Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1366 del 18/01/2019

Cassazione civile sez. II, 18/01/2019, (ud. 23/05/2018, dep. 18/01/2019), n.1366

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26635/2014 proposto da:

C.E., in proprio e quale erede di P.A.,

P.G. e P.M., quali eredi di P.A., tutti

rappresentati e difesi dall’Avvocato GIANLUCA FUSCO, ed

elettivamente domiciliati preso il suo studio in ROMA, VIA DEI TRE

OROLOGI 20;

– ricorrenti –

contro

S.G., rappresentato e difeso dagli Avvocati SERGIO TOGNON

e JACOPO TOGNON, ed elettivamente domiciliato presso lo studio

dell’Avvocato Fabio Severini, in ROMA, VIA CHIUSI 31;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2711/13 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 7/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

23/05/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 134/2006, depositata il 16.5.2006, il Tribunale di Padova, Sez. distaccata di Este, accoglieva la domanda riconvenzionale di usucapione, proposta dai convenuti P.A. ed C.E. rigettava le domande di S.G. di restituzione di una striscia di terreno posseduta dai convenuti, posta in prossimità del confine tra le due proprietà, di rimozione delle tubature fognarie ivi esistenti o in subordine di arretramento delle tubature nel rispetto delle distanze legali dal confine e di condanna al pagamento di un’indennità per l’occupazione dell’area in contestazione.

Avverso detta sentenza proponeva appello S.G. chiedendone la riforma, in quanto nella medesima era stata riconosciuta ammissibile la domanda di usucapione della striscia di terreno contestata, pur in presenza di un precedente giudizio tra le parti, in cui era stato accertato l’esatto confine tra le due proprietà con sentenza passata in giudicato (Pretura di Padova, Sezione distaccata di Monselice, n, 58/5/1997, depositata il 15.12.1997).

Si costituivano in giudizio gli appellati chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata.

Con sentenza n. 2711/2013, depositata il 7.11,2013, la Corte d’Appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del giudice di primo grado, rigettava la domanda di usucapione avanzata da P.A. ed C.E. e, per l’effetto, li condannava a restituire a S.G. l’area di terreno, descritta nella C.T.U., posta sul Iato nord del lotto dalla parte dei coniugi P. – C. e oltre la recinzione fino a un massimo di tre metri, di cui alla sentenza della Pretura di Padova, Sezione distaccata di Monselice del 1997; condannava gli appellati all’eliminazione delle tubature fognarie e di ogni altra opera, nei limiti in cui esse insistono sul fondo di proprietà dell’attore, secondo i confini accertati dal Pretore di Monselice, nonchè ad arretrare le tubature e opere fognarie, poste sulla loro proprietà, fino alla distanza minima dal confine stabilita dall’art. 889 c.c.; rigettava le altre domande dell’appellante e compensava tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Avverso detta sentenza propongono ricorso per cassazione C.E., in proprio e quale erede di P.A., nonchè gli altri eredi di quest’ultimo P.G. e P.M., sula base di due motivi; resiste S.G. con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Preliminarmente, va rigettata l’eccezione di inammissibilità del controricorso, sollevata dai ricorrenti nella memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., in ragione della redazione dell’atto attraverso l’assemblaggio di interi testi delle decisioni e di atti acquisiti nel processo di merito. Invero, nonostante il loro materiale inserimento nel controricorso, tali riproduzioni – in quanto facilmente individuabili ed isolabili – possono agevolmente espungersi dal controricorso stesso, riconducendolo perciò a dimensioni e contenuti rispettosi del canone di sinteticità (ex artt. 366 e 370 c.p.c.) e consentendo l’esame delle argomentazioni opposte ai motivi di ricorso.

2. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano, “In relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 (la) nullità della sentenza per violazione dell’art. 102 c.p.c., non essendo stata disposta l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari; ovvero, per la medesima ragione, in relazione all’art. 360, n. 3 C.D.C., per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 948 c.c. e art. 102 c.p.c.”. Nel costituirsi in primo grado i coniugi C. – P. rilevavano l’esigenza di un’integrazione del contraddittorio, osservando che essi erano titolari dell’area per la quota di 6/24, come risultava dall’allegato atto di acquisto della loro proprietà dell’8.2.1964, mentre la restante quota di 18/24 di proprietà risultava intestata a varie persone, che avrebbero dovuto essere citate in causa, vertendosi, nel caso di rivendica, in ipotesi ci litisconsorzio necessario. I ricorrenti deducono pertanto la nullità della sentenza di appello e di quella di primo grado, in considerazione della mancata assunzione dei provvedimenti di cui all’art. 102 c.p.c., in quanto l’azione ex art. 948 c.c., doveva essere intrapresa nei confronti di tutti i soggetti passivamente legittimati.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Va ricordato che la parte che deduce la non integrità del contraddittorio ha l’onere non solo di indicare quali siano i litisconsorti pretermessi, ma anche di dimostrare i motivi per i quali è necessaria l’integrazione (Cass. n. 25810 del 2013). Che, nella specie, avrebbe dovuto essere esaminata anche con riferimento al principio secondo cui, nel caso di detenzione del bene che si assuma esercitata senza titolo da più soggetti, l’azione di rilascio dello stesso può essere esercitata contro uno solo di essi, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, atteso che la pronuncia è idonea a spiegare effetti relativamente a colui che è stato evocato in giudizio e non può pertanto considerarsi inutilder data, mentre l’obbligazione risarcitoria eventualmente connessa a quella di rilascio è per sua natura solidale e non dà luogo a litisconsorzio necessario (Cass. n. 25200 de 2017; Cass. n. 13625 del 2004).

3. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono, “In relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, (la) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 948,950 e 2909 c.c.; ovvero, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame di elementi di fatto decisivi in relazione sia all’esito delle relazioni peritali svolte nel primo grado e nel procedimento definito dal Pretore di Monselice, sia all’esatta delimitazione della materia controversa nel giudizio all’epoca promosso dalla controparte ai sensi dell’art. 950 c.c.”. Osservano i ricorrenti che la sentenza del Pretore di Monselice aveva deciso sulla domanda di regolamento di confini proposta dallo S.: nella motivazione si dava atto che l’attore, nell’atto di citazione, aveva riservato a ulteriore giudizio la domanda di rivendica dell’area indebitamente occupata e di rimozione dei manufatti illegittimamente installati. La sentenza precisava che nel caso di specie era da reputarsi spiegata azione di accertamento dei confini, nella ritenuta sussistenza del presupposto di incertezza soggettiva e oggettiva. L’ambiguità sulla effettiva delimitazione del confine tra le due proprietà era ulteriormente alimentata dalla C.T.U. disposta nel giudizio pretorile, motivo per cui, nel primo grado del presente giudizio, era disposta nuova CTU al fine di accertare l’esatta estensione dell’area oggetto di causa. Ciò premesso, i ricorrenti lamentano che la Corte di merito abbia ritenuto che l’accertamento del Pretore dovesse costituire il giudicato di riferimento, ma tale decisione si basava sulle conclusioni di una CTU che non offriva risposte certe circa l’effettivo sconfinamento dei ricorrenti rispetto ai margini desumibili dalle mappe catastali. Inoltre, per i ricorrenti i giudici di appello hanno accolto, in modo contraddittorio, la domanda ai sensi dell’art. 948 c.c. e, cosi, hanno confermato che la materia non era stata oggetto del precedente giudizio, definito dal Pretore in base all’art. 950 c.c.; eppure, con riferimento all’eccezione di usucapione da parte di ricorrenti hanno ritenuto che la sentenza pretorile dovesse costituire giudicato. Sotto un ulteriore profilo, viene osservato che il Pretore di Monselice non aveva assunto alcuna decisione circa la titolarità della porzione di fondo in contestazione. Ne consegue che la Corte d’Appello ha fatto un’erronea applicazione degli artt. 948 e 950 cc., nonchè ha anche erroneamente applicato l’art. 2909 c.c., quando ha ritenuto di poter desumere che il giudicato formatosi sulla decisione relativa al confine potesse assorbire anche la verifica del diritto di proprietà.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2 – Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate da giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato alla Corte non equivale, dunque, alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata call’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

3.3. – D’altro canto, neppure è ammissibile la alternativa denuncia delle medesime norme (artt. 948,950 e 2909 c.c.) per assenta violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis anche alla sentenza di appello in esame. Prevede, infatti, il nuovo testo che la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. E’ noto come, secondo le Sezioni Unite (n. 8053 e n. 8054 del 2014), la norma consenta di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, i ricorrenti avrebbero dovuto specificamente indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “clecisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma della enucleazione di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde poter procedere all’esame del denunciato parametro, non v’è traccia. Sicchè, alla luce del sopra richiamato Consolidato indirizzo giurisprudenziale, riguardante la più angusta latitudine della nuova formulazione rispetto al previgente vizio di “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudiziò, le censure mosse in riferimento al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018).

4. – Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Cote dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti alla refusione delle spese di lite al controricorrente che liquida in complessivi Euro 4.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2019

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