Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13746 del 20/05/2021

Cassazione civile sez. VI, 20/05/2021, (ud. 23/02/2021, dep. 20/05/2021), n.13746

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18329-2020 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato FEDERICO TIBALDO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto n. cronol. (OMISSIS) del TRIBUNALE di VENEZIA,

depositato il 09/06/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA

IOFRIDA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Venezia, con decreto n. 5825/2020, depositato in data 9/6/2020, ha respinto la richiesta di C.E., cittadino del Gambia, di riconoscimento, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria od umanitaria.

In particolare, i giudici premessa una ricostruzione della normativa in materia di protezione internazionale, hanno sostenuto che: a) il racconto del richiedente (essere stato costretto a fuggire dal Paese d’origine per le minacce sia di alcuni famigliari, essendo egli ed il fratello figli illegittimi di una delle due mogli del padre, sia della famiglia della moglie, che si era opposta all’unione, tanto da essere citato in Tribunale, sia della comunità, che lo accusava di essere omosessuale) era incoerente, contraddittorio e generico e di conseguenza non credibile (peraltro l’accusa di omosessualità era stata indicata, dinanzi alla Commissione, come fondata su mere illazioni e non su di un effettivo orientamento sessuale, a differenza di quanto poi proclamato in sede di audizione); non ricorrevano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b); non poteva essere accordata la protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), non essendo il Gambia interessato da conflitti armati interni o violenza indiscriminata (come emergente dai Report EASO 2017, Amnesty International e Refworld); neppure sussistevano le condizioni per la protezione umanitaria, in difetto di situazioni personali di vulnerabilità e non essendo sufficiente da solo lo svolgimento di attività lavorativa in Italia.

Avverso la suddetta pronuncia, C.E. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che si costituisce al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione o di falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. a), artt. 7 e 14, in relazione al mancato accoglimento della domanda subordinata di protezione umanitaria; 2) con il secondo motivo, la nullità del decreto del Tribunale per mancata traduzione nella lingua madre del richiedente; 3) con il terzo motivo, l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo rappresentato dalla condizione di omosessuale.

2. La seconda censura, di rilievo pregiudiziale, è infondata.

Come chiarito da questa Corte (Cass. 23760/2020) “In tema di protezione internazionale, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 5, non può essere interpretato nel senso di prevedere fra le misure di garanzia a favore del richiedente anche la traduzione nella lingua nota del provvedimento giurisdizionale decisorio che definisce le singole fasi del giudizio, in quanto la norma prevede la garanzia linguistica solo nell’ambito endo-procedimentale e inoltre il richiedente partecipa al giudizio con il ministero e l’assistenza tecnica di un difensore abilitato, in grado di comprendere e spiegargli la portata e le conseguenze delle pronunce giurisdizionali che lo riguardano”.

3. Le ulteriori censure sono infondate.

La pronuncia risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Ora, il ricorrente non ha dedotto alcunchè quanto alla specifica lesione della sfera dei propri diritti personalissimi, limitandosi ad un riferimento generico alla situazione di instabilità e violazione dei diritti umani in Gambia e a un richiamo, altrettanto laconico, al rischio di subire nuove violenze in relazione alla riferita condizione di omosessuale (profilo, quest’ultimo, rispetto al quale risulta comunque insuperabile l’accertamento dei giudici di merito, i quali hanno motivatamente escluso la credibilità della narrazione del richiedente).

Il tema della generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza costituisce senz’altro un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente: tale elemento, tuttavia, deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale dell’istante, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 2007, art. 5, comma 6, che nel predisporre uno strumento duttile quale il permesso umanitario, demanda al giudice la verifica della sussistenza dei “seri motivi” attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali, ad esempio, le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare i suddetti fattori di vulnerabilità (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Inoltre, l’accertata – da parte del giudice di merito – situazione sostanzialmente stabile, dal punto di vista della violenza e degli scontri armati, nella regione di provenienza dell’istante, e che ha indotto il Tribunale a denegare la protezione sussidiaria, non impedirebbe di certo al medesimo, stante la sua giovane età e le sue buone condizioni di salute, il reinserimento sociale e lavorativo nel suo Paese.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “.

3. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2021

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