Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13675 del 05/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 05/07/2016, (ud. 06/04/2016, dep. 05/07/2016), n.13675

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24461/2013 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI,

rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLO TOSI giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

G.E.C., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA TEVERE 46, presso lo studio dell’avvocato

FEDERICO BIANCA, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO

ANTONIO BIANCA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 113/2013 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 10/05/2013 r.g.n. 332/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/04/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega verbale Avvocato TOSI

PAOLO;

udito l’Avvocato BIANCA MARCO ANTONIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte di appello di Trieste confermava la sentenza resa dal Tribunale di Gorizia impugnata dalla società Poste Italiane – che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato nei confronti di G.E.C. il (OMISSIS), per difetto di immediatezza.

Osservava la Corte territoriale che, nella fattispecie, correttamente era stata ritenuta la violazione del principio di tempestività della contestazione degli addebiti, tenuto conto che il datore di lavoro aveva avuto adeguata cognizione dei fatti (risalenti all’anno 2004 e consistiti da prolungata assenza dal lavoro fondata su documentazione sanitaria gravata dal sospetto di falsità) sin dall’anno 2007, epoca di rinvio a giudizio della lavoratrice per il reato di falsità ideologica e truffa. Sin da quel momento avrebbe potuto contestare alla dipendente i fatti come indicati dalla autorità giudiziaria penale, riservandosi l’irrogazione della sanzione all’esito della definizione del procedimento penale, nella specie intervenuta con sentenza del Tribunale di Trieste in data 3/6-14/9/2009. Il lasso di tempo trascorso fra la cognizione dei fatti e la loro contestazione (risalente al 30/9/2009), risultava infatti oggettivamente eccessivo e tale da ledere il diritto di difesa della dipendente.

Per la tassazione di tale decisione propone ricorso la s.p.a. Poste Italiane con un unico motivo, illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c. e resistito con controricorso dalla parte intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con un unico motivo la società ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Imputa alla Corte territoriale di aver travisato i principi che regolano l’esercizio del potere disciplinare con peculiare riferimento alla sua tempestività, equiparando “la sola (sterile) conoscenza dei capi di imputazione, con la conoscenza dei fatti ad essa sottesi: solo quest’ultima consente infatti una valutazione in ordine alla (ragionevole) fondatezza e rilevanza disciplinare nonchè alla riferibilità al comportamento della lavoratrice di quanto oggetto di accertamento in sede penale”.

La ricorrente argomenta, quindi, che unicamente all’esito degli accertamenti svolti in sede penale, avrebbe acquisito cognizione della effettiva falsità dei certificati medici in base ai quali, successivamente, il medico generico aveva rilasciato alla lavoratrice i certificati prodotti a giustificazione del periodo di assenza per malattia. Ribadisce, pertanto, di aver rispettato il principio della immediatezza della contestazione, avendo reagito con assoluta tempestività alla scoperta dei fatti illeciti posti in essere dalla dipendente ed autonomamente valutati rispetto al giudizio di colpevolezza emesso dal giudice penale, che per la loro gravità erano senz’altro idonei a ledere il rapporto fiduciario.

Il ricorso è privo di fondamento.

Occorre premettere che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore-

datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, per l’esigenza di rispetto dei principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento del lavoratore incolpato, ed in quanto nel licenziamento per giusta causa l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro (vedi Cass. 25-1-2016 n. 1248).

Peraltro, il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonchè del tempo occorrente. per l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale.

In ogni caso la relativa valutazione del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici” (Cass. 25-1-2016 n. 1248, Cass. 12/-

1/2016 n. 281, Cass. 20-6-2006 n. 14115).

E’ stato inoltre affermato, in fattispecie sovrapponibile a quella in questa sede scrutinata (vedi Cass. 26-3-2010 n. 7410), che nel valutare l’immediatezza della contestazione ai fini dell’intimazione del licenziamento disciplinare, occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione; con la conseguenza che l’aver presentato a carico di un lavoratore denuncia per un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti (v. ad es. Cass. 18-1-2007 n. 1101; Cass. 21-22008 n. 4502). Il che, se conferma la relatività che riveste il criterio di immediatezza e il rilievo che assume al riguardo, il sindacato del giudice di merito, porta, al tempo stesso, a riconoscere che un bilanciamento coerente degli interessi sottesi al procedimento di disciplina non consente di individuare nella potenziale rilevanza penale dei fatti accertati e nella conseguente denuncia all’autorità requirente, circostanze di per sè sole esonerative dall’obbligo di immediata contestazione.

Tanto in considerazione della rilevanza che tale obbligo assume rispetto alla tutela dell’affidamento e del diritto di difesa del lavoratore incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore.

Tali conclusioni trovano conferma, del resto nell’autonomia e distinzione che il procedimento disciplinare riveste rispetto al procedimento penale, sol che si consideri che la presunzione di non colpevolezza stabilita nell’art. 27 Cost., riguarda solo il potere punitivo pubblico e non può estendersi analogicamente ai rapporti fra i privati, è che l’irrilevanza penale del fatto addebitato non determina di per sè l’assenza di analogo disvalore secondo la legge del contratto, ferma restando la rilevanza che la sussistenza del reato (e la sua qualificazione ad opera del giudice penale) possono assumere, anche nell’impiego privato, ove costituiscano presupposto per la configurazione dell’illecito disciplinare e per l’applicazione conseguente della sanzione(vedi in motivazione, Cass. cit. a n. 7410/2010).

Ne discende ancora che – per effetto della rilevanza che va riconosciuta, nei limiti indicati, all’obbligo del datore di lavoro di ricostruire i fatti e la loro imputabilità – deve ritenersi che gravi su quest’ultimo l’onere di provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l’accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare (v. sul punto anche Cass. cit.

n. 1101/2007).

Nello specifico, la Corte distrettuale, con motivazione logicamente coerente e puntualmente riferita a tutti gli elementi del giudizio, ha rimarcato l’inconsistenza delle difese articolate dalla società, che in sede di gravame aveva dedotto di avere avuto piena contezza della illiceità della condotta posta in essere dalla propria dipendente, solo all’esito della istruttoria dibattimentale. Ha infatti puntualizzato con incedere argomentativo del tutto congruo, che la parte datoriale “al più tardi al momento del rinvio a giudizio”, aveva “avuto piena contezza dei capi di imputazione contestati alla G. e, quindi, avrebbe dovuto contestare alla dipendente i fatti come indicati dalla autorità giudiziaria penale, ed eventualmente riservarsi l’irrogazione della sanzione, all’esito della definizione del processo penale”.

Tale accertamento, congruo e completo per quanto sinora detto, non risulta validamente inficiato dalle critiche formulate dalla ricorrente la quale ha omesso di provare che, in esito alla denuncia penale già sporta nei confronti della ricorrente nel 2004 e del rinvio a giudizio risalente al 2007, risultasse impossibile una adeguata ricostruzione dei fatti, idonea a sorreggere una immediata e plausibile contestazione delle circostanze in seguito addebitate.

In definitiva, la pronuncia impugnata si palesa congrua sotto il profilo logico e corretta sul versante giuridico, in quanto coerente con i principi interpretativi richiamati, onde resiste alle censure all’esame.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese seguono, infine, la soccombenza nella misura in dispositivo liquidata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, dalla parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2016

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