Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13765 del 20/05/2021

Cassazione civile sez. VI, 20/05/2021, (ud. 25/02/2021, dep. 20/05/2021), n.13765

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 12800/2019 R.G. proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE (OMISSIS), in persona del Commissario

straordinario p.t., rappresentata e difesa dagli Avv. Vieri Paoletti

e Guido Locasciulli, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Tevere, n. 20;

– ricorrente –

contro

RES MEDICA S.R.L., in persona del presidente p.t. M.R.,

rappresentata e difesa dall’Avv. Filippo Calcioli, con domicilio

eletto in Roma, via M. Clementi, n. 58;

– controricorrente –

e

REGIONE LAZIO;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 8199/18,

depositata il 21 dicembre 2018.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25 febbraio

2021 dal Consigliere Guido Mercolino.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la Res Medica S.n.c. di L.P. & C. convenne in giudizio l’Azienda unità sanitaria locale (OMISSIS) e la Regione Lazio, per sentirle condannare alla restituzione della somma di Euro 105.584,33, oltre interessi, indebitamente trattenuta, ai sensi della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 796, lett. o), a titolo di sconto tariffario sul corrispettivo delle prestazioni di specialistica ambulatoriale e diagnostica di laboratorio erogate in regime di accreditamento dal mese di gennaio 2010 al mese di agosto 2013;

che con ordinanza del 30 giugno 2017 il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta nei confronti dell’Ausl, condannandola al pagamento della somma richiesta dall’attrice, oltre interessi legali sul corrispettivo delle prestazioni rese fino al mese di dicembre 2012 ed interessi al tasso di cui al D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, sul corrispettivo delle prestazioni rese dal mese di gennaio 2013;

che l’impugnazione proposta dall’Azienda sanitaria locale (OMISSIS) (già Ausl (OMISSIS)) nei confronti della Res Medica S.r.l. (già Res Medica S.n.c.) è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 21 dicembre 2018 ha rideterminato la somma dovuta in Euro 104.471,15, escludendo l’obbligo di restituire l’importo richiesto per le prestazioni rese nel mese di agosto 2013, in quanto assorbito dalla tariffa prevista dal D.M. 18 ottobre 2012;

che avverso la predetta sentenza l’Asl ha proposto ricorso per cassazione, per due motivi, illustrati anche con memoria, ai quali la Res Medica ha resistito con controricorso;

che la Regione non ha invece svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo d’impugnazione la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 796, lett. o) e dell’art. 12 preleggi, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha limitato l’applicabilità dello sconto alle prestazioni rese nel triennio 2007-2009, senza tener conto della formulazione letterale della norma che lo prevedeva, la quale individuava quale unico limite l’aggiornamento dei tariffari previsto dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 170, del contesto logico-sistematico in cui s’inseriva, nello ambito del quale la limitazione al triennio 2007-2009 non aveva carattere omnicomprensivo, e della portata innovativa della norma, incompatibile con la natura transitoria della stessa;

che, ad avviso della ricorrente, la sentenza impugnata ha inoltre travisato il contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 2009, che nel riconoscere il carattere transitorio della norma in esame non ne aveva in alcun modo individuato il periodo di efficacia, ma si era limitata a fare riferimento all’aggiornamento delle tariffe previsto dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 8, convertito con modificazioni dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31;

che il predetto aggiornamento aveva avuto luogo con il D.M. 18 ottobre 2012, il quale, prevedendo l’assorbimento dello sconto nelle nuove tariffe, costituiva indice rivelatore dell’intento del legislatore di prolungare la vigenza dello sconto oltre il triennio 2007-2009;

che il motivo è infondato;

che questa Corte, nell’interpretare la disciplina dettata dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 796, nel senso che la potestà tariffaria delle regioni si esercita nell’ambito delle tariffe massime fissate dall’autorità ministeriale, il cui superamento comporta che l’eventuale eccedenza resta a carico dei bilanci regionali, con la conseguenza che lo sconto trova applicazione sulla tariffa fissata in concreto dalla regione nell’ambito della soglia massima determinata dal decreto ministeriale (cfr. Cass., Sez. III, 29/05/2018, n. 13367; 31/10/2017, n. 25845), ha avuto infatti modo di precisare ripetutamente che la predetta disposizione non può trovare applicazione oltre il triennio 20072009, rilevando da un lato che la sua vigenza non ha costituito oggetto di proroga da parte del D.L. n. 248 del 2007, e richiamando dall’altro il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 79, convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, con cui il legislatore ha introdotto l’obbligo di adeguamento delle tariffe secondo i costi standard delle prestazioni, in tal modo manifestando la volontà di superare definitivamente la disciplina transitoria e sommaria della tariffazione forfetaria, in quanto inadeguata a garantire una efficiente ed imparziale allocazione delle risorse (cfr. Cass., Sez. VI, 13/02/ 2020, n. 3676; Cass., Sez. III, 4/05/2018, n. 10582);

che la natura temporanea della disciplina introdotta dalla norma in esame trova conferma nella citata sentenza della Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare infondata la relativa questione di legittimità costituzionale, l’ha qualificata come legge-provvedimento, avente contenuto particolare e concreto, e volta a stabilire “una regolamentazione della remunerazione delle prestazioni che il legislatore ordinario ha ritenuto di attrarre, temporaneamente, alla sfera legislativa”, in virtù di una scelta non irragionevole nè manifestamente arbitraria, in quanto volta ad evitare un aumento incontrollato della spesa sanitaria (cfr. al riguardo anche Corte Cost., ord. n. 243 del 2010;

che, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, i limiti temporali di vigenza della norma in esame, sui quali la Corte costituzionale non si è specificamente soffermata, possono desumersi sia dalla lettera della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 796, il cui incipit individua espressamente la finalità delle misure dallo stesso previste nel “garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009”, sia da quella del D.L. n. 248 del 2007, art. 8, comma 3, che, modificando la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 170, ha previsto l’aggiornamento triennale delle tariffe massime delle prestazioni sanitarie rese dalle strutture accreditate, fissando il termine del 31 dicembre 2008 ai fini della prima applicazione del nuovo regime;

che, a livello sistematico, l’individuazione dei predetti limiti trova conforto a) nella mancata conferma della misura in questione sia da parte del D.L. n. 248 del 2007, citato art. 8, comma 3, dedicato proprio all’aggiornamento delle tariffe delle prestazioni sanitarie, sia da parte delle leggi finanziarie relative agli anni successivi, b) nel D.L. n. 112 del 2008, art. 79, comma 1-quinquies, che al dichiarato fine di “garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2009-2011”, e quindi riferendosi ad un periodo successivo a quello preso in considerazione dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 170, ha previsto il superamento della precedente disciplina, modificando il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 8-sexies e c) nel D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 15, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 135, il quale da un lato ha introdotto una disciplina derogatoria destinata a trovare applicazione entro il 15 settembre 2012 (comma 15), e dall’altro ha disposto la parziale abrogazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 170;

che in contrario non vale richiamare il preambolo del D.M. 18 ottobre 2012, nella parte in cui dà atto della perdurante vigenza dello sconto nel settore privato, trattandosi di un’affermazione che, in quanto contenuta in un atto normativo secondario, deve considerarsi inidonea a modificare la disciplina primaria vigente alla data della sua entrata in vigore, quale risulta dalla ricostruzione storica della normativa di settore, ed alla quale non può quindi attribuirsi altro significato che quello d’individuare uno dei parametri per l’aggiornamento delle tariffe relative alle prestazioni di specialistica ambulatoriale, nel cui computo è previsto che lo sconto debba rimanere assorbito;

che con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115,345, 702-bis, 702-ter e 702-quater c.p.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha dichiarato inammissibile, per genericità e novità, il motivo di appello riguardante il superamento dei budget annuali assegnati all’attrice, senza considerare che la relativa eccezione era stata tempestivamente sollevata nella comparsa di costituzione in primo grado, in cui erano stati altresì indicati i decreti del Commissario ad acta che prevedevano i predetti budget;

che, ad avviso della ricorrente, l’eccezione non necessitava di ulteriori prove, avendo ad oggetto circostanze non contestate dalla controparte e comunque emergenti dai decreti indicati, aventi natura di atti pubblici, la cui produzione in appello avrebbe dovuto essere ritenuta ammissibile, trattandosi di documenti indispensabili ai fini della decisione;

che il motivo è inammissibile, in quanto, postulando che la Corte territoriale abbia negato ingresso alla censura a causa della genericità della comparsa di costituzione depositata in primo grado, non recante l’indicazione dei limiti di spesa assegnati alla ricorrente, non attinge per intero la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale non si è limitata ad osservare che i predetti limiti erano stati tardivamente specificati nell’atto di appello, ma ha aggiunto che l’appellante non aveva neppure impugnato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva rilevato la predetta genericità, essendosi concentrata esclusivamente sull’affermazione della mancata produzione dei decreti commissariali;

che, nel censurare l’affermata genericità del motivo di gravame, la difesa della ricorrente si limita ad insistere sulla puntualità delle indicazioni contenute nella comparsa di costituzione in primo grado e delle critiche da essa rivolte alla decisione del Tribunale, astenendosi dal riportare i passi salienti dell’atto di appello, e rendendo in tal modo impossibile qualsiasi verifica in ordine al contenuto delle censure nello stesso proposte;

che la parte che in sede di legittimità intenda censurare la dichiarazione d’inammissibilità di uno o più motivi di gravame per inosservanza dell’art. 342 c.p.c., non può invece limitarsi a richiamare le censure proposte nell’atto di appello, ma è tenuta, in ossequio al principio di specificità dell’impugnazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, a riportarne il testo nel ricorso, in modo tale da evidenziarne l’asserita specificità, non assumendo alcun rilievo, a tal fine, il potere di esaminare direttamente gli atti di causa, riconosciuto a questa Corte nel caso in cui venga denunciato un error in procedendo, dal momento che l’esercizio di tale potere presuppone comunque l’ammissibilità della censura (cfr. Cass., Sez. VI, 23/07/2020, n. 15820; Cass., Sez. V, 29/09/2017, n. 22880; Cass., Sez. III, 16/10/2007, n. 21621);

che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 25 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2021

 

 

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