatto ritenere il Governo obbligato a ritenere deducibile qualsiasi onere o spesa sostenuto dal contribuente in funzione della sua situazione personale, con il paradossale effetto di rendere tassabile solo il risparmio (in tal senso v. anche Corte Costituzionale sent. N. 227/1998). Nella stessa prospettiva indiscutibilmente rispettato risulta infine, il terzo dei limiti innanzi specificato, avendo il legislatore previsto per i lavoratori dipendenti le detrazioni forfettarie indicate nella legge delega, e dovendosi intendere la facoltà del contribuente di chiedere “la deduzione dal reddito nell’effettiva misura”, così come prevista alla Legge Delega n. 825 del 1971, art. 2, n. 9, con specifico riferimento solo agli oneri e alle spese di cui al n. 6 che precede, come riferita, in maniera forse anche pleonastica, ma comunque coerente, a quanto già stabilito in via di principio da quest’ultima norma, e successivamente tradotto dal legislatore delegato nella previsione dell’art. 10 del cit. T.U.I.R., senza nessuna necessità di ulteriore intervento in sede di decreto delegato. Con la qual cosa vuoi in sostanza affermarsi che la Legge Delega all’art. 2, n. 6 ha previsto che il legislatore delegato individuasse, per i lavoratori dipendenti, e nella sua discrezionalità, quali fossero gli oneri e le spese, estranei alla produzione del reddito, ma rilevanti e tali da incidere sulla situazione personale del soggetto, da ritenersi analiticamente deducibili, mentre all’art. 2, n. 9 a ulteriore vantaggio della stessa categoria di contribuenti ha previsto anche, peri medesimi oneri, una detrazione forfettaria, che non ne esclude la deduzione analitica laddove il contribuente sia in condizioni di provvedervi, e il T.U.I.R. pienamente ha rispettato quelle previsioni. La questione comunque nessun rilievo assume nel caso in esame nel quale è incontestato il fatto che si discuta di oneri estranei alla previsione di cui all’art. 10 T.U.I.R. con il quale il legislatore delegato ha dato concretezza alla previsione dell’art. 2 comma 1 n. 6 della legge delega, così che in nessun modo potrebbe ammettersi la”facoltà del soggetto di chiederne invece la deduzione dal reddito nell’effettiva misura”.

Con il secondo motivo deduce la B. nuovamente e più specificamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost..

Il motivo è anch’esso infondato, se non addirittura inammissibile.

Ed infatti la ricorrente sembra eccepire la illegittimità costituzionale di un atto amministrativo, pacificamente adottato in applicazione della disciplina del T.U.I.R. (art. 10) senza neanche preoccuparsi, nella formulazione del motivo, di indicare quali norme di legge sarebbero in contrasto con i citati precetti costituzionali, secondo uno schema procedurale dal quale giammai potrebbe prescindersi affinchè, ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità proposta, si intendesse rimettere la stessa al giudice delle leggi. E’ solo da una integrazione contenuta nell’ultima pagina del ricorso (par. 18, per il ricorso n: 20466/06, e pag. 24 per il ricorso n. 32621/06), e dalle successive memorie di discussione, infatti, che dovrebbe desumersi il riferimento del vizio di incostituzionalità dedotto, agli artt. 10 e 13 del T.U.I.R..

Anche così integrato ed interpretato il motivo di ricorso, lo stesso risulta ancora inammissibile perchè la ricorrente non ha minimamente assolto l’onere che su di essa gravava di dimostrare la rilevanza della questione nel caso in esame, quanto meno specificando quali oneri avesse concretamente portato in detrazione, e come essi potessero ritenersi “necessari” per la sua “situazione personale”.

La questione stessa, infine, risulta correttamente ritenuta dai giudici di merito manifestamente infondata: ed infatti, ribadito in questa sede quanto già innanzi esposto in ordine al preteso contrasto anche con l’art. 76 Cost. (recuperato in memoria di discussione dalla difesa della B.), le diverse caratteristiche delle categorie di contribuenti assoggettate dal T.U.I.R. ad una disciplina differenziata per quanto relativo agli oneri deducibili, legittimano il legislatore a prevedere, nella sua discrezionalità, regimi fiscali diversi, senza che sussista alcuna violazione dell’art. 3 Cost.. Il preteso contrasto con l’art. 23 Cost. è invece escluso da quanto innanzi già rilevato in ordine alla forza di legge del decreto delegato, mentre del tutto generiche, infondate ed inconsistenti sono le argomentazioni esposte a sostegno della presunta violazione dell’art. 53 Cost.. A tal riguardo, invero, non può non rilevarsi che assolutamente inaccettabile è il concetto di “capacità contributiva concreta” proposto dalla ricorrente, non fosse altro che per il paradossale effetto che inevitabilmente comporterebbe di ritenere tanto più bassa la capacità contributiva del cittadino, quanto maggiore risulti il suo livello di spesa, laddove invece è di intuitiva evidenza come nella realtà delle cose sia esattamente il contrario essendo il livello di spesa più elevato indice di una maggiore capacità contributiva. Del tutto improprio è poi, nel caso di specie, il richiamo al divieto della doppia imposizione così come quello ai criteri di progressività previsti dal nostro sistema fiscale, posto che il primo, e tutto quanto da esso pretenderebbe desumere la ricorrente, si riferisce all’ipotesi, assolutamente estranea ai fatti di causa, di applicazione della stessa imposta “allo stesso presupposto” (laddove nel caso in esame si realizzerebbe la tassazione di presupposti diversi, tali dovendosi considerare i redditi della contribuente e dei suoi fornitori), e che i criteri di progressività risultano pienamente osservati dalla normativa relativa alle imposte sui redditi.

Con il terzo motivo deduce la ricorrente il vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, assumendo trattarsi di normativa entrata in vigore successivamente ai fatti sanzionati).

Il motivo per quanto relativo al ricorso R.G. n. 20466/06 è inammissibile poichè la questione della sanzione risulta in quel processo proposta per la prima volta in questa sede, non essendovi di essa traccia in sentenza, e non avendo la B. specificato dove e quando l’abbia proposta precedentemente. E’ invece infondato per quanto relativo al ricorso n. 32621/06. Il sistema sanzionatorio amministrativo vigente in materia tributaria è invero costituito dalla combinazione delle disposizioni generali contenute nel D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, con le disposizioni specificamente dettate per le singole imposte, e così in particolare per le imposte dirette dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. Il D.Lgs. n. 472 del 1997, che pone la normativa quadro al cui interno devono poi collocarsi le disposizioni speciali previste per le varie imposte, all’art. 3, nel fissare il principio di legalità, stabilisce al primo comma che:

“Nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione”, e aggiunge poi al comma 3 che: “se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diverse, si applica la legge più favorevole……”. Nel caso in esame la configurabilità come illecito amministrativo della dichiarazione infedele, anche sotto il regime antecedente alla riforma del 1997, è incontestabile, e sostanzialmente incontestata, riferendosi la censura esclusivamente alla sanzione concretamente inflitta, ma proprio per questa ragione la ricorrente avrebbe dovuto, per proporre adeguatamente la sua doglianza, quanto meno dedurre che la sanzione ad essa applicabile in forza del precedente quadro normativo, sarebbe stata più favorevole.

Non avendo essa soddisfatto tale esigenza inevitabilmente ne consegue la conclusione innanzi esposta.

Con il quarto e ultimo motivo denuncia infine la contribuente il vizio di omessa, insufficiente, o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento alle argomentazioni esposte dal giudice del gravame per affermare la manifesta infondatezza della eccezione di incostituzionalità sollevata. Anche tale motivo è inammissibile giacchè il difetto di motivazione della sentenza può formare oggetto di ricorso per cassazione solo per quanto attiene all’accertamento e alla valutazione dei “fatti” rilevanti per la decisione, e non anche per quanto concerne le questioni di diritto (giurisprudenza consolidata;

per tutte v. Cass. 14.7.2010, sent. n. 16531; 20.10.2005, n. 20322).

La censura non può trovare ingresso, pertanto, nel caso in esame, facendo essa riferimemto all’interpretazione delle norme contenute nella legge delega e in Costituzione, e alle ragioni di diritto che hanno indotto il giudice di merito ad affermare la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata.

I ricorsi devono pertanto essere entrambi rigettati, con condanna della ricorrente al rimborso delle spese anche del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi R.G. n. 20466/06 e n. 32621/06 e li rigetta.

Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per il primo ricorso in Euro 600,00 oltre spese prenotate a debito, e per il secondo in Euro 500,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2011

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