Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13702 del 22/06/2011

Cassazione civile sez. II, 22/06/2011, (ud. 18/04/2011, dep. 22/06/2011), n.13702

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.C., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv. Rizzi Renato ed domiciliato

in Roma, alla v. Camozzi, n. 1, presso lo studio dell’Avv. Adriano

Giuffrè;

– ricorrente –

contro

C.F., C.G.J. e C.A.,

tutti rappresentati e difesi dagli Avv.ti Calabrese Pasquale e Maria

ed elettivamente domiciliati in Roma, alla V. Valerico Laccetti, n.

3, presso la dott.ssa Sonia Maraffino;

– controricorrenti –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Campobasso n. 183/2005,

depositata il 22 giugno 2005;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 18

aprile 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

uditi gli Avv.ti Renato Rizzi, per il ricorrente, e Maria Calabrese,

per i controricorrenti;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. LETTIERI Nicola, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata nel 1987 i sigg. C.F., C.G.J. e C.A. convenivano dinanzi al Tribunale di Campobasso i cugini C.R. e C. C. al fine di sentir dichiarare la falsità del testamento olografo del 20 novembre 1984 attribuito a C.G. con conseguente declaratoria di indegnità dei predetti e con condanna degli stessi all’immediato rilascio dei beni dello zio ed al risarcimento dei danni. Nella costituzione dei convenuti, la causa veniva istruita con l’esperimento di c.t.u. ed era dichiarata interrotta all’udienza collegiale del 9 gennaio 1997. Riassunto il processo ad istanza degli attori, gli eredi di C.R. non si costituivano in giudizio. Con sentenza dell’11 maggio 2000, il Tribunale accoglieva integralmente la domanda attorea. Interposto appello da parte di C.C., si costituivano in sede di gravame gli appellati C.F., G. ed A..

Con ordinanza collegiale dei 25-26 novembre 2003 la causa era rimessa sul ruolo disponendosi l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di C.R., adempimento che veniva assunto come assolto dall’appellante mediante la notificazione a C.L. e C.E.. Con sentenza n. 183 del 2005, depositata il 22 giugno 2005, la Corte di appello di Campobasso dichiarava l’inammissibilità dell’appello, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado. A sostegno dell’adottata decisione la Corte territoriale rilevava che non risultava versata in atti la citazione degli eredi pretermessi non avendo l’appellante provveduto al deposito del fascicolo e che, in ogni caso, ove l’appellante avesse errato nell’identificazione dei soggetti a cui estendere necessariamente il contraddittorio, tale errore non si sarebbe potuto qualificare come incolpevole, così da giustificare la concessione di un nuovo termine.

Avverso detta sentenza, notificata il 26 luglio 2005, ha proposto ricorso per cassazione C.C. (notificato l’8 novembre 2005 e depositato il 26 novembre successivo), basandolo su un unico complesso motivo. Gli intimati si sono costituiti in questa fase con controricorso. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo formulato il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata deducendo contestualmente la violazione e falsa applicazione dell’art. 331 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e il difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia (con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). In particolare, il ricorrente ha assunto che la Corte territoriale era incorsa nella violazione della specifica norma processuale allorquando aveva ritenuto che, al momento della rimessione della causa in decisione, aveva constatato che non risultava depositato il fascicolo della parte appellante dal quale sarebbe dovuto risultare che il contraddittorio era stato idoneamente e completamente integrato nei confronti dei litisconsorti pretermessi, malgrado egli avesse, precedentemente, provveduto ad estendere il contraddittorio nei riguardi di C.L. e C.E.. Sotto altro profilo, il C.C. ha prospettato il vizio di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui si era ravvisata l’insussistenza dell’errore incolpevole nei suoi confronti con riferimento all’identificazione degli eredi effettivi di G. R., con la conseguente illegittima negazione della concessione di un nuovo termine per la rituale integrazione del contraddicono.

2. Rileva il collegio che il richiamato complesso motivo è infondato e deve, pertanto, essere rigettato.

Per come evincibile dagli atti del giudizio di appello, esaminabili anche nella presente sede in relazione alla valutazione della dedotta violazione processuale, la Corte molisana, con ordinanza collegiale depositata il 26 novembre 2003, aveva disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di C.R., quali litisconsorti necessari, concedendo apposito termine di sei mesi dalla comunicazione della stessa ordinanza, fissando la successiva udienza di rinvio. In quest’ultima, il difensore dell’appellante (odierno ricorrente) faceva presente di aver depositato in cancelleria l’originale dell’atto di citazione per integrazione del contraddittorio notificato nei confronti di C.L. e C. E., sorelle della C.R., sul presupposto che essere fossero le sue effettive eredi, una volta constatato che il coniuge ed i figli della medesima C.R. avevano rinunciato all’eredità. Alla successiva udienza di precisazione delle conclusioni, il difensore degli appellati deduceva che l’integrazione del contraddittorio era stata erroneamente effettuata dal momento che, per come riscontrabile anche documentalmente (sulla scorta di appositi certificati di stati di famiglia), i figli della C. R. (i quali, unitamente al padre, avevano rinunciato all’eredità in proprio) avevano rispettivamente due figli legittimi, nei cui riguardi doveva trovare applicazione l’istituto della rappresentazione ai sensi degli artt. 467-469 c.c., con la conseguenza che spettava ad essi la legittimazione a partecipare al giudizio quali eredi legittimi (salvo rinuncia) della predetta C.R. (nei cui confronti, perciò, avrebbe dovuto essere esteso correttamente il contraddittorio ordinato dalla Corte di appello).

Sulla scorta di tale verifica, pertanto, la Corte territoriale ha esattamente rilevato sia che l’integrazione del contraddittorio non poteva ritenersi ritualmente eseguita non risultando dal deposito della produzione dell’appellante – da avvenire prima della discussione della causa davanti al collegio (cfr. Cass. 9 luglio 2003, n. 10779) – la prova dell’effettivo adempimento dell’estensione del contraddittorio nei riguardi dei reali eredi della C.R. sia che l’erronea integrazione compiuta dal C.C. non poteva essere riconducibile ad un suo errore incolpevole. Su quest’ultimo punto la Corte di appello ha motivato adeguatamente e logicamente rilevando che l’inesatta individuazione dei litisconsorti pretermessi era stata determinata da un comportamento negligente dello stesso appellante (come tale non giustificante la concessione di un nuovo termine, peraltro nemmeno, espressamente invocato a seguito delle difese degli appellati dedotte all’udienza di precisazione delle conclusioni), che non si era fatto carico di acquisire idoneamente e tempestivamente i dati certi relativi alla successione di C.R., per poter poi provvedere adeguatamente e nel termine assegnato agli adempimenti notificatori conseguenti all’indicata ordinanza collegiale depositata il 26 novembre 2003 nei confronti degli altri litisconsorti effettivamente legittimati.

Così risolta la controversia, rileva il collegio che il giudice di appello si è attenuto alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il termine per la notificazione dell’ordine di integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., è perentorio e non può essere prorogato, nè rinnovato, neppure su accordo delle parti e, qualora non osservato, determina – per ragioni di ordine pubblico processuale – l’inammissibilità dell’impugnazione, rilevabile d’ufficio, a prescindere dalle ragioni che l’abbiano determinata, salvo che la parte interessata non dimostri la propria impossibilità – ipotesi, come visto, non ricorrente nella specie – all’osservanza di detto termine per fatto a lei non imputabile nè per dolo, nè per colpa (cfr. Cass. 24 gennaio 1995, n. 791; Cass. 29 novembre 2004. n. 22411; Cass. 22 giugno 2006, n. 14428. Cass. 27 marzo 2007, n. 7528, e, da ultimo, Cass. 23 luglio 2010, n. 17416). Del resto, su un piano più generale, si ricorda che il principio per cui, quando una domanda debba essere proposta entro un termine perentorio nei confronti di più contraddittori, è sufficiente la tempestiva proposizione anche dei confronti di uno solo di essi, dovendo poi il giudice provvedere e ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, opera solo nei casi in cui giudizio ha inizio (o “ex novo”, o in una fase o in grado nuovo), non già quando, avendo avuto luogo tale inizio con pretermissione di taluni litisconsorti e avendo il giudice ordinato l’integrazione del contraddittorio, la parte onerata abbia evocato in giudizio solo alcuni litisconsorti, così solo parzialmente osservando il suddetto ordine, non potendo, in tal caso, essere consentita l’assegnazione di un ulteriore termine per il completamento della già disposta integrazione, sia perchè difetterebbe in tale ipotesi il presupposto che rende applicabile l’art. 102 c.p.c. (cioè l’introduzione “ex novo” del giudizio), sia perchè l’assegnazione di un ulteriore termine equivarrebbe alla concessione di una proroga del termine perentorio precedentemente fissato, proroga espressamente vietata dall’art. 153 c.p.c. (v. Cass. 13 maggio 1982, n. 2992, e Cass. 26 novembre 1999, n. 13188) 3. In definitiva, per le esposte ragioni, il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento delle spese della presente fase, in favore dei controricorrenti, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della il Sezione Civile, il 18 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2011

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