Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13657 del 04/06/2010

Cassazione civile sez. lav., 04/06/2010, (ud. 13/05/2010, dep. 04/06/2010), n.13657

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo

studio dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

L.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2297/2005 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 17/11/2005 r.g.n. 671/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/05/2010 dal Consigliere Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega ROBERTO PESSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Brindisi, depositato in data 4.4.2003, L.L., assunta con contratto a tempo determinato dalla società Poste Italiane s.p.a. dal 16 agosto al 31 agosto 1999 per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, rilevava che i motivi indicati nel contratto concluso non rientravano nell’ambito delle ipotesi previste, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, dall’art. 8 del CCNL del 26 novembre 1994, così come integrato con l’accordo collettivo del 25 settembre 1997 e che, essendo stata l’assunzione illegittima, il contratto si era convertito in contratto a tempo indeterminato. Chiedeva pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto al predetto rapporto di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione dello stesso in contratto a tempo indeterminato, con condanna della società al risarcimento del danno.

Con sentenza in data 18.1.2005 il Tribunale adito accoglieva la domanda e dichiarava la natura a tempo indeterminato del rapporto in questione, condannando la società convenuta al ripristino del rapporto ed al pagamento in favore della ricorrente delle retribuzioni non corrisposte.

Avverso tale sentenza proponeva appello la società Poste Italiane s.p.a. lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo il rigetto delle domande proposte da controparte con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Lecce, con sentenza in data 9.11.2005, rigettava il gravame.

In particolare la Corte territoriale rilevava che la possibilità di assunzione a termine, ai sensi dell’accordo sindacale del 25.9.1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL del 26.11.1994, era prevista sino al 30.4.1998, mentre il contratto in parola risaliva al 16.8.1999; e rilevava che detta assunzione, pur essendo stata dichiarata come effettuata ai sensi della disciplina legale vigente ed a norma dell’art. 8 del CCNL 26.11.1994 e dei successivi accordi integrativi, non conteneva alcuna concreta indicazione delle ragioni della stipulazione a termine sottese alla previsione dell’accordo collettivo; in particolare la società datoriale non aveva provato l’esistenza di una effettiva situazione che giustificasse l’assunzione a termine della lavoratrice, e non aveva indicato il nome del lavoratore sostituito nè la causa della sua sostituzione.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Poste Italiane s.p.a con tre motivi di impugnazione.

La lavoratrice intimata non ha svolto alcuna attività difensiva.

La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

Col primo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 e degli artt. 1362 e segg. c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale, disapplicando la disposizione di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23, aveva ritenuto che, per ridurre a razionalità il sistema, tale ipotesi avrebbe dovuto essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale.

Per contro, facendo corretta applicazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. c.c., e, in particolare, ricercando la volontà comune delle parti nello stipulare l’integrazione all’art. 8 CCNL 1994, doveva concludersi che gli accordi collettivi non fissavano alcun limite temporale alla stipula a dei contratti a termine. Se, invero, la volontà delle parti fosse stata quella di limitare in un illogicamente ristretto arco di tempo la possibilità di assumere a temine in una situazione così particolarmente complessa, risulterebbero oggettivamente illogiche ed incomprensibili le ragioni per le quali le organizzazioni sindacali avrebbero successivamente consentito la stipulazione di numerosi contratti a termine ed addirittura consentito l’inserimento nel contratto collettivo del 2001 dei presupposti di fatto presenti nell’accordo 25.9.1997.

Il motivo non è fondato.

Deve premettersi, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997.

Partendo dal detto principio questa Corte, dopo aver ribadito la legittimità della formula adottata nell’accordo integrativo, caratterizzata, in particolare, dalla mancata previsione di un termine finale, ha ritenuto tuttavia viziate quelle decisioni dei giudici di merito nella parte in cui hanno affermato la natura meramente ricognitiva dei cd. accordi attuativi e conseguentemente il carattere non vincolante degli stessi quanto alla determinazione della data entro la quale era legittimo ricorrere a contratti a termine, atteso che con tale interpretazione dei suddetti accordi si sono discostate dal chiaro significato letterale delle espressioni usate, ed in particolare di quella secondo cui per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30/4/98 (cfr.

accordo del 16 gennaio 1998); ciò, fra l’altro, in violazione del principio secondo cui nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr, ex plurimis, Cass. sez. lav., 28.8.2003 n. 12245; Cass. sez. lav., 25.8.2003 n. 12453).

La stessa giurisprudenza ha ritenuto inoltre la sussistenza, nelle suddette sentenze, di una violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello per cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la statuizione secondo cui le parti non avevano inteso introdurre limiti temporali alla previsione di cui all’accordo del 25 settembre 1997 implica la conseguenza che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano “senza senso” (così testualmente Cass. sez. lav., 14.2.2004 n. 2866).

La giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr., ex plurimis, Cass. sez. lav., 23.8.2006 n. 18378) ha, per contro, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo circa due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione deve comunque ritenersi conforme alla regula iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. sez. lav., 12.3.2004 n. 5141).

Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito e quelle oggi proposte all’attenzione della Corte non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

La censura relativa alla legittimità del termine apposto al contratto de quo deve essere pertanto considerata infondata per le ragioni sin qui esposte.

Il suddetto motivo di ricorso non può quindi trovare accoglimento.

Col secondo motivo di gravame la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, e degli artt. 1362 e segg. c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

In particolare rileva la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che il contratto in questione, stipulato anche per far fronte a “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie”, fosse illegittimo a causa della mancata indicazione del lavoratore sostituito.

Il motivo è inammissibile.

Come è noto, per il principio di specificità e autosufficienza del ricorso, è necessario che nello stesso siano indicati con precisione tutti quegli elementi di fatto che consentano di controllare l’esistenza del denunciato vizio senza che il giudice di legittimità debba far ricorso all’esame degli atti.

Pertanto nel caso di specie parte ricorrente, nel proporre la suddetta censura concernente l’asserita stipula del contratto anche per far fronte a “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie” (laddove nell’impugnata sentenza si fa riferimento alla assunzione per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso e per la graduale introduzione di nuovi processi produttivi”), avrebbe dovuto riportare nel ricorso (ovvero allegare allo stesso) il contenuto del contratto in parola, onde consentire a questa Corte di valutare l’esistenza del vizio denunciato senza dover procedere ad un (non dovuto) esame dei fascicoli – d’ufficio o di parte – che a tali atti facciano riferimento.

Ed infatti, come ha chiarito a più riprese questa Corte (Cass. sez. lav., 23.3.2005 n. 6225; Cass. sez. lav., 21.5.2004 n. 9734), “il rispetto del canone di autosufficienza risulta fondato sull’esigenza, particolare nel giudizio di legittimità, di consentire al giudice dello stesso di valutare la decisività della prova, testimoniale o documentale, di cui si lamenti l’omesso esame da parte del giudice di merito, la sussistenza della violazione del canone ermeneutico, di carenze dell’elaborato peritale su cui si fondi la decisione del giudice di merito, e, più in generale, di un error in procedendo, senza che egli debba procedere ad un esame dei fascicoli – d’ufficio o di parte – ove tali atti siano contenuti (Cass. 1170/04, 4905/03, 9079/03, 15124/01).

Tale esigenza di astensione del giudice di legittimità dalla ricerca del testo completo degli atti processuali, attinenti al vizio denunciato, non è giustificata da finalità sanzionatorie nei confronti della parte che costringa il giudice a tale ulteriore attività d’esame degli atti processuali, oltre quella devolutagli dalla legge; la stessa risulta, invece, piuttosto ispirata al principio secondo cui la responsabilità della redazione dell’atto introduttivo del giudizio fa carico esclusivamente al ricorrente ed il difetto di ottemperanza alla stessa non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nella individuazione degli atti – o parti di essi- che siano rilevanti in relazione alla formulazione della censura” (Cass. sez. lav., 23.3.2005 n. 6225).

E pertanto neanche sul punto il proposto gravame può trovare accoglimento.

Col terzo motivo di gravame la ricorrente lamenta omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere la Corte d’appello del tutto omesso di motivare in merito all’eccezione di aliunde perceptum sollevata dalla società.

Il motivo è infondato.

Ed invero, in base al principio devolutivo del gravame, è preclusa la proposizione di domande nuove nel giudizio di impugnazione; tale preclusione è una applicazione del principio del doppio grado di giurisdizione e tende ad evitare l’ampliamento della domanda portata all’esame del giudice di primo grado.

Pertanto nel caso di specie parte ricorrente, nel far riferimento alla assenza di motivazione da parte del giudice di appello in ordine alla estensione dell’obbligo risarcitorio a carico della società datoriale, avrebbe dovuto riportare (ovvero allegare al ricorso) il contenuto dell’appello proposto, onde consentire a questa Corte di valutare l’effettività della denunciata omissione riscontrando preliminarmente l’effettiva proposizione della domanda in parola nell’atto di appello e l’effettivo contenuto della stessa, atteso che pregiudiziale ad ogni statuizione in ordine alla lamentata omessa o insufficiente motivazione da parte del giudice di appello su una specifica determinata questione, si appalesa l’accertamento della effettiva sottoposizione di tale questione al vaglio del suddetto giudice e dello specifico contenuto della questione in ipotesi sollevata; tale omissione ha comportato una palese violazione del canone di autosufficienza del ricorso, che pertanto neanche sotto questo profilo può trovare accoglimento.

Il gravame proposto va pertanto rigettato.

Nessuna statuizione va adottata per quel che riguarda le spese relative al presente giudizio di Cassazione, non avendo l’intimata svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 13 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2010

 

 

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