Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13659 del 30/05/2017

Cassazione civile, sez. II, 30/05/2017, (ud. 10/05/2017, dep.30/05/2017),  n. 13659

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27837-2012 proposto da:

I.F. (OMISSIS), P.R. (OMISSIS),

rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE INZERILLO;

– ricorrenti –

contro

B.N., B.M., B.G.M.,

I.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE PLATONE, 21, presso

lo studio dell’avvocato MARCELLA LOMBARDO, rappresentati e difesi

dagli avvocati MARIA GALASSO, ALFREDO CORDONE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1170/2012 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 07/08/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2017 dal Consigliere Dott. SCARPA ANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Pepe Alessandro, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Galasso;

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con citazione del 13 dicembre 1994 B.N., B.G.M., B.M. e I.A., convenivano in giudizio i coniugi I.F. e P.R. per sentire dichiarare nulli i contratti di donazione stipulati 12 maggio e il 19 luglio 1994 da L.M., poi deceduta nel 1998 (della quale gli attori erano tutti nipoti), in favore dei convenuti (essendo I.F. anch’egli nipote della L.), e sentire altresì condannare questi ultimi al rilascio dei beni immobili oggetto di liberalità. In precedenza, con ordinanza del 22 novembre 1994, gli attori avevano ottenuto il sequestro giudiziario dei medesimi beni.

Il Tribunale di Termini Imerese, con sentenza del 21 gennaio 2008, annullava i contratti e condannava i convenuti al rilascio degli immobili oggetto della donazioni. Il Tribunale riteneva che le liberalità fossero annullabili, e non nulle, in quanto la donante era incapace di intendere di volere fin dal mese di aprile del 1994: tale accertamento veniva radicato sulle conclusioni assunte dal consulente tecnico d’ufficio nominato nel corso del giudizio e sulle evidenze di alcuni certificati medici anteriori al compimento degli atti dispositivi, le quali sconfessavano i rilievi sollevati dal consulente di parte dei convenuti e le risultanze della perizia espletata nel corso del procedimento penale che si era svolto a carico dei convenuti, e che si era concluso con la loro assoluzione dal reato di circonvenzione di incapace. Il Tribunale reputava poi ininfluenti, ai fini della decisione, le deposizioni testimoniali raccolte nel corso del giudizio e il parere espresso con riferimento alle condizioni di salute di L.M. dalla Commissione sanitaria per gli invalidi civili nel corso dell’anno 1995.

Proposto gravame, la Corte d’appello di Palermo, con sentenza pubblicata il 7 agosto 2012, respingeva l’impugnazione. La Corte di Palermo sottolineava che, ai fini della prova dell’incapacità di intendere di volere rilevante ai fini dell’annullamento del negozio ex art. 428 c.c., era sufficiente una semplice menomazione delle facoltà intellettive e volitive, tale da impedire il formarsi di una volontà cosciente; osservava che l’accertamento in ordine a tale menomazione andava compiuto con l’ausilio delle regole desunte dalla scienza medica e che, pertanto, ai fini dell’indagine rivestivano un rilievo marginale le prove orali assunte nel corso del giudizio, che erano frutto di impressioni soggettive dei testimoni escussi; precisava che fin dal novembre 1993 era stata diagnosticata alla donante una “atrofia corticosottocorticale cerebro – cerebbellare” e che da due certificati medici del 17 marzo e del 28 aprile 1993 emergeva che la medesima era affetta dalla medesima patologia, oltre che da una vasculopatia cerebrale sclerotica, la quale risultava già insorta nel 1992, allorquando venne rilevata la presenza di disturbi della parola, episodi di disorientamento temporale e spaziale e disturbi mnesici per fatti recenti. Osservava ancora la Corte d’Appello che da una relazione medica del 12 giugno 2001 emergeva che nel mese di settembre 1994 L.M. risultava affetta da uno stato di demenza in fase avanzata, con severa disfasia, scarsa reattività agli stimoli esterni, severo disorientamento temporale e spaziale, turbe della memoria e turbe comportamentali. Ha quindi spiegato la sentenza impugnata che dovesse essere condivisa la consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio, la quale risultava fondata sull’esame completo e critico della documentazione sanitaria antecedente e successiva alle date in cui vennero conclusi i contratti di donazione. La Corte di Palermo, poi, ha ritenuto che non potessero trarsi argomenti contrari da altre evenienze (quali lo stato di temporanea sofferenza nel corso di una delle visite mediche, che era rimasto indimostrato, o il mancato accertamento della grave cerebropatia da parte della nominata Commissione, che non risultava avesse proceduto a una completa indagine sulle condizioni di salute di L.M.). I giudici dell’appello ritenevano, infine, esistente la malafede degli appellanti, intesa come consapevolezza della patologia sofferta dalla donante: ciò in considerazione degli stretti rapporti di parentela e di frequentazione esistenti tra i primi nella seconda.

I.F. e P.R. hanno proposto ricorso articolato in sei motivi, mentre B.N., B.G.M., B.M. e I.A. resistono con controricorso.

Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Con ordinanza dell’il ottobre 2016 questa Corte disponeva rinvio a nuovo ruolo per l’acquisizione del fascicolo d’ufficio del giudizio di secondo grado presso la Corte d’Appello di Palermo e i ricorrenti hanno presentato nuova memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso di I.F. e P.R. lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 428 c.c., comma 1, artt. 775 e 1441 c.c.. Assumono i ricorrenti che B.N., B.G.M., B.M. e I.A. avevano introdotto la loro azione sotto il profilo della nullità degli atti dispositivi, nella qualità di “nipoti, perchè figli di sorelle, della sig.ra L.M.”. Il Tribunale di Termini Imerese ha però qualificato tale azione come domanda di annullamento per incapacità della donante, domanda, tuttavia, con riferimento alla quale doveva ravvisarsi un difetto di legittimazione ad agire da parte degli attori, potendo la stessa azione di annullamento essere proposta soltanto dall’incapace, da chi ne fa le veci, dal suoi eredi o aventi causa.

Col secondo motivo di ricorso viene denunciata l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio. Si rappresenta che la Corte di appello abbia mancato di far richiamo della sentenza penale, passata in giudicato, che aveva pronunciato l’assoluzione piena dei ricorrenti, imputati del reato di circonvenzione di incapaci, in tal modo trascurando di considerare i numerosi elementi che il giudice penale aveva posto a fondamento della ritenuta insussistenza dello stato di incapacità della donante. In particolare, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente affermato che il perito nominato nel corso del giudizio penale non avesse esaminato la documentazione sanitaria anteriore e successiva alle date delle donazioni intercorse.

Il terzo motivo di ricorso deduce ancora l’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata. La censura investe, sotto il profilo della sufficienza e della coerenza logica, l’accertamento della Corte di merito in ordine alla compromissione delle capacità cognitive e volitive della donante. Osservano i ricorrenti che il consulente d’ufficio non era giunto ad affermare che gli esami strumentali diagnostici effettuati prima della visita avessero dato evidenza di uno stato di demenza che si collocava temporalmente in una data anteriore a quella degli atti di liberalità. Il c.t.u. aveva dato atto, piuttosto, che il quadro clinico della donante si connotava per la presenza un iter degenerativo che aveva determinato una perdita progressiva delle facoltà cognitive di L.M.: tuttavia detto carattere degenerativo della patologia non poteva portare alla conclusione certa che lo stato di incapacità di intendere e di volere dell’interessata si fosse prodotto all’epoca in cui furono poste in atto le donazioni impugnate. Inoltre, il verbale di visita della Commissione invalidi del 23 ottobre 1995 evidenziava che lo stato di L.M. fosse quello di una persona “orientata e collaborante”: il che risultava contrastante con quanto attestato nella consulenza tecnica di parte attrice, in cui si descriveva che al momento della visita della paziente, in data 23 settembre 1994, lo stato di quest’ultima risultava essere assolutamente non reattivo rispetto a stimoli esterni. Le emergenze della consulenza disposta in sede penale erano poi nel senso di escludere che L.M. si trovasse in uno stato di infermità psichica tale da determinare un grave pregiudizio alla sua capacità di intendere e di volere. In conclusione, sostengono i ricorrenti, la Corte di Palermo avrebbe impiegato quale unico elemento del proprio convincimento un giudizio ipotetico, espresso dal consulente nominato nel corso del giudizio civile, che non era fondato sull’obbiettiva evidenza clinica di un’alterazione patologica in prossimità della data di stipula dei contratti impugnati.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 428, 2697 e 2729 c.c.. Si assume che la Corte distrettuale avrebbe erroneamente posto alla base del proprio convincimento una prova congetturale.

Il quinto motivo di ricorso censura la sentenza impugnata sempre per insufficiente e contraddittoria motivazione. I ricorrenti lamentano che i giudici dell’appello avevano ritenuto di disattendere le prove orali raccolte nel corso del giudizio civile, nonostante esse fornissero precise indicazioni quanto allo stato di lucidità di L.M.. Inoltre la Corte di merito aveva impropriamente trascurato le deposizioni trascritte della sentenza penale, deposizioni che avevano fornito elementi di riscontro orientati nel medesimo senso.

Il sesto motivo è incentrato ancora sull’omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. Lamentano i ricorrenti come l’accertamento circa la frequentazione esistente tra di loro e la donante meritasse un maggiore approfondimento: in particolare, la sentenza avrebbe dovuto chiarire se detta frequentazione fosse emersa dall’istruzione probatoria o se, piuttosto, essa risultasse una circostanza pacifica in causa.

2. Il primo motivo di ricorso è infondato. Va premesso che, avendo il Tribunale qualificato l’azione proposta da B.N., B.G.M., B.M. e I.A. come azione di annullamento ex art. 428 c.c., in mancanza di gravame sul punto, su tale qualificazione della domanda si è formato il giudicato. Assumendosi l’incapacità naturale della donante L.M. al momento della prestazione del consenso agli atti del 12 maggio e del 19 luglio 1994, opera altresì, allora, la regola in tema di legittimazione di cui all’art. 428 c.c., norma che consente l’esercizio dell’azione non solo all’incapace, ma anche ai suoi eredi e aventi causa, in maniera da tutelare i rispettivi interessi essenzialmente patrimoniali.

Si consideri, peraltro, che per le donazioni oggetto del presente giudizio gli attuali ricorrenti erano stati altresì imputati in procedimento penale per circonvenzione di incapace; e il contratto stipulato per effetto diretto della consumazione del reato di circonvenzione d’incapace, punito dall’art. 643 c.p., viene, viceversa, ritenuto nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c., per contrasto con norma imperativa, giacchè viene ravvisata una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze di interesse collettivo sottese alla tutela penale, trascendenti quelle di mera salvaguardia patrimoniale dei singoli contraenti perseguite dalla disciplina sulla annullabilità dei contratti (cfr. Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2860; Cass. Sez. 2, 27/01/2004, n. 1427).

Ora, B.N., B.G.M., B.M. e I.A. avevano agito nel dicembre 1994 quali “nipoti” di L.M., essendo poi questa deceduta nel (OMISSIS). I ricorrenti contestano che gli attori non abbiano mai dimostrato la loro qualità di eredi di L.M. (ciò al fine di poter agire ai sensi dell’art. 428 c.c.), essendone solo prossimi congiunti, ma si tratta di questione di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, che non risulta essere mai stata posta nei precedenti gradi del processo (per quanto specificamente indicato in ricorso, come prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e che appare incompatibile con il comportamento difensivo tenuto da I.F. e P.R. fino al giudizio di legittimità.

Non si tratta, propriamente, di un giudicato intervenuto sulla “legittimazione attiva” degli originali attori, come si eccepisce in controricorso.

Piuttosto, la titolarità della qualità di erede dell’incapace di intendere e di volere, ai fini della legittimazione all’azione di annullamento ex art. 428 c.c., è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicchè spetta all’attore allegarla e provarla, salvo, tuttavia, il riconoscimento o lo svolgimento, da parte del convenuto, di difese incompatibili con la negazione o la mancanza di quella qualità (arg. da Cass. Cass. Sez. U, 16/02/2016, n. 2951), risultando perciò inammissibile, perchè tardiva, una contestazione al riguardo sollevata per la prima volta in sede di legittimità.

E’, peraltro, principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che la parte che abbia un titolo legale che le conferisca il diritto di successione ereditaria – quale erede legittima o legittimaria – non è tenuta a dimostrare di avere accettato l’eredità, qualora proponga in giudizio domande che di per sè manifestino la volontà di accettare, gravando, in questi casi, su chi contesti la qualità di erede l’onere di eccepire la mancata accettazione dell’eredità ed eventualmente i fatti idonei ad escludere l’accettazione tacita, che appare implicita nel comportamento dell’erede (cfr. Cass. Sez. 3, 14/10/2011, n. 21288; Cass. Sez. 3, 20/10/2014, n. 22223).

Non è invece decisivo il rilievo che comunque al momento della proposizione della loro domanda (dicembre 1994) B.N., B.G.M., B.M. e I.A. non avessero già la qualità di eredi di L.M., essendo questa deceduta soltanto nel 1998.

E’, infatti, inammissibile la domanda di annullamento di una donazione compiuta da persona incapace di intendere e di volere, proposta da un soggetto che abbia solo una mera aspettativa di fatto sul bene, quale futuro erede del donante, sull’assunto che l’atto di liberalità lede i suoi futuri diritti successori, difettando anche d’interesse ad agire. Tuttavia, poichè la legittimazione ad causam, come l’interesse ad agire (pur assenti all’atto della proposizione della domanda), quali condizioni dell’azione, devono sussistere al momento della decisione, il giudice è comunque tenuto ad esaminare nel merito la domanda di annullamento quando, nelle more del giudizio (come avvenuto nella specie), sia intervenuto il decesso del de cuius e l’istante ne sia divenuto erede, rendendo così proponibile l’azione ab origine (arg. da Cass. Sez. 2, 17/12/1986, n. 7622; Cass. Sez. 2, 16/12/1983, n. 7421; Cass. Sez. 2, 13/12/1979, n. 6504).

3. Il secondo, il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente perchè del tutto connessi, sono del pari infondati. Tali censure, come visto dapprima nel sintetizzarne il contenuto, sono tutte volte a contestare l’accertamento, operato dalla Corte d’Appello di Palermo, circa la sussistenza della condizione di incapacità di intendere e di volere di L.M., nonchè della malafede dei ricorrenti, al momento delle donazioni del maggio e del luglio 1994, invocandosi la maggiore rilevanza probatoria della sentenza penale di assoluzione dal reato di circonvenzione di incapace, nonchè dei documenti acquisiti nello stesso giudizio penale, criticandosi, poi, le conclusioni peritali, censurandosi il mancato rilievo tributato alle prove testimoniali, ed infine lamentando l’insufficiente dimostrazione dell’assidua frequentazione tra le parti.

Più volte questa Corte ha ribadito che, ai fini della sussistenza dell’incapacità di intendere e di volere, costituente – ai sensi dell’art. 428 c.c. – causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la loro menomazione, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente. Al fine dell’invalidità del negozio per incapacità naturale, non è quindi necessaria la prova che il soggetto, nel momento del compimento dell’atto, versava in uno stato patologico tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che tali facoltà erano perturbate al punto da impedire al soggetto una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio, e quindi il formarsi di una volontà cosciente. La prova dell’incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi per la sua configurabilità, e il giudice è libero di utilizzare, ai fini del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altre. L’apprezzamento di tale prova costituisce giudizio riservato al giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto. Del pari, l’indagine sulla sussistenza della malafede di colui che contrae con l’incapace di intendere e di volere, richiesta dall’art. 428 c.c., si risolve in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Cass. Sez. 2, 08/06/2011 n. 12532; Cass. Sez. 2, 28/03/2002, n. 4539).

La Corte di Palermo, nell’ambito di tale apprezzamento delle emergenze istruttorie istituzionalmente devoluto al giudice del merito, ha evidenziato come, nel corso di una degenza ospedaliera protrattasi dal 2 al 12 novembre 1993, era stata diagnosticata alla L., ricoverata in “scadenti condizioni generali”, una “atrofia corticosottocorticale cerebro – cerebbellare”. Altri due certificati medici del marzo e dell’aprile 1993 indicavano che la medesima signora L. era affetta da una vasculopatia cerebrale sclerotica, patologia già riscontrata in uno stato iniziale durante una visita medica collegiale dell’aprile 1992, allorquando venne rilevata la presenza di disturbi della parola, episodi di disorientamento temporale e spaziale e disturbi mnesici per fatti recenti. Osservava ancora la Corte d’Appello che la consulente tecnica dottoressa Lo. aveva visitato la L. nel mese di settembre 1994, e la stessa era risultata all’epoca affetta da uno stato di demenza in fase avanzata, con severa discrasia, scarsa reattività agli stimoli esterni, severo disorientamento temporale e spaziale, turbe della memoria e turbe comportamentali. La Corte di Palermo ha anche spiegato che non potessero trarsi argomenti contrari al maturato convincimento dallo stato di temporanea sofferenza nel corso della visita medica con la dottoressa Lo., essendo lo stesso rimasto indimostrato, nè dal mancato accertamento della grave cerebropatia da parte della Commissione Invalidi civili, la quale non risultava avesse proceduto a una completa indagine sulle condizioni di salute di L.M..

Ora, la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (pur, nella specie, secondo il testo antecedente al D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella L. n. 134 del 2012, ratione temporis applicabile) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali, diversa da quella operata dal giudice di merito.

Ciò debitamente premesso, i ricorrenti sollecitano questa Corte a rivalutare l’idoneità probatoria di documenti ed atti dei pregressi gradi di merito, pur senza indicarne specificamente il contenuto, come prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6). D’altra parte, per quanto detto in precedenza, la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, laddove nel caso di specie sembra, a tutto concedere, trovarsi al cospetto di una difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni dei ricorrenti sul valore e sul significato attribuiti dai giudici di merito agli elementi delibati. In quest’ottica, i motivi da due a sei di ricorso si risolvono in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento dei primi giudici, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione.

In proposito, è opportuno ribadire che la valutazione delle prove, il giudizio sull’attendibilità dei testi, la valutazione di opportunità di fare ricorso a presunzioni, e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di formare il suo convincimento utilizzando gli elementi che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti, essendo limitato il controllo del giudice della legittimità alla sola congruenza della decisione dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova.

E’ poi vero che, come già accennato, la prova dell’incapacità d’intendere o di volere può essere data con qualsiasi mezzo e non necessariamente a mezzo di consulenza tecnica; tuttavia, poichè l’incapacità naturale suppone, se non necessariamente una malattia che annulli in modo assoluto le facoltà mentali del soggetto, quanto meno un turbamento psichico tale da menomare gravemente le attitudini volitive ed intellettive dello stesso, è pressochè inevitabile disporre per i relativi accertamenti apposita consulenza tecnica d’ufficio, con funzione anche “percipiente”, mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi.

In ogni caso, la Corte d’Appello ha offerto in sentenza (pagg. da 4 a 7) un’adeguata, coerente e logica motivazione in ordine a tutti i profili dedotti dai ricorrenti.

Va ancora evidenziato che, in tema di incapacità naturale conseguente ad infermità psichica, ove esista una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente (nella specie, atrofia cerebrale cortico-sottocorticale), una volta accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi prossimi nel tempo (nella fattispecie, le visite effettuate nel novembre 1993 e nel settembre 1994), per il periodo intermedio la sussistenza dell’incapacità è assistita da

presunzione iuris tantum, sicchè in concreto si verifica l’inversione dell’onere della prova, dovendo essere dimostrato dalla parte interessata che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia (Cass. 04/03/2016, Sez. 2, n. 4316; Cass. Sez. 2, 09/08/2011, n. 17130; Cass. Sez. L, 12/03/2004, n. 5159).

Il secondo motivo di ricorso, in particolare, non tiene poi conto della non coincidenza della fattispecie di cui agli artt. 643 c.p. e 428 c.c., in quanto per la consumazione del reato di circonvenzione di persone incapaci è necessaria l’esistenza di uno stato di infermità o deficienza psichica di una persona, stato che non presuppone una vera e propria malattia mentale, ma pur sempre un’effettiva e notevole menomazione delle facoltà intellettive o volitive, tale da rendere possibile la suggestione del minorato da parte di altri; mentre l’art. 428 c.c., richiede l’accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità di intendere e di volere. Di tal che, alcuna efficacia vincolante riveste il giudicato penale di assoluzione dal reato di circonvenzione di incapace nel giudizio civile di annullamento ex art. 428 c.c., quanto all’accertamento delle condizioni psicofisiche della parte offesa, ed è mera facoltà del giudice civile l’utilizzazione delle prove raccolte nel giudizio penale come elementi concorrenti alla formazione del suo convincimento (così Cass. Sez. 1, 23/11/2000, n. 15128; arg. anche da Cass. Sez. 1, 19/05/2016, n. 10329; Cass. Sez. 6 – 2, 02/10/2015, n. 19767).

Nè, infine, è illogica, e perciò rimane insindacabile in questa sede, la deduzione operata dalla Corte d’Appello quanto alla prova della malafede dei donatari, avendo essa convincentemente argomentato che gli stretti rapporti di parentela e di frequentazione esistenti con la donante deponessero per la consapevolezza che i ricorrenti avevano delle menomazioni nella sfera intellettiva e volitiva della signora L..

4. Conseguono il rigetto del ricorso e la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti a rimborsare ai controricorrenti le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2017

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