Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13628 del 02/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 02/07/2020, (ud. 16/01/2020, dep. 02/07/2020), n.13628

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12569-2016 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, Dipartimento

dell’Amministrazione Generale del personale e dei servizi, in

persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia

ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– ricorrente –

contro

B.R.L., elettivamente domiciliata in ROMA, Via GERMANICO

172, presso lo studio dell’avvocato SERGIO GALLEANO, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 940/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/11/2015 R.G.N. 2253/2012.

Fatto

RITENUTO

1. Che il Ministero dell’economia e delle finanze ricorre, prospettando due motivi in impugnazione, nei confronti di B.R.L., per la cassazione della sentenza emessa tra le parti dalla Corte d’Appello di Milano, con la quale è stata rigettata l’impugnazione proposta dal medesimo Ministero avverso la sentenza n. 223/12 del Tribunale di Como.

2. Il Tribunale aveva riconosciuto il diritto della lavoratrice all’inquadramento in area B, posizione economica B2, a far data dal 6 aprile 2001, condannando per l’effetto il Ministero ad effettuare il suddetto inquadramento con la indicata decorrenza, nonchè al pagamento delle relative differenze retributive, con interessi legali dal dovuto al saldo.

3. La Corte d’Appello ha premesso che la lavoratrice era precedentemente occupata presso l’Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni. inquadrata nella IV categoria funzionale confluita nel 1994 nell’area operativa; era stata poi trasferita nei ruoli del Ministero con D.P.C.M. 14 dicembre 2000, ai sensi del D.L. n. 163 del 1995, art. 4 convertito nella L. n. 273 del 1995.

Quindi, il giudice di secondo grado ha affermato che il Tribunale, correttamente, aveva confrontato le declaratorie contrattuali, riconducibili all’inquadramento della lavoratrice nell’ambito dell’ente di provenienza, con l’inquadramento invece attribuito dopo il passaggio al Ministero dell’economia e delle finanze.

La lavoratrice. nell’ambito di poste e telecomunicazioni, era inquadrata nella IV categoria che raggruppava il personale addetto ad attività amministrativo-contabili, tecniche o tecnico-manuali che presupponevano specifica preparazione professionale nel ramo. con capacità di utilizzazione di mezzi o strumenti complessi o di dati nell’ambito di procedure predeterminate.

Le prestazioni erano caratterizzate da margini valutativi nella esecuzione.

La declaratoria, non casualmente, sintetizzava le attività con il seguente titolo: “attività amministrativo tecniche con conoscenze specialistiche e di responsabilità personali”.

Dunque, afferma la Corte d’Appello, se anche si fosse considerata la sola IV categoria (e non l’intera area operativa come deduceva il Ministero), l’inquadramento in B1 risultava non equivalente. Ed infatti, la declaratoria relativa alla posizione economica B1 nell’ambito dell’area funzionale B del Comparto Ministeri, non consentiva di ravvisare alcun margine di valutazione nell’esecuzione del lavoro, e tanto meno responsabilità personali. Invece, la declaratoria propria della funzione economica B2 evidenziava autonomia e responsabilità nell’ambito delle prescrizioni di massima, secondo metodologie definite.

Tale raffronto veniva avvalorato della declaratoria del CCNL 1994, relativa all’area operativa nella quale era confluita la quarta categoria. Tale declaratoria prevedeva lo svolgimento di “attività esecutive e tecniche, con conoscenze specifiche, responsabilità personali e di gruppo, con contenuti professionali di parziale o media specializzazione”.

Nè l’equivalenza che era stata contestata dalla lavoratrice poteva essere vincolante in ragione del D.P.C.M. 4 dicembre 2000.

4. Al ricorso del Ministero resiste con controricorso B.R.L., che in prossimità dell’adunanza camerale ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

I. Che con il primo motivo di ricorso il Ministero prospetta la violazione e falsa applicazione di norme di legge, in particolare: del D.L. n. 487 del 1993, art. 6 conv. nella L. n. 71 del 1994; del D.M. 10 luglio 1997; della L. n. 273 del 1995, che convertiva il D.L. n. 163 del 1995 (art. 4, comma 2); della L. n. 449 del 1997, art. 53, comma 10; nonchè del D.P.C.M. 4 dicembre 2000. Art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume il ricorrente che occorreva fare riferimento al D.M. 10 luglio 1997, con il quale il Ministero delle poste e delle telecomunicazioni, di concerto con il Ministero della funzione pubblica, aveva svolto una precisa equiparazione delle qualifiche funzionali dell’ex Amministrazione poste e telecomunicazioni alle qualifiche funzionali del personale statale.

Inoltre, le mansioni di fatto svolte dal pubblico dipendente erano del tutto irrilevanti in ordine all’inquadramento giuridico del lavoratore, dovendosi avere riguardo solo alle mansioni del proprio livello di inquadramento giuridico.

Nè nella specie la lavoratrice aveva agito per il riconoscimento delle mansioni superiori. Il ricorrente richiama giurisprudenza di merito e di legittimità.

1.1. Il motivo non è fondato.

Rileva il Collegio che il D.M. 10 luglio 1997 non trova applicazione nella specie.

Deve affermarsi, infatti, (cfr Cass. n. 10933 del 2011) che, in tema di mobilità del personale, con riferimento al trasferimento del lavoratore dipendente dell’Ente Poste Italiane ad una Amministrazione pubblica (nella specie Ministero del tesoro, ora Ministero dell’economia e delle finanze), presso la quale si trovava già in posizione di comando (come nella specie, si v. controricorso pag. 2, punto 4), compete all’ente di destinazione l’esatto inquadramento e la concreta disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti trasferiti, dovendosi ritenere non estensibile la tabella di equiparazione allegata al D.M. 10 luglio 1997, relativa ai dipendenti trasferiti presso il Ministero delle Poste. la cui applicazione comporterebbe l’espropriazione, in danno dell’ente, dello specifico potere di gestione del rapporto nella fase dell’inquadramento professionale, in deroga al principio generale che tale potere attribuisce al datare di lavoro pubblico nell’ambito delle specifiche previsioni di legge e dei contratti collettivi.

1.2. Nella specie, peraltro, la Corte d’Appello ha proceduto al raffronto tra le declaratori contrattuali, e dunque non ha dato rilievo alle mansioni svolte di fatto.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, in tema di pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c. (Cass., n. 18817 del 2018).

Nè il Ministero ricorrente illustra la specifica rilevanza della giurisprudenza richiamata, illustrandone le statuizioni rilevanti, rispetto alla prospettata censura di violazione delle suddette disposizioni.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Prospetta il ricorrente che la Corte d’Appello, pur richiamando genericamente le difese pubbliche di cui al ricorso in appello, non aveva esaminato in modo adeguato le censure, in particolare per quanto riguardava quelle afferenti alle mansioni effettivamente svolte, che nulla hanno a che vedere con l’inquadramento giuridico del dipendente.

Pertanto, la sentenza si palesava lacunosa quanto alla risposta giurisdizionale alle censure svolte.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Parte ricorrente denuncia un vizio che attiene alla corretta applicazione di norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione dei giudici di merito.

Trattasi, in generale, non di errore di giudizio che attenga al rapporto sostanziale dedotto in lite, bensì di errore di attività che, essendosi verificato nel corso del processo. si assume possa averne inficiato l’esito.

Poichè in tali casi il vizio della sentenza impugnata discende direttamente dal modo in cui processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver procurato, si spiega il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto, inteso, ovviamente, come fatto processuale (tra le tante: Cass. n. 14098 del 2009; Cass. n. 11039 del 2006).

Tuttavia, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 8077 del 2012, hanno precisato che, in ogni caso, la proposizione del motivo di censura resta soggetta alle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che la parte ha l’onere di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso e le condizioni di procedibilità di esso (in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – sicchè l’esame diretto degli atti che la Corte è chiamato a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato”.

La parte ricorrente è tenuta ad indicare gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, affinchè il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti necessari a individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 6225 del 2005; Cass. n. 9734 del 2004).

Tanto non è accaduto nella specie laddove nel corpo del motivo non sono riportati i contenuti dell’atto di appello del Ministero in modo tale da individuare il dedotto vizio processuale, anche considerando che la Corte d’Appello ha proceduto all’equiparazione delle declaratorie contrattuali e non delle mansioni di fatto.

3. Il ricorso va rigettato.

4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

5. Come ritenuto dalle Sezioni Unite della Corte, con sentenza n. 9938 del 2014, stante la non debenza delle amministrazioni pubbliche del versamento del contributo unificato. non sussistono i presupposti di cui al primo periodo del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 ai fini del raddoppio del contributo per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.000.00, per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 16 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020

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