Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13633 del 30/05/2017


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Cassazione civile, sez. II, 30/05/2017, (ud. 10/03/2017, dep.30/05/2017),  n. 13633

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11913 – 2013 R.G. proposto da:

L.M. – c.f. (OMISSIS) – rappresentata e difesa in virtù

di procura speciale a margine del ricorso dall’avvocato Natoli

Oreste ed elettivamente domiciliata in Roma, al viale Mazzini, n. 6,

presso lo studio dell’avvocato Sergio Lio.

– ricorrente –

contro

PUBBLIMED s.p.a. – p.i.v.a. (OMISSIS) – in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Palermo,

alla via Notarbartolo, n. 44, presso lo studio dell’avvocato Alberto

Marolda che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale

in calce al controricorso.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 832 dei 15.3/4.6.2012 della corte d’appello di

Palermo, udita la relazione nella camera di consiglio del 10 marzo

2017 del consigliere Dott. Abete Luigi.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con ricorso in data 29.6.2004 al tribunale di Palermo la “Pubblimed” s.p.a. esponeva che il 7.5.2003 aveva stipulato con L.M. contratto avente ad oggetto l’acquisto di spazi pubblicitari finalizzati alla messa in onda, sull’emittente locale denominata “TRM”, di una rubrica autogestita dalla medesima L.; che il corrispettivo, pattuito in Euro 33.720,00 e da pagarsi mediante versamenti mensili anticipati, era stato regolarmente versato sino al mese di settembre 2003;

che in data 23.9.2003 la controparte le aveva comunicato “di non poter più procedere alla registrazione delle trasmissioni televisive e di volerne sospendere la messa in onda” (così ricorso, pag. 2).

Chiedeva ingiungersi a L.M. il pagamento della somma di Euro 15.560,00, a titolo di penale commisurata, giusta la previsione dell’art. 15 del contratto, al 75% degli importi relativi alla programmazione non espletata.

Con Decreto n. 2056/2004 il tribunale di Palermo pronunciava l’ingiunzione. Con atto di citazione notificato l’8.10.2004 L.M. proponeva opposizione. Instava per la revoca del decreto ingiuntivo.

Tra l’altro, deduceva ed eccepiva l’inadempimento di parte avversa, l’illegittima applicazione della penale ed, in subordine, la sua eccessività. Costituitasi, la “Pubblimed” invocava il rigetto dell’opposizione.

Con sentenza n. 2067/2008 il tribunale adito rigettava l’opposizione. Interponeva appello L.M..

Resisteva la “Pubblimed” s.p.a..

Con sentenza n. 832 dei 15.3/4.6.2012 la corte d’appello di Palermo rigettava il gravame e condannava l’appellante alle spese del grado.

Evidenziava la corte di merito che l’appellante non aveva dimostrato di aver corrisposto la mensilità relativa al mese di settembre 2003 ed alla stregua delle addotte difficoltà finanziarie aveva di fatto, a decorrere dall’1.10.2003, inteso recedere unilateralmente dall’accordo.

Evidenziava inoltre che del tutto immotivata era la richiesta di riduzione ad equità della penale ed il relativo motivo di gravame era senz’altro inammissibile siccome generico.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso L.M.; ne ha chiesto sulla scorta di tre motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

La “Pubblimed” s.p.a. ha depositato controricorso; ha chiesto rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.

La ricorrente ha depositato memoria.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio; denuncia la violazione dell’art. 1382 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Deduce che alla data dell’ 1.10.2003, giorno in cui la “Pubblimed” ebbe ad emettere la fattura recante l’importo della penale, nessun insoluto vi era stato da parte di ella ricorrente; che dallo stesso importo della fattura emessa ai fini del pagamento della penale “risultava provato che il mese di settembre era stato versato” (così ricorso, pag. 7) ed alcun inadempimento le era imputabile; che dunque in assenza della prova di un suo inadempimento non poteva essere applicata la penale.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la violazione e falsa applicazione degli artt. 1456 e 1382 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Deduce che a fronte dell’eccezione di inadempimento all’uopo sollevata “avrebbe dovuto essere la Pubblimed a dimostrare in giudizio il proprio adempimento” (così ricorso, pag. 13).

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1384 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360c.p.c., comma 1, n. 5.

Deduce che la corte distrettuale d’ufficio “avrebbe dovuto valutare se la penale era eccessiva, senza dover accertare che una qualunque deduzione fosse stata formulata sul punto” (così ricorso, pag. 15) da ella ricorrente; che aveva dedotto con l’atto di appello che controparte “aveva (…) prontamente “riempito” i propri spazi pubblicitari” (così ricorso, pag. 17) ed ai fini della dimostrazione di tale deduzione e quindi ai fini della riduzione della penale aveva invocato l’ammissione delle articolate prove orali.

Si rappresenta previamente che sia il primo sia il secondo motivo di ricorso si qualificano esclusivamente in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Occorre tener conto, da un lato, che L.M., coi motivi de quibus, censura sostanzialmente il giudizio “di fatto” cui la corte territoriale ha atteso (“l’01.10.2003 (…) non poteva essere emessa la fattura n. (OMISSIS) per l’importo pari alla penale (…) poichè alcun inadempimento era imputabile alla ricorrente”: così ricorso, pag. 10; “in assenza della prova da parte della resistente del proprio adempimento, la Corte di Appello (…)”: così ricorso, pag. 14).

Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499, secondo cui l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione).

In tal guisa si giustifica la disamina congiunta dell’uno e dell’altro motivo.

Entrambi i motivi comunque sono destituiti di fondamento.

Si rappresenta invero che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Si rappresenta in particolare che, ai fini di una corretta decisione, è sufficiente che il giudice del merito, dopo aver vagliato le risultanze processuali nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass. 10.5.2000, n. 6023).

Si rappresenta conseguentemente che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17477; Cass. 7.6.2005, n. 11789).

Nei termini teste enunciati l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte siciliana risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed esaustivo sul piano logico – formale.

Più esattamente la corte palermitana ha vagliato nel complesso – non ha dunque obliterato la disamina di punti decisivi – e dipoi ha in maniera inappuntabile selezionato il materiale probatorio cui ha inteso ancorare il suo dictum, altresì palesando in forma nitida e coerente il percorso decisorio seguito (“la L. non ha in alcun modo dimostrato di aver integralmente corrisposto la mensilità (…) di settembre 2003 e non ha giustificato le ragioni per cui con telegramma del 23 settembre 2003 ha comunicato la volontà di sospendere gli effetti del contratto dall’1 ottobre 2003”: così sentenza d’appello, pagg. 2 – 3; “le prove orali sulle quali insiste l’appellante sono inconducenti ai fini della decisione in quanto le circostanze articolate (…) anche se provate non potrebbero incidere sull’accertata risoluzione del contratto per inadempimento della L.”: così sentenza d’appello, pag. 3).

In ogni caso ed a rigore con i motivi addotti la ricorrente null’altro prospetta se non un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti (la corte d’appello ha ignorato che “l’ammontare della penale liquidata dalla resistente, risultante dalla fattura n. (OMISSIS) (…) recava in nuce la prova (…) dell’avvenuto adempimento relativo al mese di settembre”: così ricorso, pagg. 9 – 10).

I motivi quindi involgono gli aspetti del giudizio – interni al discrezionale ambito di valutazione degli elementi di prova e di apprezzamento dei fatti – afferenti al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di siffatto convincimento rilevanti nel segno dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

I motivi del ricorso dunque si risolvono in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).

Un ulteriore rilievo infine, con precipuo riferimento al secondo motivo, si impone.

La corte di merito ha altresì puntualizzato che, “in risposta, con raccomandata dell’1 ottobre 2003 la Pubblimed si mostrò, invece, disponibile all’adempimento, replicando che, in caso contrario, avrebbe richiesto la penale pattuita” (così sentenza d’appello, pag. 3).

La corte distrettuale ha quindi debitamente riscontrato la disponibilità della “Pubblimed” all’adempimento dell’obbligazione sinallagmatica su di essa gravante, sicchè del tutto ingiustificato è l’assunto della ricorrente secondo cui “in assenza della prova da parte della resistente del proprio adempimento, la Corte d’Appello non poteva nè confermare la risoluzione del contratto, nè tanto meno la condanna al pagamento della penale” (così ricorso, pag. 14).

Destituito di fondamento è pur il terzo motivo di ricorso.

E’ indubitabile che, in tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela (cfr. Cass. sez. un. 13.9.2005, n. 18128).

E parimenti è innegabile che, in tema di clausola penale, la relativa domanda di riduzione può essere proposta per la prima volta in appello (cfr. Cass. 14.10.2011, n. 21297).

In questi termini non appare ineccepibile il dictum di seconde cure nella parte in cui si è opinato per la genericità del “relativo motivo di doglianza”.

Tuttavia, questa Corte spiega che il potere pur officioso del giudice di riduzione ad equità della penale è subordinato all’assolvimento degli oneri di allegazione e prova, incombenti sulla parte, circa le circostanze rilevanti per la valutazione dell’eccessività della penale, che deve risultare “ex actis”, ossia dal materiale probatorio legittimamente acquisito al processo, senza che il giudice possa ricercarlo d’ufficio (cfr. Cass. 28.3.2008, n. 8071; Cass. 14.10.2011, n. 21297).

In tal guisa inappuntabile è il rilievo della corte territoriale circa il carattere immotivato della richiesta di riduzione ad equità della penale.

E difatti la ricorrente si è limitata, unicamente nelle conclusioni dell’atto di appello, alla seguente richiesta: “in subordine, ridimensionare le avverse pretese, riconducendo ad equità la penale in questione, ai sensi dell’art. 1384 c.c.” (così atto d’appello, pag. 8).

In pari tempo non vale addurre che aveva ripetutatamente allegato che la “Pubblimed” s.p.a. “aveva (per così dire) prontamente “riempito” i propri spazi pubblicitari” (così ricorso, pag. 17) e che all’uopo aveva sollecitato l’ammissione di prova testimoniale e dell’interrogatorio formale del legale rappresentante della medesima s.p.a..

Infatti, la circostanza surriferita nel corpo dell’atto di appello si correla specificamente “all’accertamento dell’illegittima condotta della Pubblimed” (così atto d’appello, pag. 6), accertamento, a sua volta, espressamente prefigurato come “strumentale rispetto alla domanda avanzata in via riconvenzionale” (così atto d’appello, pag. 6), ossia rispetto alla domanda di cui all’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo finalizzata a conseguire la condanna di “Pubblimed” “al pagamento in favore della odierna opponente della complessiva somma di Euro 7.500,00 a titolo di risarcimento per i danni dalla stessa subiti in conseguenza dell’illegittima risoluzione del contratto pubblicitario del 7.5.2003, e comunque per la condotta, contraria al principio di buona fede, perpetrata dalla medesima società nell’esecuzione del contratto” (così opposizione a decreto ingiuntivo, pag. 4).

Si badi che nell’atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo la richiesta di riduzione della penale era stata formulata separatamente ed in via subordinata (cfr. opposizione a decreto ingiuntivo, pag. 4).

In dipendenza del rigetto del ricorso L.M. va condannata a rimborsare alla “Pubblimed” s.p.a. le spese del presente giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

Si dà atto che il ricorso è stato notificato in data 2.5.2013. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, a decorrere dall’1.1.2013), si dà atto altresì della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del D.P.R. cit., art. 13, comma 1 bis.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente, L.M., a rimborsare alla controricorrente, “Pubblimed” s.p.a., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, L.M., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi del D.P.R. cit., art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2 sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 10 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2017

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