Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13799 del 31/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 31/05/2017, (ud. 18/01/2017, dep.31/05/2017),  n. 13799

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22272-2015 proposto da:

LUTIROM S.R.L. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA

PANETTERIA, 15, presso lo studio dell’avvocato MARIA TERESA

AVITABILE, rappresentata e difesa dall’avvocato ROBERTA MARRAZZO,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA Q. MAJORANA 9, presso lo studio dell’avvocato MARIO

BELCASTRO, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA AMATRUDA,

GIANCARLO GRANDINETTI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 931/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 31/07/2015 R.G.N. 140/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2017 dal Consigliere Dott. BALESTRIERI FEDERICO;

udito l’Avvocato ROBERTA MARRAZZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso davanti al Tribunale di Cosenza, proposto L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 48, B.A., dipendente della società Lutirom s.r.l. con mansioni di “addetta alle macchine” (ed inquadrata al 2 livello del CCNL per le Piccole e Medie Industrie del Settore Metalmeccanico), impugnava il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla convenuta in data 14.2.2013 al fine di sentirne dichiarare la nullità, inefficacia o comunque l’illegittimità e conseguentemente ottenere la condanna della Lutirom s.r.l. al risarcimento del danno a norma della L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012.

Costituendosi nella fase di cognizione sommaria, la Lutirom s.r.l. chiedeva il rigetto della domanda proposta dalla lavoratrice, adducendo la piena legittimità del provvedimento espulsivo.

Il Tribunale, con ordinanza del 17/12/2013, emessa ai sensi del successivo la L. n. 92 del 2012, comma 49, annullava il licenziamento e condannava la società convenuta alla immediata reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro oltre che al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dovuta dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra.

Il datore di lavoro proponeva opposizione ai sensi del comma 51, assumendo la piena legittimità del provvedimento sanzionatorio espulsivo, stante il contenuto oggettivamente diffamatorio, sia nei confronti della stessa società che nei confronti della legale rappresentante, delle espressioni “postate” dalla lavoratrice sulla propria pagina “Facebook”.

Il Tribunale di Cosenza, con sentenza del 13/1/2015, ritenuta superflua qualsiasi attività istruttoria in considerazione della natura pacifica dei fatti posti a fondamento del licenziamento, accoglieva l’opposizione proposta, ritenendo il licenziamento legittimo, in quanto le frasi utilizzate dalla B. nei confronti della datrice di lavoro sarebbero consistite in una “gratuita ed esorbitante denigrazione” e caratterizzate dalla “precisa intenzione di ledere, con l’attribuzione di un fatto oggettivamente diffamatorio, la reputazione del proprio datore di lavoro”.

Avverso tale sentenza proponeva reclamo, ex art. 1, comma 58, la B., ribadendo le richieste già formulate con il ricorso introduttivo del giudizio.

La Lutirom s.r.l., regolarmente costituitasi, eccepiva preliminarmente l’improcedibilità del reclamo per violazione del termine di notifica di cui al L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 52, e, nel merito, ne chiedeva il rigetto con conseguente conferma della sentenza impugnata.

Ammessa la prova testimoniale chiesta da entrambe le parti ed esaminati i soli testi della reclamante, stante l’omessa comparizione della reclamata all’udienza, la causa veniva decisa dalla Corte d’appello di Catanzaro con sentenza depositata il 30 luglio 2015 dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento, con condanna della società al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione globale di fatto dal momento del licenziamento alla data del 23.12.13, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, ed al versamento di ulteriori 15 mensilità a titolo di indennità sostitutiva della reintegra.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la Lutirom s.r.l., affidato ad otto motivi, poi illustrati con memoria.

Resiste la B. con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 435 c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 153 e 154 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2, artt. 157 e 164 c.p.c., oltre che della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 52. Lamenta che la B. aveva notificato il reclamo senza l’osservanza dei termini in questione, ed in particolare di quello di trenta giorni stabilito, a suo avviso, a garanzia del diritto di difesa del reclamato.

Evidenzia che il reclamo venne notificato alla società il 20.4.15, mentre l’udienza di discussione era stata fissata per il 19.5.15. Richiama al contempo il principio del necessario rispetto del termine perentorio di 25 giorni a difesa, di cui all’art. 435 c.p.c. (Cass. ord. n. 22508/12, pag. 38 odierno ricorso), da intendersi a suo avviso come trenta giorni prima dell’udienza in base alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 52.

Il motivo, che presenta un evidente profilo di inammissibilità non avendo prodotto nè il decreto presidenziale di fissazione di udienza da parte della Corte d’appello, nè la memoria di costituzione in appello della società oggi ricorrente, è infondato per due ordini di ragioni.

In primo luogo nella parte in cui richiama il termine (a difesa) di 25 giorni di cui all’art. 435 c.p.c., termine che nella specie risulta rispettato.

In secondo luogo in quanto la società si è comunque costituita difendendosi nel merito, con effetto, pertanto, sanante, cfr. da ultimo Cass. n. 25684/15: “Nel rito del lavoro, la violazione del termine non minore di venticinque giorni che, a norma dell’art. 435 c.p.c., comma 3, deve intercorrere tra la data di notifica dell’atto di appello e quella dell’udienza di discussione, configura un vizio della notificazione che non produce alcuna nullità se l’atto abbia raggiunto il suo scopo per effetto della costituzione dell’appellato”.

E’poi vero che qualora vi sia stata doglianza sul rispetto del termine a difesa, o sia esplicitamente richiesto dalla parte, il giudice è tenuto a fissare nuova udienza (Cass. n. 18165/04, Cass. n.21957/14), e tuttavia l’odierna ricorrente non ha prodotto la relativa documentazione nè ha chiarito adeguatamente in qual modo, quando ed in quali termini una richiesta in tal senso sarebbe stata formulata in sede di appello, impedendo così al giudice di legittimità di essere giudice anche del fatto processuale (cfr. Cass. sez. un. n. 8077/12).

2. – Con il secondo ed il terzo motivo la società ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la sentenza impugnata esaminato l’eccezione di inammissibilità del reclamo per mancanza di specificità dei motivi, ai sensi degli artt. 343 e 434 c.p.c., risolvendosi l’atto nella pedissequa reiterazione degli argomenti già dedotti in primo grado e disattesi dal giudicante. Allo scopo riproduce in ricorso l’intero atto di reclamo in copia fotostatica, a sua volta, in tesi, riproduttivo delle pagine 4 – 13 della memoria di costituzione in fase di opposizione, anch’esse riprodotte in copia nell’odierno ricorso.

I motivi, strettamente connessi, sono inammissibili per due ordini di ragioni: innanzitutto in quanto l’eccezione risulta implicitamente esaminata e respinta dalla sentenza impugnata; in secondo luogo per la violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione. Ed invero quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purchè la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), cfr. Cass. sez. un. n. 8077/12, non rispettate dalla ricorrente mediante la riproduzione fotografica di vari documenti, affidando inammissibilmente alla Corte di cassazione la selezione delle parti rilevanti ai fini del decidere (cfr. Cass. 7 febbraio 2012 n. 1716).

3. – Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla eccezione di incapacità a testimoniare delle persone indicate come testi da parte reclamante, avendo esse subito analoghi licenziamenti.

Il motivo è inammissibile posto che la sentenza impugnata ha implicitamente esaminato la questione, ammettendo la prova applicando il principio secondo cui l’interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare, a norma dell’art. 246 c.p.c., è quello giuridico, personale, concreto, che comporta la legittimazione a proporre l’azione ovvero ad intervenire in un giudizio, sicchè la circostanza che penda una diversa, anche se analoga, controversia tra un teste e una delle parti in causa non vale a determinare la sussistenza di un interesse del teste nella causa nella quale deve deporre, mentre la valutazione delle risultanze della prova testimoniale e il giudizio sull’attendibilità del teste involgono un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito (Cass. n. 14612/06, Cass. n. 9652/03), insindacabile in sede di legittimità, a maggior ragione nel regime di cui al novellato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5. – Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, nel testo modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 18, commi 4 e 5.

Lamenta che la sentenza impugnata non osservò il principio secondo cui la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42, distingue il fatto materiale dalla sua qualificazione in termini di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, riconoscendo la tutela reintegratoria solo in caso di insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, sicchè ogni valutazione che attenga al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta contestata non è idonea a determinare la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Cass. n. 23669/14).

Il motivo è infondato avendo questa Corte in seguito chiarito che l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 stat.lav., come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè (anche) in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità (Cass. n. 20540/15).

Con la successiva Cass. n. 18418/16 si è al riguardo chiarito che l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. reale.

Nella specie la sentenza impugnata ha accertato la sostanziale non illiceità dei fatti addebitati, e tale accertamento non ha formato oggetto di adeguata censura ad opera della ricorrente.

Deve peraltro chiarirsi che non può ritenersi relegato nell’ambito del giudizio di proporzionalità qualunque fatto (accertato) teoricamente censurabile ma in concreto privo del requisito di antigiuridicità, non potendo ammettersi che per tale via possa essere sempre soggetto alla sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti (pur sussistenti, ma) di rilievo disciplinare nullo o sostanzialmente inapprezzabile.

L’accertata insussistenza dell’antigiuridicità del comportamento, oltre che dal pur non vincolante decreto di archiviazione disposto dal competente g.i.p. il 14.3.14, è stata adeguatamente valutata dalla corte di merito, sicchè, anche per l’assenza di specifiche censure sul punto da parte della società ricorrente, la censura deve essere respinta.

6. – Con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., per vizio di ultrapetizione, per avere la sentenza impugnata applicato la tutela cd. reale, pur a fronte delle conclusioni contenute nell’atto di appello, con cui la B. chiedeva la tutela meramente obbligatoria, anche in considerazione della nullità del ramo di azienda ceduto.

Il motivo è infondato, in quanto basato sulle sole conclusioni (peraltro solo dedotte) dell’atto, che invece, come esposto nello storico di lite dell’odierno ricorso, ampiamente si diffonde sull’applicabilità della tutela reale, anche in base alla nullità della cessione del ramo di azienda, del resto e conseguentemente ampiamente esaminate dalla corte di merito.

7. – Con il settimo motivo la ricorrente denuncia l’erroneo esame, apprezzamento e valutazione di circostanze di fatto da parte del giudice di merito (quali l’effettiva presenza, ai fini della recidiva, di precedente disciplinare della B.; la gravità o meno della frase “postata” su Facebook dalla ricorrente; l’effettiva cessione di ramo di azienda alla luce della documentazione in atti).

Trattasi esplicitamente di censura inerante l’accertamento ed apprezzamento dei fatti da parte del giudice di merito, inammissibile in questa sede alla luce del novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche alla luce di quanto osservato nel precedente punto 6.

8. – Con l’ottavo motivo la ricorrente si duole della quantificazione della spese operata dalla sentenza impugnata, lamentandone il contrasto col D.M. n. 55 del 2014.

Anche tale motivo è inammissibile, non spiegando la ricorrente perchè la quantificazione delle spese di primo grado in complessivi Euro 5.500,00 e di appello in complessivi Euro 6.900,00 siano violativi dei parametri fissati nel D.M. citato. Questa Corte ha al riguardo già affermato che in tema di liquidazione delle spese processuali, è inammissibile, per violazione del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione che, nel censurarne la complessiva quantificazione operata del giudice di merito, non indichi le singole voci reclamate, risultanti nella nota spese, in ordine alle quali quel giudice sarebbe incorso in errore (Cass. 2.10.14 n. 20808).

9. – Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e,liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi nei confronti dei difensori della B., dichiaratisi antecipanti.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a., da distrarsi nei confronti degli avv. G. Grandinetti e A. Amatruda.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2017

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