Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13629 del 02/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 02/07/2020, (ud. 12/02/2020, dep. 02/07/2020), n.13629

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1674-2015 proposto da:

G.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.

MANTEGAZZA 24, presso MARCO GARDIN, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANTONIO P. NICHIL;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA DI LECCE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FRANCESCO BORGATTI

25, presso lo studio dell’avvocato ANTONGIULIO AGOSTINELLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRO FAVALE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4148/2013 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 08/01/2014 R.G.N. 2852/2012.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza n. 4148/2013, depositata l’8 gennaio 2014, la Corte di appello di Lecce, in riforma della decisione di primo grado, rigettava la domanda proposta nei confronti dell’Azienda Sanitaria Locale di Lecce da G.E., psicologa con abilitazione all’esercizio di attività di psicoterapeuta, in servizio dall’1/4/1991 presso il Centro di Igiene Mentale della ex USL (OMISSIS) di Campi Salentina con la qualifica di psicologo collaboratore, per ottenere la declaratoria del proprio diritto a mantenere lo status giuridico di equiparazione ai medici psichiatri ex L. n. 207 del 1985, art. 14, comma 3 e pertanto a mantenere il quantum a tale titolo percepito in relazione all’ordinanza cautelare n. 849 dell’1/7/1993 del TAR Puglia Lecce, con la quale detta equiparazione era stata disposta, quantomeno per tutta la durata in cui detta ordinanza aveva operato (e cioè dall’1/4/1991 al 19/10/2004, data di perenzione del giudizio intrapreso dalla G. innanzi al TAR, L. n. 205 del 2000, ex art. 9), con declaratoria di illegittimità del provvedimento del Direttore Generale n. 2239 del 7 novembre 2008 con cui era stato disposto il recupero delle relative somme;

contrariamente a quanto opinato dal Tribunale, riteneva la Corte territoriale che il decreto di perenzione del TAR avesse travolto l’ordinanza cautelare;

riteneva, inoltre, infondata l’eccezione di prescrizione del diritto di ripetizione sollevata dalla G. atteso che il diritto dell’ASL poteva essere fatto valere solo dal momento della dichiarata perenzione;

2. avverso tale sentenza ha proposto ricorso G.E. con due motivi;

3. l’ASL ha resistito con controricorso:

4. non sono state depositate memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità o erroneità della sentenza con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione di norma di diritto (nella specie dell’art. 434 c.p.c. nuova formulazione);

sostiene che la Corte territoriale erroneamente non avrebbe preso in considerazione ed accolto l’eccezione di inammissibilità dell’appello che la G. aveva formulato sul presupposto che l’atto di gravame proposto dall’ASL non rispecchiasse affatto il dettato di cui all’art. 434 c.p.c., non confutando in maniera analitica le minuziose e peculiari considerazioni offerte dal giudice di primo grado nè indicando le parti della decisione da riformare;

2. il motivo è inammissibile;

2.1. non può innanzitutto riconoscersi la ricorrenza del vizio di omessa pronuncia sull’eccezione di inammissibilità dell’appello, valendo il consolidato principio per cui esso non sussiste allorquando “la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte” (Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191), il che palesemente è da ritenersi avvenuto nel caso di specie, visto che vi è stata pronuncia nel merito sui motivi di appello, evidentemente ritenuti idonei a sorreggere il riesame in sede di gravame;

senza dire che, come da questa Corte più volte affermato il vizio di omessa pronuncia non è configurabile su questioni processuali (cfr. Cass. 15 aprile 2019, n. 10422; Cass. 11 ottobre 2018, n. 25154; Cass. 25 gennaio 2018, n. 1876);

2.2. per il resto il motivo è inammissibile in quanto è formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;

la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è giudice del “fatto processuale”, l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (v. Cass., Sez. Un., 22 maggio 2012, n. 8077; Cass. 10 aprile 2014, n. 8450; Cass. 4 luglio 2014, n. 15367; Cass. 28 novembre 2014, n. 25308; Cass. 5 agosto 2019, n. 20904);

la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perchè la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (v. Cass. n. 15367/2014 cit.; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21226);

dal principio di diritto discende che, qualora, come nella fattispecie, la ricorrente assuma che l’appello doveva essere dichiarato inammissibile per difetto della necessaria specificità dei motivi di impugnazione, la censura potrà essere scrutinata a condizione che vengano riportati nel ricorso, nelle parti essenziali, la motivazione della sentenza di primo grado e l’atto di appello (v. Cass. 20 luglio 2012, n. 12664; Cass. 10 gennaio 2012, n. 86);

non è, invece, sufficiente che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, indicando la sede nella quale l’atto processuale è reperibile, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5 richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28 settembre 2016, n. 19048);

nella specie la G., oltre non fornire indicazioni sull’allocazione nei fascicoli di parte o d’ufficio degli atti rilevanti, ha omesso sia di individuare e riportare le statuizioni della sentenza di prime cure, rispetto alle quali i motivi proposti risulterebbero privi di specificità, sia di trascrivere nelle parti rilevanti il contenuto dell’atto di appello, così impedendo alla Corte, in difetto della compiuta descrizione del fatto processuale, di procedere alla preliminare verifica sulla rilevanza e decisività del vizio denunciato;

3. con il secondo motivo la ricorrente denuncia la nullità o erroneità della sentenza, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per falsa applicazione di norme di diritto, in particolare della L. n. 205 del 2000, art. 3, del D.P.R. n. 1034 del 1971, art. 21, della L. n. 207 del 1985, art. 14 nonchè, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

sostiene che gli effetti medio tempore prodotti dall’ordinanza cautelare del TAR (che nello specifico avevano comportato l’assunzione da parte della G. di un ruolo ed uno status normativo differenti rispetto alla figura professionale dello psicologo collaboratore) permangono nonostante la perenzione del giudizio la cui efficacia non può che essere “ex nunc” e non già “ex tunc” come ritenuto dalla Corte territoriale;

assume che i suddetti effetti sono irreversibili e perdurano nel tempo e non possono essere caducati da un provvedimento di perenzione del giudizio amministrativo;

contesta l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui l’ordinanza cautelare non avrebbe comportato l’espletamento di mansioni diverse e superiori rispetto a quelle di fatto espletate ma solo un diverso inquadramento ed evidenzia che l’attribuzione del nuovo status avrebbe comportato un ruolo totalmente diverso rispetto a quello del semplice psicologo, con diversità di funzioni, di orario di servizio, di incarichi istituzionali;

4. anche tale motivo è da disattendere;

4.1. si rilevano profili di inammissibilità nella parte in cui il motivo ruota intorno al contenuto dell’ordinanza cautelare del TAR (attribuendo alla stessa effetti irreversibili nonostante il provvedimento di perenzione del giudizio amministrativo) senza che la stessa sia trascritta quantomeno nelle parti essenziali a reggere le censure;

egualmente non è trascritto il contenuto del ricorso proposto innanzi al TAR e dello stesso, così come dell’ordinanza cautelare, la ricorrente si limita ad offrire una mera sintesi narrativa (v. pag. 2 del ricorso per cassazione);

si ricorda che il ricorso per cassazione deve essere redatto nel rispetto dei requisiti imposti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c. che al comma 1, n. 6, richiede “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”;

è, quindi, necessario che il ricorrente, oltre a riportare nel ricorso il contenuto del documento, quanto meno nelle parti essenziali, precisi in quale fase processuale è avvenuta la produzione ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione;

ciò anche al fine del rispetto del principio di responsabilità della redazione dell’atto giuridico, che fa carico esclusivamente al ricorrente, il cui difetto di ottemperanza non può e non deve essere supplito dal giudice per evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo da parte dello stesso nella individuazione di quali parti degli atti siano rilevanti in relazione alla articolazione della censura (Cass. n. 86/2012 cit.; Cass. n. 8450/2014 cit.; Cass. 9 dicembre 2019, n. 32072);

nella specie, le carenze sopra evidenziate non consentono di apprezzare la dedotta irreversibilità degli effetti prodotti dall’ordinanza cautelare (che si evince adottata in data 19/10/2004 e, dunque, prima del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 di attuazione della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 44 recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) in termini di corrispondente nuovo assetto fattuale dell’attribuito status giuridico previsto per i medici psichiatri;

di contro, si rileva dalla sentenza impugnata che: “…la ricorrente non ha di certo svolto le funzioni psicoterapeutiche sin dalla data di assunzione, ovvero dall’1/4/1991, in esecuzione dell’ordinanza cautelare (che è avvenuta nel 1993); ella ha dedotto di aver svolto e di continuare a svolgere di fatto dette funzioni… e che da tale svolgimento derivasse il proprio diritto all’equiparazione giuridica ed economica ai medici psichiatri; l’ordinanza cautelare non ha comportato l’espletamento di mansioni diverse e superiori a quelle di fatto espletate ma ha ritenuto, in via cautelare ed urgente, che queste ultime mansioni fossero sussumibili, sotto il profilo economico e giuridico, in superiore livello inquadramentale; pertanto l’ordinanza cautelare del TAR non ha affatto prodotto effetti irreversibili (come sarebbe potuto essere nella ipotesi in cui fosse stato azionato il diritto allo svolgimento di mansioni superiori non espletate di fatto domanda di progressione in carriera – domanda dii declaratoria di illegittimità di un demansionamento) ma si è limitata a riconoscere un superiore inquadramento giuridico (effetto questo neutralizzabile con il reinquadramento della lavoratrice nella qualifica di psicologo collaboratore con effetto ex nunc ovvero dall’1/4/1991) e le conseguenti differenze retributive, somme queste ultime che possono legittimamente essere ripetute con le modalità di cui alla Delib. ASL n. 2239 del 2008 in atti…”;

la suddetta ricostruzione non è stata in alcun modo idoneamente smentita dalla ricorrente che, senza alcun supporto documentale, si è limitata a sostenere che il disposto inquadramento avrebbe comportato modifiche in termini di funzioni e responsabilità;

4.2. quanto alla affermata sopravvivenza, in termini generali, degli effetti dell’ordinanza cautelare del giudice amministrativo nonostante la perenzione del giudizio, le doglianze sono infondate;

questa Corte ha già affermato che il provvedimento cautelare emesso dal giudice amministrativo per assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso non assume (al pari di quello emesso dal giudice ordinario – salvo i casi espressamente previsti -) carattere decisorio e non incide in via definitiva sulle posizioni soggettive dedotte in giudizio, essendo destinato a perdere efficacia per effetto della sentenza definitiva di merito;

pur coinvolgendo posizioni di diritto soggettivo, esso, dunque, non statuisce su di esse con la forza dell’atto giurisdizionale idoneo ad assumere autorità di giudicato, neppure sul punto della giurisdizione (v. Cass., Sez. Un., 23 settembre 2013, n. 21677; Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2011, n. 1767, nonchè numerose altre, tra cui Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2006, n. 2053 e Cass., Sez. Un., 8 aprile 2008, n. 9151, che hanno ritenuto non precluso il regolamento preventivo di giurisdizione dopo l’emanazione del provvedimento cautelare, dato che quest’ultimo non costituisce pronunzia di merito ai sensi dell’art. 41 c.p.c.);

anche il giudice amministrativo si è pronunciato nel medesimo senso chiarendo che le ordinanze cautelari, in quanto prive di contenuto definitivamente decisorio, sono insuscettibili di passare in giudicato, analogamente ai provvedimenti istruttori, interlocutori o di rinvio al ruolo ordinario (v. Cons. St., sez. III, 29 agosto 2018, n. 5084; Cons. St., sez. V, 10 giugno 2015, n. 2847);

ed infatti, se a fronte di ogni atto (negativo, positivo, discrezionale, vincolato, etc.), il giudice può sempre stabilire un assetto provvisorio degli interessi, destinato a durare fino alla decisione della causa, che gli sembri il più idoneo ad assicurare interinalmente la fruttuosità della relativa decisione di merito (ciò anche mediante ordinanze propulsive, contenenti ordini di fare rivolti all’amministrazione, consistenti in ordini di provvedere in caso di silenzio-inadempimento ovvero in ordini di rivedere provvedimenti negativi), tuttavia il provvedimento cautelare è sempre emanato “con riserva” di accertamento della fondatezza nel merito, onde evitare che la pendenza del giudizio vada a danno dell’attore risultato vittorioso all’esito del giudizio, ed è dunque interinalmente subordinato alla verifica definitiva della fondatezza delle tesi del ricorrente;

da ciò discende che anche i provvedimenti cautelari che hanno un contenuto positivo devono limitarsi a introdurre una disciplina che anticipi in via meramente interinale la produzione degli effetti del provvedimento negato o non adottato dall’amministrazione, essendo la misura cautelare destinata comunque ad estinguersi laddove non sia seguita da una decisione di merito, non potendo aspirare ad acquisire stabilità neppure ove la volontà delle parti sia concorde in tal senso;

gli effetti di carattere sostanziale conseguono, dunque, solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole, che è la sola idonea ad assicurare al provvedimento adottato in via cautelare effetti permanenti (v. Cons. St., sez. III, 8 giugno 2016, n. 2448; Cons. St., sez. V, 20 marzo 2008, n. 1222);

sotto il profilo sistematico, la inconfigurabilità di un “giudicato cautelare” è direttamente dimostrata anche dalla L. n. 241 del 1990, art. 21 septies, il quale sanziona con la nullità solo ed esclusivamente l’atto che viola, o elude il giudicato sulla sentenza e non anche l’atto che risulti in contrasto con una decisione cautelare priva dell’efficacia di cosa giudicata (v. Cons. St., sez. III, 28 giugno 2019, n. 4461;

del resto, tale principio è stato indirettamente confermato dall’art. 92, comma 5, seconda parte, c.p.a. che, sia pure al differente fine della definizione della competenza del TAR adito, ha espressamente, escluso la natura di decisione implicita delle ordinanze istruttorie o interlocutorie di cui all’art. 36, comma 1, c.p.a. e di quelle che disattendono l’istanza cautelare (v. Cons. St., sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1554);

pertanto, se il provvedimento cautelare è, per sua natura, un provvedimento interinale che subisce le sorti del giudizio nel cui ambito è emanato, è evidente che la sua efficacia viene meno: – a seguito di una pronuncia di rigetto del ricorso; – nel caso di successiva ordinanza di revoca del provvedimento cautelare “res melius perpensa”; – per la sopravvenienza di situazioni incompatibili con il mantenimento degli effetti del provvedimento cautelare; – in conseguenza di qualunque vicenda processuale che abbia effetti estintivi sul processo cautelare o, come verificatosi nella specie, sull’intero giudizio, vista la stretta strumentalità, non solo funzionale, ma anche strutturale che nell’ambito del processo amministrativo emerge tra la tutela cautelare e la decisione di merito, garantendo la prima provvisoriamente gli effetti della seconda pur senza escludere, ovviamente, la possibilità di un giudizio dall’esito diametralmente opposto a quello che la misura cautelare assicura in via interinale;

si consideri, del resto, che, con orientamento pacifico a far data da Cons. St., a.p., 28 settembre 1984 n. 19, è stato ritenuto che l’esistenza di una fase cautelare non impedisce il decorso del termine per la perenzione tanto nel caso in cui essa si sia conclusa con un provvedimento favorevole o sfavorevole per l’interessato, quanto nel caso in cui il giudice non si sia pronunciato, (si vedano anche Cons. St., sez. IV, 7 maggio 2004, n. 2845 e Cons. St., sez. VI, 5 febbraio 2010, n. 45), il che vale a sottolineare ulteriormente la non incidenza del provvedimento cautelare sul giudizio di cognizione;

da tanto consegue che l’estinzione del giudizio per perenzione comporta la caducazione automatica di tutti gli effetti riconducibili alla misura cautelare eventualmente accordata (si veda, a conferma, l’espressa previsione di cui all’art. 669-novies c.p.c., comma 1, inserito dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 74, comma 2, entrata in vigore il 1 gennaio 1993, da considerarsi applicabile al rito amministrativo ed all’istituto della perenzione, che è una causa di estinzione del giudizio dovuta all’inattività delle parti, anche prima dei D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, essendo detta norma espressione di un principio generale e tale da poter essere considerata norma di diritto processuale generale, compatibile con il processo amministrativo – cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. V, 15 marzo 2010, n. 1498; Cons. St., sez. VI, 11 febbraio 1977, n. 93-, non essendo stato, peraltro, diversamente previsto dall’art. 3 della L. 21 luglio 2000, n. 205 che aveva specificamente dettato disposizioni generali sul processo cautelare amministrativo; l’indicato principio trova, del resto, ora fondamento nel c.d. rinvio esterno ex art. 39 cod. proc. amm.);

5. conclusivamente il ricorso deve essere rigettato;

6. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

7. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, ricorrono le condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo prescritto a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020

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