Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1378 del 22/01/2020

Cassazione civile sez. I, 22/01/2020, (ud. 25/10/2019, dep. 22/01/2020), n.1378

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23230/2018 proposto da:

K.K.A., domiciliato in Roma, viale Angelico n. 38,

presso lo studio dell’avv. Roberto Maiorana, che lo rappresenta e

difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro-tempore,

elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex

lege;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 471/2018 del Tribunale di Perugia del

25.6.2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25.10.2019 dal Consigliere Dott.ssa PAOLA GHINOY.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Perugia rigettava la domanda proposta da K.K.A., nato in (OMISSIS), volta ad ottenere in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato politico, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex artt. 7 e segg.; in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14; in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis).

2. Il Tribunale riferiva che il richiedente in sede di audizione dinanzi alla Commissione territoriale aveva dichiarato di essersi trasferito all’età di 17 anni nella regione di (OMISSIS) e di avere ivi iniziato a lavorare per il N.P.P. (New Patriotic Party); di essere scappato dal (OMISSIS) in seguito a violenze e minacce subite da un gruppo di oppositori politici del suo partito con i quali era scoppiata una rissa mentre stava affiggendo dei manifesti. Tali ragazzi, denunciati alla Polizia, erano stati arrestati, ma successivamente l’esponente aveva appreso dalla televisione che il leader politico per il quale lavorava era stato ucciso a seguito di un accoltellamento ed egli aveva lasciato il paese per il timore di essere rimasto senza protezione.

3. Il Tribunale riteneva innanzitutto che la vicenda narrata dal ricorrente fosse plausibile in quanto coerente con le vicende del paese quali desumibili dai siti internazionali; riteneva tuttavia di non riconoscere i presupposti per lo status di rifugiato in quanto le autorità di pubblica sicurezza ghanesi avevano fornito protezione, procedendo all’arresto dei soggetti riconosciuti e denunciati, sicchè non si comprendeva quale potesse essere il fondamento del timore di ritorsioni, considerato anche che le elezioni politiche del 2016 avevano visto la vittoria del leader politico appoggiato dallo stesso richiedente.

4. Inoltre, pur risultando dalle fonti che sporadici scontri si erano verificati nel corso della campagna elettorale, il periodo post-elettorale era stato pacifico e privo di violenze, tanto che attualmente il Ghana è un paese ritenuto relativamente stabile e sicuro e caratterizzato da un buon grado di pluralismo e partecipazione.

5. In merito alla protezione sussidiaria, escludeva i presupposti di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), non sussistendo elementi per ritenere che il ricorrente se rimpatriato corresse pericolo di condanna a morte od esecuzione della pena di morte. Parimenti non risultavano i presupposti per la lett. c), considerata la situazione del paese quale risultante dalle più aggiornate ed accreditate fonti internazionali, che richiamava.

6. Quanto alla protezione umanitaria, riteneva che il percorso di integrazione intrapreso dal ricorrente non ne consentisse il riconoscimento, in considerazione della situazione generalmente stabile e sicura esistente in Ghana e dell’assenza di documentazione medica dalla quale evincere che il soggetto versasse in un grave stato di salute; valorizzava infine la presenza dei genitori e della sorella minore nel paese di origine.

7. Per la Cassazione del decreto K.K.A. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Come primo motivo di ricorso il richiedente deduce l’omesso esame delle dichiarazioni rese dal ricorrente alla Commissione territoriale e delle allegazioni portate in giudizio per la valutazione della condizione personale del ricorrente. Lamenta che il Tribunale non abbia svolto un ruolo attivo nell’istruzione della domanda.

9. Come secondo motivo deduce la mancata concessione della

protezione sussidiaria in ragione delle attuali condizioni socio politiche del paese di origine e la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 7 e 14. Sostiene di essere soggetto a rischio di essere lasciato alla merce di un sistema giudiziario che non è garante dei diritti dei cittadini; valorizza la situazione carceraria in Ghana e l’essere in vigore in quel paese la pena di morte, nonchè la scarsa tutela del diritto alla salute che si traduce in incatenamento di persone con disabilità psichica.

10. I due motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto connessi, sono inammissibili.

11. La domanda diretta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (Cass. n. 19197 del 28/09/2015, n. 27336 del 29/10/2018). Il ricorso al Tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore. In difetto di allegazioni circa la sussistenza di ragioni tali da comportare – alla stregua della normativa sulla protezione internazionale – per il richiedente un pericolo di un grave pregiudizio alla persona, in caso di rientro in Patria, la vicenda narrata deve considerarsi di natura strettamente privata, come tale al di fuori dai presupposti per l’applicazione delle tutele.

12. Nel caso, il Tribunale ha attentamente esaminato e sottoposto a vaglio di attendibilità e coerenza con le informazioni relative al paese di provenienza la versione dei fatti fornita dal richiedente, ritenendo tuttavia che la stessa non fosse sussumibile nelle ipotesi cui la legge ricollega le forme invocate di protezione. I motivi si sostanziano in una censura di merito all’accertamento di fatto compiuto dal giudice territoriale e nella prospettazione di una diversa lettura e interpretazione delle dichiarazioni rese e risultano perciò inammissibili, considerato che il vizio di motivazione sotto il profilo del travisamento di fatti decisivi non è riconducibile al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e la motivazione posta a base della decisione del giudice di merito non è meramente apparente, ma si fonda su un nucleo argomentativo logico desunto da un vaglio rigoroso delle risultanze di causa.

13. Come terzo motivo il ricorrente deduce il mancato riconoscimento della protezione umanitaria ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, D.P.R. n. 349 del 1999, art. 28, comma 1, L. 14 luglio 2017, n. 110, che ha introdotto il reato di tortura e dei principi generali di cui all’art. 10 Cost. e art. 3 della CEDU.

14. Il motivo non è fondato.

Questa Corte ha chiarito (v. Cass. 23/02/2018, n. 4455 e, da ultimo, Cass. S.U. n. 29459, n. 29460 e n. 29461 del 13.11.2019) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

15. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale.

16. Il Tribunale perugino ha compiuto tale valutazione comparativa, ritenendo che il percorso d’ integrazione intrapreso in Italia non fosse sufficiente a determinare le condizioni per il riconoscimento, in assenza di un situazione di significativa ed effettiva compromissione dei diritti fondamentali nel Paese di provenienza. La valutazione è stata quindi compiuta in applicazione dei principi di diritto che governano la fattispecie, e la motivazione resa a sostegno delle conclusioni raggiunte neppure è stata confutata sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, con la prospettazione di fatti decisivi il cui esame sarebbe stato omesso.

17. Segue coerente il rigetto del ricorso.

18. Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

19. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 15% e alle spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2020

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