Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13618 del 30/05/2017


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Cassazione civile, sez. II, 30/05/2017, (ud. 29/09/2016, dep.30/05/2017),  n. 13618

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 10012/15) proposto da:

S.V., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale

a margine del ricorso, dall’Avv.to Valerio Freda del foro di

Avellino ed elettivamente domiciliata presso il Dott. De Vito Daniel

in Roma, via Anton Giulio Barrili n. 49;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentate e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato ed elettivamente domiciliato presso i suoi uffici in

Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 3580

depositata il 20 agosto 2014.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 29

settembre 2016 dal Consigliere relatore Dott.ssa FALASCHI Milena;

uditi gli Avv.ti Daniel De Vito, per parte ricorrente, e Tortora

Fabio, per parte resistente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto

di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 27 febbraio 2010, dinanzi al Tribunale di Ariano Irpino, S.V. proponeva opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione n. 74922, notificata il 2 febbraio 2010, con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze, gli aveva ingiunto il pagamento della somma di Euro 16.076,00 per avere effettuato con la Cassa Arianese di Mutualità, di cui era socio, transazioni finanziarie in contanti per Euro 321.136,28 senza il tramite di intermediari abilitati, in violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, comma 1, conv. in L. n. 197 del 1991.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Ariano Irpino con la sentenza n. 203 del 2 aprile 2013, disattese le preliminari eccezioni relative alle violazioni della L. n. 689 del 1981, artt. 14 e 18, accoglieva l’opposizione nel merito, ritenendo insussistenti sia l’elemento oggettivo, per essere la Cassa Arianese di Mutualità soc. coop. soggetto abilitato, sia quello soggettivo, poichè il comportamento dell’U.I.C. aveva ingenerato il convincimento della liceità del comportamento del contravventore.

In virtù di rituale appello interposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con il quale chiedeva l’integrale riforma della pronuncia impugnata, la Corte di appello di Napoli, nella resistenza dell’appellato, che proponeva anche appello incidentale reiterando l’eccezione di decadenza e delle altre violazioni di carattere formale, con la sentenza n. 3580 del 2014 accoglieva l’appello, rigettando l’opposizione proposta dallo S., con compensazione delle spese processuali di entrambi i gradi.

A sostegno della decisione adottata la corte territoriale rilevava la tempestività della notifica dell’ordinanza ingiunzione, ricevuta in data 02.02.2010, per essere avvenuta nel rispetto del termine quinquennale, notificato il processo verbale redatto dalla Guardia di Finanza il 02.02.2005; disattendeva, inoltre, l’eccezione di nullità relativa alla mancata audizione dell’intimato, stante l’avvenuta convocazione a seguito di presentazione di note difensive in data 18.02.2005 e l’irrilevanza della censura non avendo l’appellato specificato le ulteriori e diverse difese che avrebbe potuto svolgere in sede amministrativa.

Nel merito riteneva poi che vi fosse la prova delle violazioni contestate.

Premetteva che le operazioni in contanti eseguite presso la C.A.M. risultavano accertate nella loro materialità sulla base della documentazione rinvenuta presso lo stesso istituto, tardiva la doglianza circa la non riconducibilità della “prima nota cassa” ad un trasferimento di denaro, formulata solo in appello.

Quanto alla violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, e riformando sul punto la decisione del Tribunale, la sentenza impugnata osservava che la CAM non rientrava tra i soggetti abilitati ex lege ad esercitare attività di trasferimento di contante sopra la soglia legale ed in ogni caso non aveva richiesto ed ottenuto la specifica abilitazione concessa dal Ministero delle Finanze.

Dalla lettura congiunta del D.L. cit. artt. 1, 4 e 6, si ricavava che, sebbene fosse consentito agli intermediari di poter continuare, alla data di entrata in vigore della nuova disciplina normativa, l’attività di erogazione di credito al consumo nei confronti dei propri soci ovvero di locazione finanziaria, purchè ne avessero dato comunicazione all’Ufficio Italiano dei Cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, in ogni caso, non rientrando tra i soggetti abilitati ex lege al trasferimento di contanti ex art. 1, avrebbero dovuto comunque richiedere l’abilitazione al compimento di tali attività al Ministero, costituendo l’inserimento dell’istituto di credito nell’elenco tenuto dall’U.C.I. condizione necessaria per il compimento delle operazioni in denaro contante, ma non esclusiva per legittimare ad esercitare tali attività. In tal senso deponeva anche la interpretazione dell’art. 106 T.U.B., in vigore dal 1 gennaio 1994, in sostituzione dell’art. 6 cit..

Riteneva poi incontestato che la C.A.M. non rientrava nei soggetti intermediari abilitati ex lege e non aveva richiesto la speciale abilitazione, che avrebbe dovuto essere concessa dal Ministero, in quanto nell’istanza del 04.10.1991 indirizza all’U.I.C. non aveva fatto alcun riferimento alle attività di trasferimento di denaro contante (ponendo addirittura in dubbio la propria qualifica di intermediario destinatario della normativa antiriciclaggio), contenendo solo la comunicazione di cui alla L. n. 197 del 1991, art. 6.

Quanto al profilo soggettivo, stabilita dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, una presunzione di colpa, la sentenza riteneva che nella fattispecie non vi fossero elementi idonei ad ingenerare un’errata convinzione sul significato della norma e sulla liceità del comportamento, stante la finalità della normativa violata, che aveva avuto ampia diffusione anche presso i semplici cittadini, non giustificava la pretesa ignoranza della violazione contestata. Nè poteva essere trascurata la circostanza che l’appellato era socio della C.A.M. e quindi in condizione di conoscere, informandosi, delle attribuzioni della stessa ed i limiti della sua attività. Nè nella fattispecie vi erano elementi, in mancanza di comportamenti positivi univoci da parte degli organi dello Stato, idonei ad ingenerare un’errata convinzione sul significato della norma e sulla liceità del comportamento.

Infine, quanto alla misura della sanzione irrogata, riteneva che a fronte di un massimo edittale pari al 40% della somma oggetto di transazione illecita, la sanzione applicata nella percentuale del 5% appariva proporzionale ed equa, considerata la entità complessiva e singola delle operazioni illecite.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso lo S., sulla base di sette motivi, cui ha replicato il Ministero dell’Economia e delle Finanze con controricorso contenente anche ricorso incidentale affidato ad un unico motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Deduce lo S. che con uno specifico e tempestivo motivo di appello incidentale aveva dedotto che il giudice di primo grado non si era pronunciato sul motivo di opposizione concernente la prova delle violazioni, posto che la Guardia di Finanza aveva fondato il proprio accertamento esclusivamente sulle risultanze della “prima nota cassa”, documento che non costituisce scrittura contabile obbligatoria e che non contiene la prova che le somme ivi registrate siano state trasferite in contanti.

Tale doglianza, riproposta in grado di appello, è stata però disattesa dalla sentenza gravata con una motivazione che, a detta del ricorrente, deve di fatto reputarsi omessa. Infatti, si afferma in sentenza che l’opponente non avrebbe contestato in precedenza la circostanza che le operazioni oggetto di contestazione siano effettivamente avvenute, trascurando il fatto storico che nel ricorso introduttivo si era invece contestato che le operazioni potessero integrare un trasferimento di denaro in contante. Inoltre si era omesso di considerare il fatto storico per cui agli atti non risultava acquisita la documentazione de qua, giudicata la doglianza tardivamente proposta solo in appello e perciò inammissibile, oltre che infondata.

Con il secondo mezzo, in via gradata, il ricorrente – nell’insistere nella doglianza di cui alla prima censura – lamenta la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in termini di motivazione apparente, riportando l’indicazione degli atti e dei documenti su cui la doglianza si fonda.

Le due censure – da trattare congiuntamente per la evidente connessione argomentativa – sono inammissibili prima che infondate.

Lo stesso ricorrente non ignora che alla fattispecie sia applicabile, in considerazione della data di pubblicazione della sentenza gravata, il nuovo dettato dell’art. 360 c.p.c., n. 5, avendo richiamato nella rubrica del motivo, la nuova lettera della legge.

Proprio a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c.,. ed al fine di chiarire la corretta esegesi della novella, sono intervenute le Sezioni Unite della Corte che con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, hanno ribadito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 Prell., come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, ed è solo in tali ristretti limiti che può essere denunziata la violazione di legge, sotto il profilo della violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Nella fattispecie, atteso il tenore della sentenza impugnata, deve escludersi che ricorra un’ipotesi di anomalia motivazionale riconducibile ad una delle fattispecie che, come sopra esposto, in base alla novella consentono alla Corte di sindacare la motivazione.

Ed, infatti, il motivo, oltre a peccare del requisito di specificità per violazione della previsione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, nella parte in cui, pur criticando la valutazione del complessivo tenore delle difese del ricorrente nel corso del giudizio di primo grado, omette di riprodurne il contenuto, trascrivendone solo dei limitatissimi stralci, che non permettono di apprezzarne la complessiva portata, si risolve in una critica alla valutazione compiuta dal giudice di appello in ordine a tale condotta processuale, il che conferma che la censura non si appunta su di un’omessa disamina (che in realtà vi è stata), quanto sulla condivisibilità o meno della medesima, ipotesi che però esula dal novero delle censure motivazionali oggi suscettibili di essere portate all’attenzione di questa Corte.

Così come parimenti inidoneo a configurare l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio è il rilievo circa la valenza probatoria della sola “prima nota cassa”, avendo la Corte di appello evidenziato che in realtà quanto emergeva da tale registro trovava conforto anche negli altri documenti contabili. Appare quindi evidente che la sentenza gravata ha ritenuto che la valenza probatoria del verbale di contestazione trovava adeguato supporto non solo nel registro di cui si contesta l’idoneità probatoria, ma anche negli altri documenti contabili che la Guardi di Finanza aveva avuto modo di verificare.

E’ evidente che lungi dal prospettarsi un’omessa disamina di un fatto decisivo, il motivo mira piuttosto a contestare la valutazione di idoneità probatoria dei mezzi di prova che il giudice di merito ha ritenuto di porre a fondamento della propria decisione, risolvendosi quindi in una censura che, anche alla luce della vecchia formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5,, era preclusa in sede di legittimità (in tal senso si veda il constante principio per il quale i vizi di motivazione denunciabili in cassazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, cfr. Cass. 28 luglio 2008 n. 20518; Cass. 11 novembre 2005 n. 22901; Cass. 12 agosto 2004 n. 15693; Cass. 7 agosto 2003 n. 11936).

Per le medesime ragioni deve escludersi, in presenza di una adeguata esplicitazione degli argomenti posti a sostegno del rigetto del motivo di appello incidentale formulato sul punto dall’odierno ricorrente, che sussista un’ipotesi di motivazione apparente, come dedotto con la seconda censura.

Con il terzo motivo parte ricorrente denuncia la violazione del D.L. n. 143 del 1991, art. 1, comma 1, art. 4 commi 1 e 2, e art. 6 comma 1, e art. 4 bis, in relazione al disposto di cui all’art. 106 TUB.

Assume il ricorrente che la costituzione della CAM risale al 1 marzo 1989, anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 197 del 1991 di conversione del D.L. n. 143 del 1991. A tal fine evidenzia che l’art. 1 della legge ora citata vieta il trasferimento di contante o di titoli al portatore eccedente la soglia prevista, se non avvalendosi degli intermediari di cui all’art. 4, comma 1 (intermediari abilitati ex lege) e di cui allo stesso art. 4, comma 2, (intermediari abilitati previo rilascio di provvedimento da parte del Ministero, sentite la Banca d’Italia e la Consob). Ed, infatti, il primo comma dell’art. 4, prevede che: “gli intermediari abilitati, nei limiti delle proprie attività istituzionali, ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’art. 1 sono gli uffici della pubblica amministrazione, ivi compresi gli uffici postali, gli enti creditizi, gli istituti di moneta elettronica, le società di intermediazione mobiliare, le società commissionarie ammesse agli antirecinti alle grida delle borse valori, gli agenti di cambio, le società autorizzate al collocamento a domicilio di valori mobiliari, le società di gestione di fondi comuni di investimento mobiliare, le società fiduciarie, le imprese e gli enti assicurativi e la società Monte Titoli S.p.a. di cui alla L. 19 giugno 1986, n. 289, nonchè gli altri intermediari abilitati ai sensi del comma 2″, mentre il secondo comma dispone che: ” il Ministro del tesoro, di concerto con i Ministri dell’interno, di grazia e giustizia, delle finanze e dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentite la Banca d’Italia e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), determina le condizioni in presenza delle quali altri intermediari possono, su richiesta, essere abilitati dal Ministro del tesoro ad effettuare le operazioni di trasferimento di cui all’art. 1. Tali intermediari devono comunque avere per oggetto prevalente o svolgere in via prevalente una o più delle seguenti attività: concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, compresa la locazione finanziaria; assunzione di partecipazioni; intermediazione in cambi; servizi di incasso, pagamento e trasferimento di fondi anche mediante emissione e gestione di carte di credito”.

Il successivo art. 6 poi prevede al comma 1 che l’esercizio in via prevalente di una o più delle attività di cui all’art. 4, comma 2, è riservato agli intermediari iscritti in apposito elenco tenuto dal Ministro del tesoro, che si avvale dell’Ufficio italiano dei cambi, il quale dà comunicazione dell’iscrizione alla Banca d’Italia e alla CONSOB, previsione questa poi abrogata e sostituita con il disposto di cui all’art. 106 TUB. Ancora, mentre il comma 2 dell’art. 6 in esame prevede che: “Gli intermediari di cui al comma 1 che esercitano la propria attività nei confronti del pubblico o che erogano credito al consumo, anche se nell’ambito dei propri soci, devono avere la forma di società per azioni o in accomandita per azioni o a responsabilità limitata o di società cooperativa. Il capitale sociale versato non può essere inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azioni. Il Ministro del tesoro, con proprio decreto, sentita la Banca d’Italia, può indicare una misura inferiore del capitale minimo per particolari categorie di operatori. Entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, i soggetti di cui al presente comma procedono alle operazioni di trasformazione e di aumento di capitale eventualmente necessarie”, il comma 2 bis prevede che “In deroga a quanto previsto dal comma 2, gli intermediari di cui al comma 1 che esercitano l’attività di locazione finanziaria devono avere la forma di società per azioni e un capitale sociale versato non inferiore a cinque volte il capitale minimo previsto per la costituzione delle società per azionì, stabilendo quindi i requisiti formali prescritti affinchè gli intermediari possano essere iscritti nell’elenco di cui all’odierno art. 106 TUB.

Infine, con una norma chiaramente di diritto intertemporale, l’art. 6, comma 4 bis, prevede che “Gli intermediari di cui ai commi 2 e 2- bis esercenti l’attività alla data di entrata in vigore del presente decreto possono continuare ad esercitarla a condizione che ne diano comunicazione all’Ufficio italiano dei cambi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Nei confronti dei soggetti che non ottemperano alle disposizioni di cui ai commi 2, 2- bis, 3 e 4 nei termini ivi stabiliti, si applica la disposizione del comma 8” (con la conseguente cancellazione dall’elenco).

Prosegue il ricorrente che il quadro normativo ora riportato è stato interpretato dalla Corte partenopea nel senso che non rientrando la CAM tra i soggetti di cui all’art. 2, comma 1, e pur essendo stata inserita nell’elenco di cui all’art. 6, svolgendo una delle attività di cui all’art. 4, comma 2, per il compimento di operazioni di trasferimento di denaro contante, era necessario comunque richiedere un’apposita abilitazione al Ministero. La sentenza dopo aver dato atto dell’abrogazione dell’art. 6 ad opera del TUB, ribadendo anche la sopravvivenza delle norme in esame, sino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti emanati dalle autorità creditizie, il D.Lgs. n. 385 del 1993, ex art. 161, ha riscontrato che la CAM con istanza del 4 ottobre 1991 aveva segnalato all’UIC che intendeva esercitare l’attività di raccolta del risparmio solo tra i soci e l’attività di concessione prestiti sempre esclusivamente tra i soci stessi, aggiungendo che la richiesta era presentata con riserva, in quanto non riteneva di poter essere ricompresa tra i destinatari dell’art. 6, non svolgendo attività di intermediazione.

Alla luce di tale missiva, ha quindi precisato che non vi era alcuna richiesta di abilitazione alle attività di trasferimento del contante, intendendo semplicemente continuare ad esercitare le attività indicate dall’art. 6, commi 2 e 2 bis.

A tale istanza fece poi seguito la risposta dell’UIC con la quale si comunicava l’avvenuta iscrizione della CAM nell’elenco degli intermediari, ma senza alcun riferimento agli obblighi specifici imposti per i soggetti abilitati ex lege ovvero per provvedimento alle operazioni di trasferimento di denaro contante.

Tale ricostruzione normativa e fattuale, per effetto della quale l’avvenuta iscrizione della CAM nell’elenco di cui all’art. 6 era finalizzata esclusivamente alla prosecuzione della pregressa attività, ma con esclusione della possibilità di trasferire denaro contante, è contestata dall’opponente il quale facendo leva sulla preesistenza della società rispetto alla novella del 1991, ritiene che tale condizione le consentiva oltre a beneficiare dell’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 6, anche della possibilità di poter compiere le attività di cui all’art. 1, e ciò sempre a seguito di semplice comunicazione all’UIC.

Il motivo è privo di pregio.

La soluzione interpretativa di parte ricorrente risulta chiaramente contrastare con il dato letterale delle norme in esame.

Ed, infatti, posto che l’elenco di cui all’art. 6, comma 1, serve a designare i soggetti che possono giovarsi della qualifica di intermediari di cui all’art. 4, comma 2, l’inserzione in tale elenco, concessa con criteri semplificati a coloro che già prima dell’entrata in vigore della legge, esercitavano l’attività di cui all’art. 6, commi 2 e 2 bis, come si ricava dalla piana lettura dell’art. 4, comma 2, non implica l’automatico riconoscimento della possibilità di poter effettuare operazioni di trasferimento di contante.

Ed, invero, per gli intermediari in oggetto, la legittimità delle operazioni di cui all’art. 1, presuppone una richiesta di abilitazione indirizzata al Ministero del Tesoro con la successiva emanazione del provvedimento abilitativo, di guisa che deve escludersi che il regime di favore previsto per gli intermediari già operanti alla data di entrata in vigore del decreto legge, possa estendersi anche alla possibilità di negoziare in contanti senza la previa richiesta di abilitazione al Ministero, richiedendo la legge ai fini in esame il concorso di entrambe le condizioni.

Nè, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, la richiesta inoltrata all’UIC per l’iscrizione nell’elenco ai sensi dell’art. 6, comma 4 bis, può ritenersi contenere un’implicita richiesta di abilitazione ex art. 4, comma 2, essendo diversi i soggetti destinatari delle due richieste (per la seconda è infatti previsto che il provvedimento di abilitazione debba essere rilasciato dal Ministero del Tesoro).

Ancora, il dettato dell’art. 4, comma 2, lascia chiaramente intendere che vi possano essere intermediari, non abilitati ex lege al trasferimento del contante, che pur essendo inseriti nell’elenco oggi previsto dall’art. 106 TUB, non siano altresì abilitati al trasferimento del contante, il che mina ab imis le premesse del ragionamento della ricorrente per le quali l’iscrizione per le società già operanti, determina l’abilitazione anche alle operazioni di cui al comma 1, non potendosi escludere che anche prima della novella vi fossero soggetti svolgenti attività di cui all’art. 6, commi 2 e 2 bis, che però operassero senza effettuare trasferimento di contanti.

Infine, depone in senso contrario alla censura sollevata dallo S. anche l’interpretazione teleologica delle norme, in quanto, essendo la finalità del legislatore quella di porre un freno all’utilizzo del contante in vista del contrasto alle operazioni di riciclaggio del denaro di provenienza illecita, aumentando di conseguenza le garanzie di trasparenza e tracciabilità delle operazioni di movimentazione del contante, il prevedere per un presumibilmente cospicuo numero di intermediari già operanti alla data di entrata in vigore della legge, la possibilità di continuare ad effettuare operazioni di trasferimento di denaro contante, senza una previa abilitazione da parte del Ministero, vanificherebbe le stesse finalità sottese all’emanazione della legge.

Con il quarto motivo il ricorrente denunzia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione al mancato riconoscimento della carenza dell’elemento soggettivo ovvero della sussistenza di un errore scusabile.

La Corte di merito avrebbe disatteso le difese del ricorrente limitandosi a richiamare la presunzione di colpa prevista dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, aggiungendo che la normativa antiriciclaggio è conosciuta diffusamente anche dai semplici cittadini, sicchè non può definirsi equivoca o poco chiara. In realtà l’errore scusabile era da individuarsi nel possesso in capo alla CAM della qualità di intermediario abilitato, che costituisce un errore sul fatto, piuttosto che un errore di diritto.

L’incertezza circa la corretta qualificazione soggettiva era poi avvalorata da varie pronunce emesse dal Tribunale di Ariano Irpino che avevano sposato la tesi del ricorrente circa la possibilità di poter effettuare trasferimenti di denaro contante oltre soglia.

Inoltre si era omessa la disamina di vari fatti storici, quali l’elevato numero di operazioni effettuate dal 1993 al 2004, che non avevano destato alcuna osservazione in sede ispettiva da parte della Banca d’Italia, nonchè la circostanza che la CAM aveva comunque osservato la normativa antiriciclaggio allorchè aveva eseguito le numerose operazioni oggetto della contestazione.

Ancora lo stesso UIC all’esito del PVC per cui è causa, aveva contestato la violazione dell’art. 116 del TUB, per l’assenza nei locali della Cassa degli avvisi e/o dei fogli informativi, e dell’art. 133 del TUB in quanto la denominazione sociale era idonea a trarre in inganno circa la legittimazione allo svolgimento dell’attività.

Anche tale motivo formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non appare conformarsi alla novellata previsione della norma in esame, dovendosi escludere che la motivazione della Corte di merito abbia omesso di prendere in considerazione un fatto decisivo.

Ed, infatti, nel caso in esame, il fatto valutato è proprio la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito contestato, e la sentenza impugnata, lungi dal limitarsi a far riferimento alla sola conoscenza della norma da parte della generalità dei consociati, ha valutato, escludendone l’idoneità in chiave esimente per la responsabilità del ricorrente, proprio alcuni dei fatti che in motivo si assume essere stati non esaminati, quali la rilevanza dell’attività ispettiva compiuta dalla Banca d’Italia, ovvero gli accertamenti compiuti in sede penale, ovvero la concreta conoscenza o conoscibilità degli atti dell’UIC, fornendosi altresì delle diffuse considerazioni in merito all’incidenza che sulla conoscenza di tali eventi poteva rivestire la qualità di socio.

Va ricordato che le Sezioni Unite (Cass. n. 8054 del 2014) hanno avuto occasione di sottolineare che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie, di modo che, avendo la sentenza gravata fornito ampia e coerente motivazione in ordine agli elementi in base ai quali reputava sussistere l’elemento soggettivo dell’illecito, il fatto che alcuni elementi siano stati invece trascurati o ritenuti irrilevanti, non determina la fondatezza della doglianza proposta.

Emerge quindi una ampia ed articolata disamina degli elementi fattuali, connotata da logicità e coerenza argomentativa, che pone la motivazione della sentenza impugnata al riparo da qualsivoglia censura, non solo in base al novellato tenore dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ma anche per l’ipotesi in cui la valutazione fosse avvenuta sulla base del vecchio testo della norma, risolvendosi la critica della società in una non consentita sollecitazione ad una diversa valutazione dei fatti di causa ad opera di questa Corte.

Con il quinto motivo la ricorrente nel dedurre in via gradata la violazione – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, – dell’art. 132, comma 2, n. 4, insiste nelle doglianze di cui al mezzo precedente, denunciando il vizio in termini di motivazione apparente.

Anche detto mezzo è infondato con riguardo alle considerazioni svolte con riferimento al motivo quarto che precede.

Infatti la nullità ex art. 132 c.p.c., n. 4, suppone che nella sentenza sia totalmente omessa, per materiale mancanza, la parte della motivazione riferibile ad argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni, in fatto e in diritto, della decisione, laddove nella pagina 15 e segg. della sentenza impugnata la corte territoriale indica perfettamente i requisiti da cui ha fatto discendere la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito de quo, con rigetto del relativo motivo di appello.

Con il sesto motivo si lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in quanto il ricorrente con un motivo di appello incidentale aveva reiterato la richiesta di riduzione della sanzione, per l’ipotesi di accoglimento dell’appello. La Corte di appello ha disatteso la doglianza ritenendo proporzionale ed equa la sanzione nella misura del 5% rispetto alle somme oggetto di trasferimento, pervenendo quindi all’applicazione della medesima percentuale applicata anche per la sanzione irrogata alla CAM, autrice di oltre mille violazioni, a fronte di solo quindici operazioni contestate allo S..

Con il settimo motivo si contesta, sempre in relazione alla misura della sanzione, la violazione della L. n. 689 del 1981, artt. 11 e 23.

Il ricorrente con un motivo di appello incidentale aveva contestato le modalità di calcolo della sanzione, invocando una nuova graduazione della sanzione stessa in senso più favorevole.

La Corte di merito ha invece valutato esclusivamente il divario esistente tra il minimo ed il massimo edittali della sanzione, ritenendo congrua, a fronte di un massimo pari al 40% della somma illecitamente oggetto di transazione, la sanzione determinata in una percentuale pari al 5%. L’art. 11 tuttavia prevede che quali parametri di valutazione dell’entità della sanzione, debba tenersi conto della gravità della violazione, dell’opera svolta dall’agente per l’eliminazione delle conseguenze della violazione, della personalità del trasgressore e delle sue condizioni economiche, ma non anche del parametro del delta tra minimo e massimo edittale.

I motivi, che per la loro connessione argomentativa devono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

Costituisce orientamento pacifico nella giurisprudenza di questa Corte quello per il quale (Cass. n. 2406 del 2016; Cass. n. 6778 del 2015; Cass. n. 9255 del 2013) in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro, il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, nè la Corte di Cassazione può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta.

Ne consegue che avendo il giudice di merito applicato la sanzione nel rispetto dei limiti edittali, ed avendo anche dato conto, con il riferimento alla equità e proporzionalità, ed alla gravità soggettiva della violazione, di aver compiuto una valutazione legata ai criteri previsti per legge per la graduazione della sanzione, la doglianza non può trovare accoglimento, e ciò sempre alla luce della novella di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, dovendosi escludere che vi sia stata l’omessa disamina di fatti decisivi.

Nè d’altra parte può ravvisarsi una pretesa illogicità della motivazione per l’applicazione allo S. della medesima percentuale rispetto alle infrazioni contestate alla CAM, posto che proprio il ben più rilevante importo delle operazioni poste in essere dalla società, pur in presenza di un coefficiente uguale per tutti i soggetti coinvolti, è in grado di assicurare la maggiore afflittività della sanzione irrogata alla società.

Passando all’esame dell’unico motivo del ricorso incidentale, con il quale il Ministero lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nella parte in cui la sentenza gravata, pur avendo accolto l’appello principale e rigettato quello incidentale, ha tuttavia compensato le spese di lite, richiamando “la particolarità della fattispecie esaminata e l’oscillare delle decisioni nei casi consimili esaminati dal giudice a quo, che si è manifestato pur dopo le prime sentenze di questa corte…”, osserva l’Amministrazione che la stessa corte partenopea, nell’esaminare le numerose controversie scaturenti dall’accertamento eseguito nei confronti della CAM, e di riflesso dei suoi soci, dopo avere in una prima fase dato seguito al principio della soccombenza, ha poi iniziato a compensare le spese di lite, sebbene sussista la soccombenza integrale delle controparti.

Anche il ricorso incidentale è infondato.

Le “gravi ed eccezionali ragioni”, indicate esplicitamente nella motivazione per giustificare la compensazione totale o parziale, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nella formulazione applicabile “ratione temporis”, risultante dalla L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 11, non devono essere illogiche o erronee, altrimenti configurandosi il vizio di violazione di legge, denunciabile in sede di legittimità. Le “gravi ed eccezionali ragioni” devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa, e, trattandosi di nozione necessariamente elastica, ad esse può certamente ricondursi la novità, complessità o opinabilità della questione giuridica decisa, come appunto motivato dalla Corte d’Appello di Napoli (cfr. Cass. n. 5267 del 2016; Cass. n. 2883 del 2014).

Consegue il rigetto dei ricorsi principale ed incidentale.

Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti in ragione della novità della questione di diritto e della reciproca soccombenza.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 – quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata.

Non sussiste tale obbligo per il ricorrente incidentale, essendo le Amministrazioni dello Stato istituzionalmente esonerate dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito.

PQM

 

La Corte, rigetta entrambi i ricorsi;

dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 – quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2^ Sezione Civile, il 29 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2017

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