Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13803 del 23/06/2011

Cassazione civile sez. I, 23/06/2011, (ud. 02/02/2011, dep. 23/06/2011), n.13803

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 25211 dell’anno 2008 proposto da:

R.L.B. – N.V. – N.R.

F. – N.S. – N.G. elettivamente

domiciliati in Roma, via Lorenzo Magalotti, n. 15, nello studio

dell’avv. Andrea Saldutti; rappresentati e difesi dall’avv. BIGAZZI

SILVANO, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, nei cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12,

è per legge domiciliato;

avverso il decreto della Corte di Appello di Caltanissetta. n. 119,

depositato in data 25 luglio 2007;

sentita la relazione all’udienza del 2 febbraio 2011 del consigliere

Dott. Pietro Campanile;

sentita per i ricorrenti l’avv. Cecilia Furitano, munita di delega,

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del sostituto

Dott. Federico Sorrentino, il quale ha concluso per l’accoglimento

del terzo motivo del ricorso, rigettati gli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con decreto depositato in data 25 luglio 2007 la Corte d’appello di Caltanissetta condannava il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di Ni.Ga. della somma complessiva di Euro 17.600,00, a titolo di indennizzo del pregiudizio di natura non patrimoniale, in conseguenza del superamento del termine di ragionevole durata di un procedimento civile iniziato dalle danti causa del ricorrente, nell’ambito di una vicenda relativa, alla restituzione dei frutti di un’azienda che gestiva un acquedotto, intrapreso nel lontano 9 febbraio 1931, e conclusosi con decisione di questa Corte pubblicata il 7 ottobre 2005.

1.1 – A fondamento della decisione, la Corte di merito rilevava che, non potendosi tener conto del periodo anteriore al 1 agosto 1973, data del riconoscimento della facoltà di ricorso individuale alla Commissione Europea, il periodo di non ragionevole durata del procedimento dovesse determinarsi in anni ventidue.

Precisato che l’indennizzo doveva intendersi liquidato al Ni. in parte prò quota (come erede delle originarie parti L. e C.G.) ed in parte iure proprio, veniva escluso che fosse stata fornita la prova della sussistenza del richiesto danno patrimoniale.

1.2 – Per la cassazione di tale decreto ricorrono la R. e gli altri soggetti indicati in epigrafe, quali eredi del Ni., sulla base di tre motivi.

Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2.1 – Con il primo motivo viene denunciata, formulandosi idoneo quesito di diritto, violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 1 Cedu e della L. n. 89 del 2001, art. 2, nonchè della L. n. 848 del 1955 di ratifica di detta convenzione, censurandosi l’individuazione, per la decorrenza della determinazione del periodo di durata non ragionevole, del termine iniziale del 1 agosto 1973, data a partire dalla quale si è reso possibile il ricorso individuale alla Commissione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Si sostiene che l’equa durata del processo è riconosciuta dalla Convenzione come diritto primario, la cui tutela non può essere ostacolata da una questione di mero carattere procedurale.

La censura non può essere condivisa, ragion per cui deve rispondersi negativamente al proposto quesito. Il fatto costitutivo del diritto all’equa riparazione è individuabile direttamente nella violazione dell’art. 6 della Convenzione, al quale va riconosciuta immediata rilevanza nel diritto interno, per effetto della ratifica intervenuta con L. 4 agosto 1955, n. 848 (cfr. Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2005, n. 28507; Cass. Sez. 1^, 1 marzo 2007, n. 4842). Con tale ratifica, peraltro, non venne dato immediato ingresso all’azione di riparazione, che era condizionata all’accettazione di una clausola opzionale che prevedeva il riconoscimento della competenza della Commissione (oggi, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) da parte dello Stato contraente. Poichè per l’Italia tale accettazione è intervenuta soltanto il 31 luglio 1973, il calcolo della ragionevole durata non può tener conto del periodo di svolgimento del processo presupposto anteriore al 1 agosto 1973 (cfr. Cass., 3 dicembre 2010, n. 24621; Cass., 10 luglio 2009, n. 16284; Cass., 20 giugno 2006, n. 14286).

La tesi sostenuta nel ricorso impinge contro la natura pattizia del riconoscimento della responsabilità dei singoli Stati per la violazione del principio della durata ragionevole del processo, con la conseguenza che solo i fatti successivi a tale data possono essere contestati allo Stato italiano (Cass., 3 gennaio 2008, n. 9; Corte EDU, 19 dicembre 1991, Br. e. Italia; Corte EDU, 25 giugno 1987, Ba c. Italia).

2.2 – Il secondo motivo, con il quale viene riproposta la medesima censura, prospettata sotto il profilo del vizio motivazionale inerente alla non risarcibilità del periodo anteriore al 1 agosto 1973, è evidentemente assorbito dal rigetto del precedete mezzo, sulla base delle esposte considerazioni.

2.3 – Con il terzo motivo si denuncia violazione della L. n. 89 del 2001, con particolare riferimento alla natura personale del danno non patrimoniale cagionato del protrarsi della causa oltre il limite ragionevole, per non aver la corte territoriale considerato che il ricorrente agiva iure proprio e quale erede universale di Letizia e C.G.. Il motivo, per il quale risulta formulato idoneo quesito di diritto, è fondato.

Nella sentenza impugnata si legge che la determinazione quantitativa (e complessiva) dell’indennizzo “deve intendersi in parte prò quota (essendo l’Ing. Ni. erede di C.L. e G., originarie parti del processo) e solo in parte iure proprio, quale parte del processo”.

Ben vero la Corte di appello, pur dando atto che il ricorrente agiva sia in proprio sia quale erede della madre e della zia L. e C.G., ha proceduto alla liquidazione del pregiudizio di natura non patrimoniale, attribuendo la complessiva somma di Euro 17.600, senza alcuna specificazione, e quindi, senza tener conto delle rispettive posizioni soggettive e, in particolare, della diversa natura delle pretese avanzate iure successionis e iure proprio.

Soccorre, in proposito, il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui la necessità di una costituzione in giudizio della parte che invoca la tutela della legge a sanzionare l’irragionevole durata è premessa indiscutibile per una ragionevole operatività dell’intero sistema di cui alla L. n. 89 del 2001, non potendo operare, in difetto di tale coszituzione, lo scrutinio sul comportamento della parte delineato dall’art. 2, comma 2, della legge e non essendo neppure esercitabili i poteri di liquidazione equitativa dell’indennizzo correlati, ragionevolmente, al concreto patema che sulla parte ha avuto la durata del processo (Cass., Sez. Un., n. 1338/2004).

Si imponeva, e dovrà quindi essere effettuata in sede di rinvio, una verifica dei tempi di durata del processo presupposto relativamente a ciascuna delle danti causa; nè va esclusa la necessità di stabilire, con riferimento al diritto azionato iure proprio, in quale misura il medesimo giudizio, dopo l’intervento dell’ing. Ni., abbia ecceduto i limiti di durata ragionevole.

Quanto a quest’ultimo profilo, vale bene precisare che tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, qualora la parte costituita in giudizio sia deceduta anteriormente al decorso del termine di ragionevole durata del processo, l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo, “iure proprio”, soltanto per il superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di parte, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, la continuità della sua posizione processuale rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema sanzionatorio delineato dalla Cedu e tradotto in norme nazionali dalla L. n. 89 del 2001, non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi modulabili in relazione al concreto patema subito, il quale presuppone la conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (Cass. 4 novembre 2009, n. 23416; Cass., 7 febbraio 2008, n. 2983).

In definitiva, in luogo di una liquidazione complessiva, priva di qualsiasi specificazione, dovrà procedersi a una ricostruzione analitica delle singole; posizioni delle parti del processo, senza escludere la possibilità di un cumulo fra danno morale sofferto da una delle danti causa e, contemporaneamente, dall’erede nel frattempo intervenuto nel processo, in quanto non sussiste incompatibilità alcuna fra il pregiudizio da costui sofferto personalmente e quello che lo stesso soggetto fa valere “iure successionis”, in quanto già entrato a far parte del patrimonio del proprio dante causa (Cass., 25 febbraio 1997, n. 1704).

2.4 – Il quarto motivo è inammissibile, sia perchè a fronte della pluralità delle questioni dedotte viene formulato un quesito unico (Cass., 23 luglio 2007, n. 16275; Cass., 19 dicembre 2006, n. 27130;

Cass. Sez. Un., 9 marzo 2009, n. 5624), sia perchè lo stesso quesito non è coerente con la ratio decidendi della sentenza, espressamente richiamata nel ricorso (attinente essenzialmente all’esclusione che le spese processuali, “nemmeno quantificate” possano costituire “una conseguenza immediata e diretta della irragionevole durata del processo”), deducendosi una generica censura, per altro relativa a una questione essenzialmente di merito, circa l’omessa liquidazione, in via equitativa, di un pregiudizio di natura esistenziale, correlato al mancato godimento, “da parte di intere generazioni”, del bene della vita che costituiva l’oggetto del tormentato giudizio.

Non risulta ben vero, censurata la rilevata assenza del nesso di causalità fra la durata non ragionevole del processo e il danno derivante dalle condotte illecite delle controparti, di cui si controverteva nella causa antecedente, ed il cui soddisfacimento per altro, secondo l’insegnamento di questa Corte, dipende unicamente dall’esito della causa e il cui ritardo pregiudizievole poteva essere fatto valere nella causa suddetta, anche per quanto attiene dalle spese e gli oneri sostenuti in detto procedimento per far valere il proprio diritto leso (Cass., 16 febbraio 2005, n. 3118; Cass., 29 novembre 2002, n. 16936).

2.5 – Il decreto impugnato, pertanto, deve essere cassato in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di appello di Caltanissetta, che, in diversa composizione, applicherà i principi enunciati, provvedendo, altresì, al regolamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, e dichiara inammissibile il quarto. Accoglie il terzo motivo; cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Caltanissetta, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 2 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2011

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