Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13739 del 03/07/2020

Cassazione civile sez. I, 03/07/2020, (ud. 01/10/2019, dep. 03/07/2020), n.13739

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21398/2018 proposto da:

H.Q., rappresentato e difeso dall’avv. Maria Monica Bassan;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, Commissione Territoriale per il

Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione

di Padova;

– intimati –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VENEZIA, emesso il 10/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio in

data 1/10/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

H.Q., cittadino (OMISSIS), ha proposto ricorso per cassazione, basato su tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno e della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione di Padova e avverso il decreto emesso dal Tribunale di Venezia in data 10 maggio 2018 nella causa NRG 11628/2017, comunicato il 28 maggio 2018, di rigetto del ricorso dallo stesso proposto in primo grado e volto ad ottenere, in via principale, il riconoscimento della protezione sussidiaria o, in subordine, della protezione umanitaria, ovvero, in via di estremo subordine, il riconoscimento del diritto all’asilo politico, ai sensi dell’art. 10 Cost..

A fondamento della proposta domanda, il ricorrente aveva dedotto che il padre era stato espulso dalla Polizia del suo Paese, perchè colluso con un narcotrafficante, e che spesso i poliziotti venivano a cercarlo senza trovarlo; in assenza del padre, i poliziotti sequestravano o il ricorrente o il fratello minore e lo zio, corrompendo i poliziotti, riusciva a farli liberare. A seguito di un episodio verificatosi la sera del 23 maggio 2015, allorchè alcune persone in motocicletta gli avevano sparato senza colpirlo, dandosi poi alla fuga, il ricorrente, su consiglio dello zio, che aveva denunciato i poliziotti e che gli aveva riferito che la Polizia voleva vendicarsi di lui, era fuggito dal Pakistan.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo è così rubricato: “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – errata motivazione sulla credibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente”.

Con tale mezzo la parte ricorrente contesta le motivazioni addotte dal Tribunale circa la ritenuta sua non credibilità.

2. Con il secondo motivo si denuncia “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, art. 14, lett. b) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis, per mancata valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria”.

3. Con il terzo motivo si deduce “violazione art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3) per mancata valutazione della situazione del Paese di origine del richiedente (Pakistan) ai fini del riconoscimento della sussistenza dei presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari”.

4. I motivi, da trattare unitariamente, perchè strettamente connessi, devono essere disattesi per le ragioni che seguono.

4.1. Le doglianze proposte con il primo motivo, attinenti alla motivazione del provvedimento impugnato, in relazione alla ritenuta non credibilità del ricorrente, sono inammissibili. Ed invero, lo stabilire se una persona sia credibile o meno costituisce apprezzamento di fatto e, come tale, sfugge al sindacato di legittimità. Inoltre, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il sindacato della motivazione del provvedimento impugnato è consentito nei soli ristretti limiti delineati da tale norma, ai sensi della quale non è più configurabile il vizio di insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del medesimo art. 360 c.p.c., n. 4), (Cass., ord., 6/07/2015, n. 13928; v. pure Cass., ord., 16/07/2014, n. 16300) e va, inoltre, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., ord., 8/10/2014, n. 21257). E ciò in conformità al principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053 del 7/04/2014, secondo cui la già richiamata riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia – nella specie all’esame non sussistente – si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Le Sezioni Unite, con la richiamata pronuncia, hanno pure precisato che l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come da ultimo riformulato, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.

Con riferimento specifico alla protezione internazionale, questa Corte ha già avuto modo di precisare condivisibilmente che “La valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito” (Cass., ord., 5/02/2019, n. 3340, v. anche Cass., ord., 7/08/2019, n. 21142).

Nella specie, in sostanza, il ricorrente contesta, inammissibilmente, la valutazione delle sue dichiarazioni operata dal Tribunale, il quale ha ampiamente motivato in tema di non credibilità della detta parte (v. p. 5 e 6 del decreto impugnato).

A quanto precede va aggiunto che non è stato riportato in ricorso il tenore letterale dei documenti indicati a p. 5 e 6 di tale atto, con conseguente difetto di specificità delle censure proposte al riguardo, nè è stato dedotto che la difesa del ricorrente abbia espressamente rappresentato al Tribunale adito l’acquisizione, in sede di audizione, di tale documentazione da parte della Commissione senza che quest’ultima abbia provveduto alla sua produzione dinanzi al primo Giudice – il quale non ne avrebbe, perciò, avuto la disponibilità, come riferito dallo stesso ricorrente – nè è stato allegato che la medesima difesa abbia chiesto inutilmente l’emissione di un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., al riguardo.

4.2. Vanno rigettate le doglianze relative alla lamentata inosservanza, da parte del Tribunale, del principio di cooperazione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, alla luce dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto, cui va data continuità in questa sede. Questa Corte ha, infatti, affermato che “In tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori, non riguarda soltanto le domande formulate ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b) del predetto decreto, ma anche quelle formulate ai sensi dell’art. 14, lett. c), poichè la valutazione di coerenza, plausibilità e generale attendibilità della narrazione riguarda “tutti gli aspetti significativi della domanda” (art. 3, comma 1) e si riferisce a tutti i profili di gravità del danno dai quali dipende il riconoscimento della protezione sussidiaria” (Cass., ord., 19/02/2019, n. 4892). E’ stato pure condivisibilmente precisato dalla giurisprudenza di legittimità che “In materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5” (Cass., ord., 12/06/2019, n. 15794).

Va pure evidenziato che questa Corte ha altresì affermato che “In tema di protezione internazionale, l’attenuazione dell’onere probatorio a carico del richiedente non esclude l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati. La valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate” (Cass., ord., 30/10/2018, n. 27503) e nella specie, con accertamento in fatto, il Tribunale ha ritenuto che le dichiarazioni rese dal ricorrente sono poco credibili.

4.3. A quanto precede va aggiunto che, citando fonti internazionali attendibili e sufficientemente aggiornate (v. p. 9 e 10 del decreto impugnato), il Tribunale ha esaminato la complessa situazione del Pakistan in generale e ha pure accertato in fatto che, ancorchè la regione del Punjab – in cui si trova la città di origine del ricorrente, Gurjat – viva attualmente una situazione di instabilità creata dalla presenza sul territorio di gruppi affiliati all’IS, autori di attentati terroristici, comunque in forte calo negli ultimi anni, motivati da uccisioni mirate settarie ma anche dalla volontà di colpire le forze di sicurezza, e dalla presenza in provincia di gruppi radicali, “è da escludere che la regione stia vivendo una situazione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno”.

Il Giudice di primo grado ha pure precisato che le fonti, specificamente indicate, attestano che nel distretto di Gujrat, nell’ultimo anno, gli episodi di violenza sono isolati e riportano, per la maggior parte, dimostrazioni e manifestazioni di protesta e ha, quindi ritenuto che non possa sostenersi che “l’intera popolazione sia sottoposta ad una minaccia costante e grave per la propria vita ed incolumità individuale”

4.5. Parimenti da disattendere sono le doglianze relative al mancato riconoscimento della protezione umanitaria.

A tale proposito, oltre a ribadire le sue contestazioni circa la sua ritenuta non credibilità, il ricorrente lamenta che il Tribunale non abbia adeguatamente considerato le sue dichiarazioni in merito al rischio di persecuzione da parte della polizia e non abbia tenuto conto della situazione di insicurezza della sua zona di provenienza; sostiene che debba essere a lui riconosciuta “una situazione di vulnerabilità da proteggere per il fatto che, qualora tornasse nel paese d’origine, sarebbe messo nella condizione di rischiare la vita per la violenza indiscriminata e comunque per i continui soprusi subiti dalla polizia pakistana”; chiede, infine, la rivalutazione del suo percorso di integrazione in Italia.

Le censure sono inammissibili in quanto con le riportate doglianze il ricorrente, sia con riferimento alla dedotta situazione di vulnerabilità soggettiva, sia in relazione alla situazione del suo Paese, tende ad una rivalutazione degli accertamenti di fatto effettuata dai Tribunale che ha escluso, con adeguata motivazione, nel caso concreto, la sussistenza di fattori di vulnerabilità soggettiva e oggettiva, evidenziando anche la ritenuta non credibilità del ricorrente; va rimarcato, peraltro, che il fattore dell’integrazione sociale è recessivo, qualora difetti, come nel caso all’esame, la vulnerabilità, come affermato da questa Corte con la sentenza 23/02/2018, n. 4455, richiamata pure dal ricorrente.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

6. Non vi è luogo a provvedere per le spese del giudizio di cassazione nei confronti degli intimati, non avendo gli stessi svolto attività difensiva in questa sede.

7. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20 settembre 2019, n. 23535), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 1 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2020

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