Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13648 del 30/05/2017


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Cassazione civile, sez. II, 30/05/2017, (ud. 07/04/2017, dep.30/05/2017),  n. 13648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. CAVALLARI Dario – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5217/2014 proposto da:

A.L., AR.LE., A.A.,

A.G.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FRANCO

MICHELINI TOCCI 50, presso lo studio dell’avvocato MARCO VISCONTI,

che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

D.D.C., A.D., BANCA MONTE PASCHI SIENA SPA,

RISCOSSIONE SICILIA SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 435/2013 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 22/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/04/2017 dal Dott. DARIO CAVALLARI;

Letti gli atti del procedimento di cui in epigrafe.

Fatto

MOTIVI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione notificato il 5 agosto 2002, Clara Di Dio conveniva in giudizio A.R., D.a, L., G.G., A. e Le. davanti al Tribunale di Catania, chiedendo che fosse:

a) dichiarata aperta la successione legittima di A.G.;

b) accertato il diritto dell’attrice di succedere nella misura di due terzi dell’eredità;

c) assegnato alla stessa attrice il diritto di abitazione nella casa familiare e di uso dei mobili ivi contenuti;

d) ordinato ai convenuti di presentare il conto relativo all’amministrazione delle azioni Seasoft spa, con condanna a pagare il dovuto;

e) disposto lo scioglimento della comunione.

Si costituivano i convenuti, i quali chiedevano il rigetto della domanda attrice.

Nell’ambito di un procedimento cautelare introdotto in corso di causa l’attrice, con note autorizzate datate 31 gennaio 2003, integrava le domande di cui in citazione, chiedendo la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive del suo diritto di legittima.

Le istanze cautelari erano rigettate e l’autorità adita precisava che la domanda di riduzione era prima facie inammissibile.

Successivamente, con ulteriore atto di citazione del 22 luglio 2004, D.D.C. instaurava nei confronti degli stessi convenuti altro giudizio davanti al Tribunale di Catania, con il quale chiedeva che fosse disposta la riduzione delle disposizioni del testamento olografo di A.G., con attribuzione ad essa attrice della metà del patrimonio del defunto.

Si costituivano i convenuti, i quali chiedevano la riunione dei due procedimenti, il rigetto della domanda attrice e, in subordine, che la quota di D.D.C. fosse ridotta, in considerazione delle somme ricevute durante la vita e successivamente al decesso del defunto.

Riuniti i due giudizi, era disposta la chiamata in causa della Banca Monte dei Paschi di Siena e della Montepaschi Serit di (OMISSIS), nella qualità di creditori ipotecari con riferimento agli immobili oggetto dell’eredità.

Con sentenza non definitiva n. 5065/08, il Tribunale di Catania rigettava le domande proposte da D.D.C. con l’atto di citazione del 5 agosto 2002 ed accoglieva la domanda di riduzione del testamento di A.G. e di scioglimento della comunione ereditaria, attribuendo all’attrice 58.162 azioni della Seasoft spa, con condanna dei convenuti a corrispondere a D.D.C. Euro 5.000,00 ciascuno e dell’attrice a pagare ai convenuti Euro 5.447,19.

Con atto notificato il 14 aprile 2009, A.L., G.G., A. e Le. proponevano appello, chiedendo la riforma della sentenza impugnata.

La Corte di Appello di Catania, nella resistenza della sola D.D.C., con sentenza n. 435/13, accoglieva l’ultimo motivo di appello e condannava D.D.C. a corrispondere agli appellanti l’ulteriore importo di Euro 24.513,17.

A.L., G.G., A. e Le. hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo, domandando la cassazione della sentenza impugnata.

Nessuno degli intimati ha svolto difese.

1. Con un unico motivo i ricorrenti lamentano l’inammissibilità dell’azione di riduzione proposta da D.D.C. e la violazione degli artt. 40, 183, 184 e 273 c.p.c., poichè l’originaria attrice in primo grado aveva proposto, nel secondo giudizio summenzionato, una domanda di riduzione identica a quella avanzata con il precedente atto di citazione.

Ad avviso di A.L., G.G., A. e Le., pertanto, la richiesta di riduzione presentata successivamente avrebbe dovuto essere valutata alla luce delle preclusioni maturate nel primo giudizio e dichiarata inammissibile, tenuto anche conto che D.D.C. sarebbe stata da tempo a conoscenza dell’esistenza del testamento del de cuius.

La doglianza è infondata.

I ricorrenti contestano il fatto che il Tribunale di Catania, riuniti i due procedimenti all’interno dei quali era stata avanzata la stessa domanda di riduzione ed accertato che quella proposta nel giudizio più risalente era inammissibile perchè tardiva, non abbia valutato la domanda di riduzione presentata successivamente “avendo riguardo alle preclusioni, eccezioni, decadenze, ecc. proprie del primo giudizio”.

Tale impostazione non può essere accolta.

Infatti, nel rito civile ordinario attuale deve ritenersi, alla luce del disposto degli artt. 163, 167 e 183 c.p.c., relativi al giudizio di primo grado e art. 345 c.p.c., concernente quello di appello, che, in linea generale, l’ultimo atto nel quale le parti possono proporre le loro domande sia, qualora abbiano operato tempestivamente, per l’attore quello introduttivo del giudizio e per il convenuto la comparsa di costituzione, salvo che l’attore non si avvalga, ricorrendone i presupposti, dell’ulteriore facoltà riconosciutagli dall’art. 183 c.p.c., nel caso il convenuto abbia articolato domande riconvenzionali od eccezioni.

Non è negato che, nella specie, le domande di riduzione proposte da D.D.C. nei due giudizi introdotti davanti al Tribunale di Catania fossero sostanzialmente identiche e che quella avanzata nel procedimento più risalente fosse tardiva e, quindi, inammissibile (nè, sul punto, è stata impugnato l’accertamento della Corte di Appello di Catania, che è, perciò, divenuto definitivo).

Al riguardo, deve rilevarsi che il sistema delle preclusioni, come elaborato dal legislatore italiano, è strettamente connesso alla tematica del giudicato.

Infatti, la determinazione del thema decidendum ad opera delle parti ha come conseguenza l’individuazione di quello che sarà l’oggetto dell’eventuale futuro giudicato.

Una volta formatosi tale giudicato, la possibilità di instaurare nuovi giudizi fra le stesse parti andrà valutata alla luce dello stesso, in quanto non saranno ammissibili ulteriori domande che mirino a rimetterne in discussione il contenuto.

La questione diviene più complessa ove le ulteriori domande di cui sopra siano proposte prima del consolidamento del giudicato, ma dopo l’inizio del procedimento che condurrà alla sua formazione.

Infatti, la contemporanea presenza di più procedimenti aperti con thema decidendum tutto od in parte sovrapponibile, può portare ad un contrasto fra (futuri) giudicati. Per evitare ciò, sono state disciplinate nel codice di rito la litispendenza, la continenza e la connessione.

La tematica che viene qui in rilievo presenta, però, come accennato, un ulteriore aspetto qualificante, poichè l’identità fra le domande di cui si discute è stata ritenuta dai giudici di merito (senza contestazioni nella presente sede ad opera delle parti) con riferimento a cause pendenti davanti allo stesso ufficio giudiziario.

In questo caso, la giurisprudenza ha escluso che si applichi l’istituto della litispendenza (e, di conseguenza, della continenza), la regola disciplinatrice del quale impone che il processo iniziato per secondo sia definito in rito e non trattato.

Pertanto, qualora avanti allo stesso giudice siano pendenti due cause identiche, il magistrato non deve conoscere soltanto del giudizio introdotto anteriormente.

Nell’eventualità che quest’ultimo presenti un problema in rito che ne impedisca la trattazione nel merito, tale trattazione non è preclusa anche nella controversia iniziata successivamente, poichè ciò sarebbe in contrasto con la stessa previsione della riunione obbligatoria dei procedimenti identici pendenti avanti al medesimo giudice e con quanto accade ove, dopo la definizione in rito di un giudizio, sia proposto, di nuovo, lo stesso identico giudizio, ipote non preclusa dalla pronuncia in rito sul primo giudizio.

In una situazione come quella in esame, al contrario, deve essere disposta, come è, in effetti, avvenuto nella specie, la riunione degli identici procedimenti interessati ex art. 273 c.p.c..

Tale riunione è obbligatoria, perchè finalizzata ad assicurare il rispetto del principio del ne bis in idem, diversamente da quella prevista dall’art. 274 c.p.c., per le cause connesse, la quale è facoltativa, in quanto, accanto alla necessità di evitare un conflitto fra giudicati, mira, altresì, a favorire l’economia dei giudizi.

Una volta avvenuta detta riunione, la questione della ammissibilità delle domande presentate successivamente, nei termini in cui viene qui in rilievo, va valutata tenendo conto di quanto affermato sopra in ordine alla formazione delle preclusioni e, quindi, sulla base della portata del giudicato che si formerà in futuro con riferimento al giudizio introdotto per primo.

Per l’esattezza, poichè la portata di tale giudicato futuro potrà essere dedotta solo dal thema decidendum del procedimento più risalente, sarà a questo che occorrerà guardare per valutare l’ammissibilità delle domande posteriori e l’avvenuta formazione di preclusioni.

La parziale assonanza della situazione in esame con l’istituto della litispendenza (la quale, in realtà, ricorre quando la contemporanea esistenza dei due processi riguardi uffici giudiziari differenti ed è regolata dall’art. 39 c.p.c., che impone al giudice successivamente adito di cancellare la causa dal ruolo: Cass., Sez. 3, n. 11357 del 16 maggio 2006, Rv. 590538-01) ha condotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare che, in relazione a riti processuali imperniati sulle preclusioni, la problematica de qua va risolta nel senso che la verificazione di una preclusione nel primo processo determina l’effetto di impedire che nel secondo essa possa essere superata (Cass., Sez. 3, n. 5894 del 17 marzo 2006, Rv. 587894-01).

In particolare, è stato osservato che le decadenze processuali verificatesi i un giudizio, tanto relativamente alla deducibilità di nuovi mezzi di prova, quanto in ordine alla proposizione di nuove domande od eccezioni in senso proprio, non possono essere aggirate dalla parte che vi sia incorsa attraverso l’introduzione di un secondo giudizio, identico al primo ed a questo riunito ai sensi dell’art. 273 c.p.c..

La riunione di cause identiche separatamente promosse non realizza, secondo la giurisprudenza più recente e condivisibile, una vera e propria fusione dei procedimenti, tale da determinare il loro concorso nella definizione dell’effettivo thema decidendum et probandum, ma, al contrario, lascia intatta l’autonomia delle cause, con la conseguenza che, in osservanza del principio del ne bis in idem, il giudice dovrà trattare solo quella anteriormente iniziata, decidendo sulla scorta dei fatti allegati e del materiale istruttorio in essa raccolto, salva l’eventualità che, non potendo tale causa condurre ad una pronuncia sul merito, venga meno l’impedimento alla trattazione di quella successivamente instaurata.

La necessità della riunione si spiega, secondo la giurisprudenza di legittimità, proprio in ragione di questa ultima eventualità, in cui il procedimento posteriore ha una funzione suppletiva od integrativa del precedente, posto che, in caso contrario, risulterebbe del tutto incongrua la difformità di disciplina rispetto all’istituto della litispendenza regolato dall’articolo 39 c.p.c., che, ove la stessa causa sia proposta dinanzi a giudici diversi, prevede che il procedimento iniziato per secondo sia cancellato dal ruolo e non possa, pertanto, essere trattato.

Deve darsi atto dell’esistenza, in dottrina, di un orientamento per il quale la riunione provocherebbe, al contrario, la fusione dei procedimenti in corso, con la conseguenza che, divenuto unico il processo, la trattazione congiunta permetterebbe di acquisire liberamente gli atti ed il materiale istruttorio raccolto in entrambe le cause fino al momento dell’emanazione del provvedimento di riunione.

Questa soluzione, però, qualora accolta, consentirebbe la violazione dei doveri generali di lealtà e probità cui devono attenersi le parti ed i loro difensori, in quanto favorirebbe l’abuso dello strumento processuale e determinerebbe una lesione del diritto di difesa della parte in cui favore sono maturate le preclusioni (Cass., Sez. 1, n. 567 del 15 gennaio 2015, Rv. 633952-01), introducendo nel nostro sistema processuale una generale ipotesi di remissione in termini posta nella disponibilità delle parti e svincolata da ogni presupposto di legge.

Nella stessa logica si muove quella giurisprudenza di legittimità secondo la quale “non è precluso alla parte che abbia già proposto, con un primo ricorso, determinate domande, di proporne ulteriori, nei confronti del medesimo convenuto, con un nuovo e separato ricorso il quale deve ritenersi completo con l’indicazione, a sostegno delle suddette ulteriori domande, di documenti già prodotti nel precedente giudizio di cui sia chiesta la riunione al secondo per ragioni di economia processuale” (Cass., Sez. L, n. 24339 del 1 dicembre 2010, Rv. 615738-01, che, pur riferendosi al processo di lavoro, esprime il principio per cui il divieto di proporre domande nuove nel corso del giudizio di primo grado non impedisce di agire contro la stessa parte con un separato giudizio connesso).

Pertanto, si deve escludere che la riunione obbligatoria ex articolo 273 c.p.c., comporti una fusione dei due procedimenti, tale che le attività compiute o da compiere negli stessi possano concorrere, in via paritetica, a determinare il thema decidendum et probandum ed a definire l’ambito dei mezzi di prova a disposizione del giudice, il quale, dunque, deve qualificare come tardive le deduzioni effettuate nel secondo giudizio dopo che nel primo erano maturate le relative preclusioni.

Solamente ove non fosse possibile giungere ad una definizione nel merito della causa anteriore, l’effetto della riunione consisterebbe nel permettere al giudice di trattare e decidere quella posteriore.

Occorre, perciò, accertare se la domanda di riduzione articolata da D.D.C. nel secondo giudizio fosse già stata presentata nel primo e se, qualora il procedimento anteriore fosse stato deciso in via definitiva, sarebbe stata coperta dal relativo giudicato, avendo ad oggetto fatti rientranti nel suo thema decidendum.

Nella fattispecie, la domanda di riduzione più risalente è stata considerata dal Tribunale di Catania, pur se sommariamente in sede cautelare, inammissibile perchè tardiva, nè la questione della tempestività di detta domanda è stata oggetto dei successivi gravami, con la conseguenza che, l’eventuale giudicato di merito che si fosse formato con riferimento al procedimento più risalente in assenza di riunione non avrebbe riguardato l’azione di riduzione.

Se ne ricava che la non tempestività della richiesta di riduzione avanzata nel primo giudizio non poteva avere effetto nei confronti della domanda posteriore e che, perciò, la stessa, ove proposta per tempo nel secondo processo, era ammissibile e ben poteva essere istruita e decisa.

Non può giungersi a diverse conclusioni neppure prendendo in esame la relazione fra la domanda di riduzione presentata nel secondo giudizio e quelle avanzate nell’atto di citazione della prima controversia, in particolare quella di divisione.

Infatti, la domanda di riduzione e le altre, soprattutto quella divisoria, sono oggettivamente diverse, nè con riferimento ad esse può ipotizzarsi un problema di contrasto fra giudicati, il quale può presentarsi soltanto ove esista una pregiudizialità in senso tecnico-giuridico, la quale ricorre quando una situazione sostanziale sia fatto costitutivo od elemento della fattispecie di altra situazione sostanziale, con la conseguenza che la decisione del processo principale è idonea a definire il tema dibattuto (Cass., n. 12621 del 26 maggio 2006).

2. Il ricorso va, quindi, rigettato.

3. Alcuna pronuncia deve essere emessa in ordine alle spese di lite, non avendo gli intimati svolto attività difensiva.

Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata, trattandosi di ricorso per cassazione la cui notifica si è perfezionata successivamente alla data del 30 gennaio 2013 (Cass., Sez. 6-3, sentenza n. 14515 del 10 luglio 2015, Rv. 636018-01).

PQM

 

La Corte,

– rigetta il ricorso;

– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2017

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