Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13772 del 06/07/2016

Cassazione civile sez. trib., 06/07/2016, (ud. 28/06/2016, dep. 06/07/2016), n.13772

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7169/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del Direttore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

CUMA SUD SPA, in persona del legale rappresent4nte pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA OTTAVIANO 42, presso lo

studio dell’avvocato BRUNO LO GIUDICE, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIUSEPPE SERA giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 135/2013 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI,

depositata il 01/08/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/06/2016 dal Consigliere Dott. LAURA TRICOMI;

udito per il ricorrente l’Avvocato MELONCELLI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO Luigi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. La Commissione Tributaria Regionale della Campania, con la sentenza n. 135/49/13, depositata il 01.08.2013, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto l’impugnazione proposta dalla società CU.MA SUD SPA avverso l’avviso di rettifica n. 4487 RU 2010 emesso ai sensi dell’art. 78 del Reg. n. 2913/92, con accertamento di maggiori diritti daziari, interessi e sanzioni, notificato dalla Agenzia delle dogane con riferimento alle importazioni effettuate dalla società in varie date del 2008.

2. L’accertamento suppletivo scaturiva da una “informativa dell’OLAF AM 10/2009 S1 2009” avente ad oggetto la falsa dichiarazione di origine all’importazione di accessori per tubi cinesi dichiarati di origine di Taiwan, in cui veniva comunicata, relativamente alla merce importata, la sospetta origine cinese in luogo di quella taiwanese;

in detta informativa la società contribuente era indicata tra quelle che avevano effettuato operazioni di importazione con la esportatrice Niang Hong Pipe Fittings Co. LTD, alla quale con Reg. CE n. 803/2009 del 27.08.2009 era stata revocata l’esenzione dal dazio antidumping, accordatole con provvedimento agevolativo Reg. CE n.584/96 e confermato negli anni sino alla revoca.

3. La Commissione Regionale confermava la decisione di primo grado sulla considerazione che non sussistevano i presupposti per la contabilizzazione a posteriori dei dazi. In particolare ravvisava la violazione del principio di irretroattività delle disposizioni tributarie, stabilito della L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, in ragione del fatto che la verifica era iniziata solo successivamente alla revoca della esenzione dal dazio antidumping riconosciuta alla esportatrice taiwanese e che l’Amministrazione non aveva informato la contribuente di ciò che era stato scoperto dagli organismi antifrode. La CTR riconosceva inoltre la buona fede della contribuente, in ragione della complessità delle indagini, svolte ad alto livello, che avevano consentito di acclarare la frode e riteneva applicabile l’esimente di cui all’art. 220 del Reg. CE 2913/1992 in ragione della ricorrenza di errori attivi e passivi delle Autorità poichè, negli anni, i medesimi prodotti erano stati importati senza obiezioni delle stesse ed erano stati accompagnati da certificazioni delle amministrazioni.

La Commissione esaminava, quindi, anche la contestazione di nullità dell’atto impugnato per mancato rispetto del termine di sessanta giorni previsto del D.Lgs. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, decorrente dalla data di notifica del processo verbale di accesso e constatazione, formulata alla contribuente, e la riteneva fondata sulla considerazione che l’avviso di rettifica, notificato ante tempus, era privo di adeguata motivazione circa la sua urgenza.

4. Il ricorso proposto dall’Agenzia delle dogane si articola in sei motivi. La società resiste con controricorso corredato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 3, art. 6, comma 2 e art. 10, con contestuale violazione del Reg. CE n. 384/96 e dei successivi Reg. CE n. 584/96, Reg. CE n. 763/2000 e Reg. CE n. 964/2003 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Secondo la ricorrente il giudice di appello ha errato nel ritenere che la rettifica della dichiarazione fosse stata effettuata sulla scorta del provvedimento di revoca dell’esenzione dal dazio antidumping alla società esportatrice (Reg. CE n. 803/2009), sulla cui valenza per il futuro concorda, e sostiene che la rettifica era invece fondata sulle risultanze istruttorie in esso trasfuse, dalle quali era evidente che la esportatrice taiwanese dal 2006 non rispettava più i requisiti per godere dell’esenzione, e sulla scorta delle quali era stato disposto l’accesso presso la società contribuente ed accertata la violazione doganale per il periodo 2007/2009. In particolare la Agenzia fa rilevare che l’Ufficio aveva solo applicato le misure restrittive antidumping previste sin dal 1996 in relazione a determinati prodotti di provenienza cinese, recuperando il maggior dazio che non era stato corrisposto solo in ragione dell’esonero soggettivo della esportatrice.

Afferma quindi che le disposizioni di cui della L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 2 e art. 10, sui doveri di informazione e di collaborazione tra Amministrazione e contribuente, erano state falsamente applicate dalla Commissione ad una fattispecie non sussumibile in esse, poichè l’applicazione di detta disciplina interessava le operazioni commerciali concluse dopo la emanazione del Reg. CE n. 803/2009. Mentre la rettifica aveva avuto ad oggetto le operazioni concluse in epoca antecedente.

1.2. Il motivo è fondato e va accolto.

1.3. Va premesso, al riguardo, che con il termine dumping si indica –

nel diritto comunitario ed internazionale, ma il concetto deriva dalla dottrina economica – una procedura di vendita di un bene o di un servizio su di un mercato estero (mercato di importazione) ad un prezzo inferiore rispetto quello di vendita (o, addirittura, a quello di produzione) del medesimo prodotto sul mercato di origine (mercato di esportazione). I dazi antidumping consistono, pertanto, – sul piano generale – in misure che hanno lo scopo di evitare turbative della concorrenza derivanti dall’immissione nel mercato europeo di merci ad un prezzo ritenuto eccessivamente basso, rispetto a quello praticato nelle normali transazioni all’interno di tale mercato (Cass. nn. 23381/09, 6250/2013).

1.4. A tal fine la normativa comunitaria antidumping, costituita dal Regolamento CE del Consiglio 22.12.1995, n. 384/96 (detto Regolamento di base), relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di dumping da parte di Paesi non membri della Comunità europea (poi sostituito dal Regolamento CE del Consiglio 30.11.2009, n. 1225), all’art. 1 dispone: 1) “un dazio antidumping può essere imposto su qualsiasi prodotto oggetto di dumping la cui immissione in libera pratica nella Comunità causi un pregiudizio”; 2) “un prodotto è considerato oggetto di dumping quando il suo prezzo all’esportazione nella Comunità è inferiore ad un prezzo comparabile del prodotto simile, applicato nel paese esportatore nell’ambito di normali operazioni commerciali”.

1.5. In questo contesto normativo, come già più volte ribadito da questa Corte con principi a cui intende darsi conferma, gli accertamenti compiuti a posteriori (di propria iniziativa o su segnalazione degli Stati membri) dagli organi esecutivi della Commissione per la lotta antifrode (OLAF), ai sensi del Reg. CE n. 1073/99, hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziali e, quindi, possono essere posti a fondamento dell’avviso di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo (Cass. n. 4997/2009).

Ne consegue che la pretesa di recupero dei dazi, azionata con avviso di accertamento, è congruamente e sufficientemente dimostrata ove si basi sulle risultanze di atti ispettivi (allegati o richiamati) degli organismi antifrode comunitari, come nella specie l’OLAF, salva la prova contraria della sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo fornita dal contribuente (Cass. nn. 23985/2008, 1583/2012, 19841/2012).

1.6. Passando al caso in esame, si deve rilevare che, fissate le regole generali della disciplina antidumping, il Consiglio dell’Unione Europea è intervenuto a più riprese su beni e prodotti specifici, come i raccordi in acciaio per tubi.

1.7. In particolare, per quanto interessa il presente giudizio:

– con il Regolamento CE n. 584/1996, il Consiglio ha imposto un dazio antidumping definitivo sulle importazioni di alcuni accessori per tubi, di ferro o di acciaio, originari della Repubblica popolare cinese (RPC), della Croazia e della Thailandia;

– quindi, con Regolamento CE n. 763/2000, adottato ai sensi dell’art. 13, par. 3, del Regolamento di base, sulla scorta di un’inchiesta antielusione della Commissione, le misure antidumping relative alle importazioni originarie della Cina sono state estese alle importazioni del prodotto in esame spedite da Taiwan. In particolare l’art. 3 di detto Regolamento ha previsto “Il dazio antidumping definitivo istituito ai sensi dell’art. 1 sulle importazioni originarie della Repubblica popolare cinese sono estese alle importazioni degli stessi accessori (Codice Taric: 7307 93 11 91;

7307 93 19 91; 7307 99 30 92; 7307 99 90 92) spedite da Taiwan (codice addizionale Taric A 999), eccetto gli accessori prodotti dalla Chup Hsin Enterprise Co. Ltd, Kaohsiung (Taiwan) (codice addizionale Taric A 098), Rigid Industries Co. Ltd, Kaohsiung (Taiwan) (codice addizionale Taric A 099) e Niang Hong Pipe Fittings Co. Ltd, Kaohsiung (Taiwan) (codice addizionale Taric A 100).”, di guisa che la disciplina dell’estensione del dazio antidumping ai prodotti spediti da Taiwan è stata temperata dall’esenzione per gli accessori prodotti da alcune società; tra cui rientrava la Niang Hong;

– questa esenzione soggettiva è stata confermata all’art. 3 del Regolamento CE n. 964/2003;

– quindi, a far data dalla emanazione del Reg. CE n. 803/2009 l’esenzione è stata revocata.

1.8. Dalla lettura del Regolamento CE n. 803/2009 (par. 101 e ss. del “considerando”) si evince che, a seguito di inchiesta della Commissione europea compiuta ai sensi dell’art. 11, par. 2 e 3, e 13, par. 4, del Regolamento di base, si è proceduto al riesame dell’esenzione – accordata in precedenza ad alcuni produttori esportatori taiwanesi, tra cui la Nian Hong, in ragione del fatto che non importavano prodotti dalla RPC – per tener conto delle denunce di pratiche di elusione e che nel corso dell’indagine è emerso che, al contrario, la società da tempo aveva sostanzialmente cessato la produzione ed importava cospicui quantitativi di prodotto della RPC e che, diversamente da quanto asserito dalla stessa, i prodotti venivano soltanto leggermente modificati e il valore aggiunto al prodotto in esame era minimo, per cui si è pervenuti alla conclusione “Per quanto riguarda Nian Hong, l’inchiesta ha dimostrato che la società non ha una propria produzione da alcuni anni e che tutte le esportazioni verso la Comunità di questa società erano costituite da accessori per tubi importati dalla RPC. Poichè la vera produzione è cessata da diversi anni, non c’è motivo di ritenere che questa situazione non sia duratura.” (par.

119).

1.9. Pertanto, all’esito dell’inchiesta è stato approvato il Regolamento CE n. 803/2009, con il quale è stato istituito un dazio antidumping definitivo sulle importazioni di accessori per tubi, come meglio precisato nel Regolamento, originari della Repubblica popolare cinese (RPC) e della Thailandia e sono state fissate le aliquote del dazio antidumping definitivo applicabili (art. 1);

questo dazio antidumping è stato esteso alle importazioni degli stessi accessori spediti da Taiwan, dall’Indonesia, dallo Sri Lanka e dalle Filippine, siano essi o meno dichiarati originari rispettivamente di Taiwan, Indonesia, Sri Lanka e Filippine, ad eccezione di quelli prodotti da Rigid Industries Co. Ltd, Kaohsiung (Taiwan) e l’esenzione dall’estensione del dazio alle importazioni degli stessi accessori prodotti da Chup Hsin Enterprise Co. Ltd, Kaohsiung (Taiwan) e Nian Hong Pipe Fittings Co. Ltd, Kaohsiung (Taiwan) è stata abrogata (art.2).

1.10. Come si desume dalle disposizioni esaminate, sin dalla emanazione del Regolamento CE n. 763/2000, la disciplina generale prevedeva l’applicazione del dazio antidumping alla ricorrenza di condizioni predeterminate, consistenti nella importazione di beni prodotti nella RPC e in Thailandia e per i beni spediti da Taiwan, e che l’esenzione soggettiva riguardava solo i beni direttamente prodotti da alcune società taiwanesi individuate, tra le quali vi era la Nian Hong.

1.11. Ne consegue che, nel caso in esame, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, l’Amministrazione non ha fatto alcuna illegittima applicazione retroattiva del Regolamento n. 803/2009, ma ha rilevato, sulla scorta della inchiesta della Commissione trasfusa nei “considerando” del Regolamento stesso, che per il periodo in contestazione la esenzione non era applicabile in concreto in quanto la commercializzazione non aveva riguardato beni “prodotti” dalla Nian Hong, poichè la produzione era cessata da tempo, ma beni importati, probabilmente dalla RPC, e spediti da Taiwan, dopo interventi non significativi, alla importatrice italiana.

Il giudice di appello ha dunque falsamente applicato i richiamati Regolamenti CE, trascurando di considerare in tutto lo sviluppo motivazionale, il fondamentale presupposto del riconoscimento dell’esenzione e cioè che “la produzione dei beni” avvenisse “in Taiwan”, e di attribuire il giusto rilievo all’esito della inchiesta della Commissione trasfuso nei considerando del Regolamento, che ne aveva accertato l’insussistenza a far data da alcuni anni addietro.

1.12. Invero, l’esenzione, costituendo un beneficio in deroga al regime generale antidumping, è di stretta interpretazione e comporta una presunzione relativa in ordine alla sussistenza dei presupposti, cui consegue un’inversione dell’onere della prova a carico dell’Amministrazione, circa la non ricorrenza in concreto delle condizioni legittimanti l’esenzione (nel caso in esame la produzione in Taiwan della merce esportata). Ne consegue che laddove, come nel caso in esame, la Amministrazione abbia provveduto a rettificare i dazi dovuti, sulla scorta dell’inchiesta della Commissione, trasfusa nel Regolamento CE n. 803/2009, concernente la non ricorrenza delle condizioni di esenzione soggettiva, per non essere stati prodotti i beni importati in Italia dalla società taiwanese, che aveva cessato da tempo tale attività, la Amministrazione non ha fatto applicazione del nuovo Regolamento che ha abrogato la esenzione, ma ha compiuto un accertamento sulle condotte anteriori, ottemperando al suo onere probatorio e superando in tal modo la presunzione relativa di legittimità dell’operato della esportatrice taiwanese.

Qualora la Amministrazione avesse preteso di rettificare l’esportazione di beni “prodotti” dalla società taiwanese, allora si sarebbe potuto porre il problema di una applicazione retroattiva della norma abrogatrice dell’esenzione, ma ciò non è avvenuto in quanto la rettifica è conseguita proprio all’accertamento della mancata produzione dei beni e, quindi, del venir meno del presupposto dell’esenzione.

1.13. Ne consegue che il caso in esame è del tutto estraneo all’ambito applicativo delle disposizioni di cui della L. n. 212 del 2000, art. 3, art. 6, comma 2 e art. 10.

2.1. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 220 del Reg. Consiglio 12.10.1992 n. 2913/92/CEE anche in relazione all’art. 2697 c.c. e del principio di vicinanza della prova nonchè dell’art. 1176 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Sostiene la Agenzia che la Commissione ha errato nell’escludere la legittimità del recupero a pOsteriori, sulla ritenuta sussistenza di tutte le condizioni esimenti previste dall’art. 220 cit. ed in particolare dell'”errore attivo” delle Autorità che aveva determinato la mancata riscossione dei dazi antidumping. 2.2. Il motivo è fondato e va accolto.

2.3. Il giudice di appello ha ritenuto che l’Amministrazione avesse compiuto una serie di errori sia passivi che attivi, tali da ingenerare il legittimo affidamento della contribuente, ed in particolare sembra aver ricondotto alla categoria degli errori attivi la circostanza che ogni importazione era accompagnata da “un certificato di origine” rilasciato dalla Camera di Commercio di Taiwan, e dal cd. “documento di vigilanza” rilasciato dal Ministero del Commercio Internazionale Italiano, entrambi attestanti tanto le caratteristiche del prodotto, quanto la sua origine, oltre che la sua provenienza, e che la società importatrice aveva allegato anche la “attestazione di autenticità” rilasciata dal Bureau of Foreign Trade – Ministry of Economic Affairs (Ufficio di Presidenza del Commercio Estero – Ministero degli Affari Economici di Taiwan, ottenuta e trasmessa grazie alla fattiva collaborazione dell’ICE (Istituto Nazionale per il Commercio Estero), organo dell’omonimo Ministero.

2.4. Osserva la Corte che l’art. 220, par. 2, lett. b) del Regolamento CE n. 2913/92/CEE, come modificato dal Regolamento n. 2700/2000, esclude che l’Amministrazione possa procedere alla contabilizzazione a posteriore dei dazi quando “b) (1) l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana. (2) Quando la posizione preferenziale di una merce è stabilita in base ad un sistema di cooperazione amministrativa che coinvolge le autorità di un paese terzo, il rilascio da parte di queste ultime di un certificato, ove esso si riveli inesatto, costituisce, ai sensi del comma 1, un errore che non poteva ragionevolmente essere scoperto. (3) Il rilascio di un certificato inesatto non costituisce tuttavia un errore in tal senso se il certificato si basa su una situazione fattuale inesatta riferita dall’esportatore, salvo se, in particolare, è evidente che le autorità che hanno rilasciato il certificato erano informate o avrebbero ragionevolmente dovuto essere informate che le merci non avevano diritto al regime preferenziale. (4) La buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale. (5) Il debitore non può tuttavia invocare la buona fede qualora la Commissione europea abbia pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee un avviso in cui sono segnalati fondati dubbi circa la corretta applicazione del regime preferenziale da parte del paese beneficiario;”.

2.5. L’undicesimo considerando del regolamento n. 2700/2000 ha giustificato l’introduzione nel codice doganale dei parr. 2, 3, 4 e 5 dell’art. 220, n. 2, lett. b), nei seguenti termini: “E’ necessario, per il caso particolare dei regimi preferenziali, definire le nozioni di errore delle autorità doganali e di buonafede del debitore. Il debitore non dovrebbe essere responsabile di un cattivo funzionamento del sistema dovuto ad un errore commesso dalle autorità di un paese terzo. Tuttavia il rilascio di un certificato inesatto da parte di dette autorità non dovrebbe essere considerato un errore se esso è stato elaborato in base ad una richiesta contenente informazioni inesatte. Occorre valutare l’inesattezza delle informazioni fornite dall’esportatore nella sua richiesta sulla scorta di tutti gli elementi fattuali contenuti nella richiesta stessa. Il debitore può invocare la buonafede se può dimostrare di aver dato prova di diligenza, a meno che non sia stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee un avviso che segnala fondati dubbi.” 2.6. Il procedimento di cui all’art. 220, in buona sostanza, tende a limitare il pagamento a posteriori dei dazi all’importazione o all’esportazione ai casi in cui siffatto pagamento è giustificato e compatibile con un principio fondamentale quale il principio della tutela del legittimo affidamento (v. sentenze 1 aprile 1993, causa C-

250/91, Hewlett Packard France, Racc. pag. 1-1819, punto 46, e 20 novembre 2008, causa C-3 75/07, Heuschen & Schrouff Orientai Foods Trading, Racc. pag. 18691, punto 57).

2.7. La giurisprudenza comunitaria tuttavia ha più volte precisato (cfr. sentenze C. Giust. 3.3.2005, C-499/03, punto 46 Peter Biegl Nahrungsmittel GmbH; 14.5.1996, C-153/94 e C-204/94, punto 84, Faroe Seafood; 11.10.2001, C-30/00, punto 68, William Hinton & Sons; C –

250/91 1.3.1993, punto 12 Hewlett Packard France) che la contabilizzazione a posteriori dei dazi è possibile solo quando sussistono, contemporaneamente, tutte le condizioni poste dalla norma, e, cioè, i dazi non devono esser riscossi se determinati da un errore delle autorità competenti, tale errore deve esser di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede, il quale, infine, deve aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana. La circostanza che parte delle citate sentenze siano state rese con riferimento al testo della norma antecedente la modifica operata dal Reg. n. 2700 del 2000 è irrilevante: tale novella, come risulta dal suo undicesimo “considerando”, ha carattere essenzialmente interpretativo, limitandosi ad esplicare le nozioni di errore delle autorità doganali già contenute nella versione originaria dell’art. 220, quali precisate dalla giurisprudenza della Corte (cfr. sent. 9.3.2006 C – 293/04, punto 22, Beemsterboer). Ne consegue che, come più volte ritenuto da questa Corte (Cass. SU n. 18190 del 2008, Cass. n. 13680 del 2009; n. 7837 del 2010, in motivazione, n. 4022/2012, n. 7702/2013), la mancanza anche di uno solo dei citati presupposti, basta ad escludere il diritto del debitore a non vedersi assoggettato al dazio.

2.8. In particolare l’errore della dogana, secondo il tenore letterale dell’art. 220, n. 2, lett. b, par. 3, del CDC, non può consistere nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – dato che le autorità stesse non debbono verificarne o valutarne la veridicità, mentre resta integrato da un comportamento attivo, che secondo la casistica – poi codificata nella seconda parte del citato par. 3, della lett. b) della norma in esame si basa su un’errata interpretazione delle norme in materia di origine (cfr. sent.

14.11.002, causa C-251/00, Ilumitronica, punti 44 e 45, sent.

Faroe Seafood e a. punto 97) o di erronea classificazione doganale, risultante dal raffronto tra la voce dichiarata e la designazione delle merci secondo la nomenclatura (sent 1.4.1993, C250/91, punto 21, Società Hewlett Packard France). In altri termini, il legittimo affidamento del debitore è degno della protezione prevista dall’art. 220 del CDC soltanto se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la fiducia del debitore, diversamente, costui è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo (sent. cit. Ilumitronica, punto 43, e Faroe Seafood, punto 92), vigendo il principio secondo cui la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (sent.

Beemsterboer, punto 43; Cass. n. 19195/2006).

2.9. Orbene, nel caso in esame, il giudice di appello non ha considerato se le attestazioni, in cui sarebbe stato ravvisabile l’errore attivo delle Autorità comunitarie, fossero state, in realtà determinate dalle dichiarazioni irregolari dell’esportare, affermando che l’onere della relativa prova era a carico dell’Amministrazione e ciò nonostante la Agenzia avesse provato nel processo di merito la inesattezza delle dichiarazioni di origine attestate dalla società esportatrice, sulla base delle indagini OLAF e del Reg. n. 803/2009 per il periodo 2007/2009; la sentenza impugnata appare quindi sul punto viziata dalla violazione e falsa applicazione delle disposizioni normative invocate.

3.1. Con il terzo motivo, proposto in via subordinata al secondo motivo, si denuncia la insufficiente motivazione circa un fatto decisivo e controverso relativo alla immotivata qualificazione come errori attivi quelli commessi dall’Autorità comunitarie ed alla mancata illustrazione del percorso cognitivo e valutativo sulla scorta del quale è giunta a ritenere diligente il comportamento della contribuente (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e con il quarto motivo, proposto in via subordinata ai motivi secondo e terzo che precedono, si denuncia l’omesso esame del fatto decisivo e controverso concernente la falsità ideologica delle dichiarazioni di origine della società esportatrice, nonostante la prova fornita dall’Agenzia delle dogane (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

3.2. L’accoglimento del secondo motivo comporta l’assorbimento dei motivi subordinati, terzo e quarto.

4.1. Con il quinto motivo si denuncia la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, la violazione del principio comunitario del contraddittorio nel procedimento amministrativo doganale, nonchè la violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, commi 4, 5 e 7 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Sostiene la ricorrente che il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere applicabile della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, che riconosce al contribuente il diritto al contraddittorio entro il termine di sessanta giorni ivi fissato dalla notifica del processo verbale di constatazione per consentire l’invio di osservazioni e richieste all’Amministrazione, sia perchè trattasi di norma applicabile per l’accertamento di tributi interni, sia perchè nel caso in esame l’Ufficio aveva proceduto d’ufficio – senza ricorrere a verifiche in loco – alla revisione delle bollette doganali, ai sensi dell’art. 78 del Regolamento CEE n. 2913/1992 e del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, notificando apposito avviso oggetto della impugnazione, sia perchè il diritto di difesa è garantito, con quest’ultima normativa, dal ricorso giurisdizionale, ai sensi del comma 5, sia ancora perchè la parte non aveva provveduto ad impugnare in sede amministrativa nei trenta giorni successivi alla notifica dell’avviso di rettifica, come avrebbe potuto fare ai sensi del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 7, accedendo in tal modo ad un procedimento ancora più garantistico del mero contraddittorio preventivo, in quanto l’Amministrazione era vincolata a considerare le osservazioni del contribuente.

4.2. Con il sesto motivo, proposto in via subordinata, si denuncia la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, in relazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 66, comma 3, richiamato del D.Lgs. n. 374 del 1999, art. 11, comma 7 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), sostenendo che il giudice di appello ha sancito la nullità dell’atto per effetto della mancata instaurazione del contraddittorio preventivo, senza accertare se il contribuente avesse subito una lesione per effetto della mancata instaurazione del contraddittorio rispetto all’emanazione del provvedimento, atteso che il principio del contraddittorio non può essere applicato in maniera formalistica.

4.3. Il quinto motivo è fondato.

4.4. Va qui ribadito il principio secondo cui, in materia di accertamento di tributi doganali, non costituisce violazione dello Statuto dei diritti del contribuente l’emissione dell’avviso di accertamento suppletivo prima della scadenza del termine di sessanta giorni previsto dalla L. 27 luglio 2002, n. 212, art. 12, comma 7, per la presentazione di osservazioni e richieste dopo il rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte dell’organo impositore. Infatti, la normativa sul riordino degli istituti doganali di cui al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, prevede una serie di garanzie peculiari per il contribuente (contestazione, osservazioni, reclami, controversia). Sicchè il sistema complessivamente previsto (a) da un lato è pienamente rispettoso dei criteri dettati dallo Statuto del contribuente in virtù del principio di leale collaborazione tra amministrazione delle dogane e contribuente medesimo (Cass. 13890/08), (b) dall’altro da corretta esecuzione al principio comunitario secondo cui l’importo dei dazi deve essere comunicato al debitore secondo modalità appropriate e contabilizzato “non appena possibile” (art. 221 CDC; v. la novella della cit. “ex lege” n. 27 del 2012, art. 12). Ciò vale anche per le contestazioni circa l’origine della merce (v. art. 65 TULD) e per le connesse violazioni in materia di IVA (D.Lgs., art. 70 e art. 34, T.U.L.D.) (conf. Cass. 12333/01, 24451/2013).

4.5. In particolare, sul rilievo della specificità della materia doganale rispetto al tema del contraddittorio procedimentale, questa Corte (cfr. Cass. n. 6621/13) ha poi ripetutamente affermato che il rispetto del contraddittorio anche nella fase amministrativa, pur non essendo esplicitamente richiamato dal Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913/92 (codice doganale comunitario), si evince dalle previsioni espresse del D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11 e costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogni qualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo. Ne deriva che la denuncia di vizi di attività dell’Amministrazione capaci di inficiare il procedimento è destinata ad acquisire rilevanza soltanto se, ed in quanto, l’inosservanza delle regole abbia determinato un concreto pregiudizio del diritto di difesa della parte, direttamente dipendente dalla violazione che si sia riverberata sui vizi del provvedimento finale.

4.6. Peraltro, con sentenza n. 8399/13 d i questa Corte si è affermato che in tema di avvisi di rettifica in materia doganale, è inapplicabile della L. 20 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, operando in tale ambito lo jus speciale di cui del D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11 – nel testo utilizzabile ratione temporis –

preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all’impugnazione in giudizio del suddetto avviso.

Con un ulteriore gruppo di decisioni pubblicate fra il febbraio e il dicembre 2014 (Sent. nn. 10070114, 9799/14, 9800/14, 9801, 9802/14, 9803/14, 10070/14, 15032/14, 15033/14, 15034/14, 15035/14, 15036/14, 15037/14, 2592/14, 25973/14, 25074/14, 25975/14) questa Corte, dando continuità ai principi espressi da Cass. n. 8399/2013, ha ribadito l’inapplicabilità alla materia doganale della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 e chiarito ulteriormente che i procedimenti amministrativi per la risoluzione delle controversie previsti dagli artt. 66 segg. del TU delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, ai quali rinvia del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, consentono la instaurazione, in via preventiva, del pieno contraddittorio con il contribuente, atteso che: a) il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 66, prevede che l’operatore presenti ricorso gerarchico avverso l’avviso di rettifica “producendo i documenti ed indicando i mezzi di prova ritenuti utili”; b) dal combinato disposto del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 70, u.c. e art. 76, comma 1, emerge che solo all’esito dell’indicato procedimento amministrativo contenzioso – nel caso di decisione parzialmente o totalmente sfavorevole al ricorrente gerarchico – si determina la “definitività” dell’avviso di accertamento in rettifica ed il contribuente è legittimato ad esperire il ricorso giurisdizionale D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 21, avverso l’atto impositivo. Il procedimento amministrativo in questione, secondo questo indirizzo, è preordinato a garantire. un contraddittorio pieno, in un momento anticipato rispetto all’impugnazione in sede giurisdizionale dell’atto, nel corso del quale il contribuente era posto in grado di esporre tutte le ragioni difensive ed allegare nuovi fatti, deducendo le prove opportune, al fine di sollecitare l’attivazione dei poteri di autotutela dell’Amministrazione doganale e quindi l’annullamento o la revoca dell’avviso di rettifica (cfr. anche Cass. n. 15032/2014).

4.7. Nel caso in esame non risulta quindi applicabile l’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, contrariamente a quanto ritenuto della Commissione Regionale; dalla memoria depositata ex art. 378 c.p.c., sembra desumersi che la parte privata, lungi dall’attivare il procedimento amministrativo di cui del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, prima ricordato, si limitò a presentare un’istanza di annullamento dell’avviso di rettifica in esercizio della facoltà di autotutela dell’Amministrazione.

4.8. L’accoglimento del quinto motivo comporta l’assorbimento del sesto motivo, proposto in via subordinata.

5.1. In conclusione, il ricorso va accolto sui motivi primo, secondo e quinto, assorbiti i motivi terzo, quarto e sesto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Campania in altra composizione, per il riesame alla luce dei principi espressi e per la statuizione anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

LA CORTE DI CASSAZIONE – accoglie il ricorso sui motivi primo, secondo e quinto, assorbiti i motivi terzo, quarto e sesto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Campania in altra composizione per il riesame e per le statuizioni sulle spese anche del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 luglio 2016

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