Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13617 del 30/05/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 30/05/2017, (ud. 09/03/2017, dep.30/05/2017),  n. 13617

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15022-2015 proposto da:

F.M., C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 121,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MONETTI, che lo rappresenta

e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SOTECO (SOCIETA’ TERMINAL CONTENITORI) S.R.L., P.I. (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio

dell’avvocato PIERFANCESCO LUCENTE, rappresentata e difesa

dall’avvocato ALBERTO CINQUEGRANA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7067/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 17/11/2014 r.g.n. 6121/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/03/2017 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCO MONETTI;

udito l’Avvocato ALBERTO CINQUEGRANA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Napoli ha dichiarato inammissibile, per decorso del termine semestrale di impugnazione, l’appello proposto il 28 settembre 2013 da F.M. nei confronti della SOTECO – Società Terminal Contenitori Srl avverso la pronuncia del locale Tribunale che aveva respinto l’impugnativa di licenziamento avanzata dal lavoratore.

La Corte territoriale ha argomentato testualmente che “nel verbale di udienza del 27.3.2013 si legge che il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, definendo il giudizio…, ha pronunciato sentenza dando lettura del dispositivo”; che “il giudice del lavoro non ha utilizzato il paradigma normativo di cui all’art. 281 sexies c.p.c., bensì quello di cui all’art. 429 c.p.c.”; che “si è infatti letto il dispositivo in udienza in data 27.3.2013 ed in pari data è stata pubblicata la sentenza”; che “tale risulta essere appunto l’attestazione di Cancelleria del 28.3.2013, che costituisce atto pubblico e fa fede della espletata attività”.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso F.M. con tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. Ha resistito le società con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 429, 430, 133, 57 e 221 c.p.c., dell’art. 2700 c.c., nonchè dell’art. 2697 c.c. ed inoltre dell’art. 132 c.p.c., “ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3”.

Si censura la sentenza impugnata perchè: l’erronea attestazione del cancelliere del Tribunale di Napoli, “che si ricava dal timbro semi-illeggibile apposto sulla sentenza di primo grado, pur espressamente richiamato a sostegno della statuizione impugnata, non ha affatto certificato la pubblicazione della sentenza di primo grado per effetto del suo deposito in cancelleria, ma mediante lettura della sua motivazione (in realtà non avvenuta) all’udienza di discussione”; in contrasto con l’affermazione che l’attestazione della cancelleria costituisce atto pubblico e fa fede dell’espletata attività, “nello stesso tempo corregge il contenuto della stessa attestazione senza procedimento di falso al riguardo, sancendo che la sentenza è stata resa pubblica mediante deposito in cancelleria (come in realtà accaduto il giorno dopo l’udienza di discussione) e non per effetto della lettura della motivazione in udienza”; inesattamente attribuisce all’attestazione di cancelleria, “malgrado la sua palese erroneità, la valenza di atto pubblico di fede privilegiata”, senza considerare che l’errore commesso dalla cancelleria risulterebbe da altri atti pubblici del processo, quali il verbale di udienza e la sentenza; manca di considerare i dati risultanti da detti atti processuali, introducendo “un inesistente elemento fattuale, quello del deposito della sentenza in Cancelleria lo stesso giorno dell’udienza di discussione, che contrasta sia con la ricostruzione dello svolgimento del processo, da desumersi ex artt. 57, 133, 430 e 429 c.p.c. da tali atti (…), sia con il contenuto della errata attestazione del Cancelliere”; manca di rilevare che l’appellante aveva fornito la prova della tempestività dell’impugnazione, dimostrando che non vi era stata pubblicità di quest’ultima in udienza, ma per effetto del deposito in cancelleria, effettuato il giorno successivo.

Con il secondo motivo, “in linea alternativa”, si denuncia “error in procedendo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5” per errata valutazione delle risultanze processuali, assumendo che la mancata lettura in udienza da parte del primo giudice delle ragioni di fatto e di diritto della decisione ed il successivo deposito in cancelleria senza la determinazione del termine previsto dall’art. 429 c.p.c., comma 1, “avrebbe dovuto comportare la conseguenza non già della nullità della sentenza, ma quello di far decorrere il termine di impugnazione, ex art. 327 c.p.c., dalla data del deposito in Cancelleria, con la conseguenza della tempestività del gravame del concludente”.

In linea ancora “alternativa” si denuncia, con il terzo motivo, “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, ai sensi dell’art. 350 c.p.c., n. 5”. Il fatto decisivo omesso sarebbe “relativo alla data in cui la sentenza è stata effettivamente depositata in cancelleria”, per cui la Corte territoriale avrebbe errato a non considerare che dal verbale di causa e dalla sentenza stessa emergeva che il primo giudice aveva dato lettura soltanto del dispositivo e che pertanto la sentenza era stata pubblicata solo il giorno successivo a quello di discussione.

2. I tre motivi possono essere valutati congiuntamente per connessione in quanto denunciano l’error in procedendo – inteso quale errore di attività processuale – in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello nel dichiarare inammissibile l’impugnazione del F., ferma l’inammissibilità delle censure nella parte in cui impropriamente parte ricorrente, nell’articolazione dei motivi, si riferisce ad errores in iudicando, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, che di norma attengono alla violazione ed alla erronea interpretazione delle norme di diritto che regolano la fattispecie sostanziale, o al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che tipicamente riguarda la ricostruzione della vicenda storica che ha dato origine al processo e non gli errori eventualmente compiuti nel corso di esso.

Tali motivi, nella parte residua in cui risultano ammissibili, non meritano accoglimento.

L’art. 429 c.p.c., comma 1, in seguito alle modifiche apportate dal D.L. n. 112 del 2008, art. 56 conv. con modificazioni nella L. n. 133 del 2008, applicabili alla fattispecie, prevede due modalità di “pronuncia della sentenza”.

La regola è che il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, “pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.

Come possibilità residuale, “in caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza”.

Solo in tale secondo caso, a norma dell’art. 430 c.p.c., “la sentenza deve essere depositata in cancelleria” ed “il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti”.

Secondo quanto statuito da questa Corte in relazione all’art. 281 sexies c.p.c. la lettura della sentenza in udienza e la sottoscrizione, da parte del giudice, del verbale che la contiene, non solo equivalgono alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c., ma esonerano il cancelliere dall’onere della comunicazione (la conclusione trova fondamento nel fatto che la lettura del provvedimento in udienza deve ritenersi conosciuta, con presunzione assoluta di legge, dalle parti presenti o che avrebbero dovuto essere presenti: v. Cass. n. 16304 del 2007; Cass. n. 4401 del 2006; Cass. n. 20417 del 2006, ord., Cass. n. 17665 del 2004; Cass. n. 22659 del 2010).

Tale soluzione è applicabile anche all’analoga disciplina introdotta per il rito del lavoro dall’art. 429 c.p.c., comma 1, in mancanza di diversa previsione ed atteso che l’art. 430 c.p.c. si riferisce ormai ai soli casi in cui il giudice non dia contestuale lettura del dispositivo e della motivazione della sentenza, con la conseguenza “che a tale momento occorre avere riguardo per la decorrenza del termine lungo per impugnare previsto dall’art. 327 c.p.c.” (in termini Cass. n. 24805 del 2015).

Anche ove la pronuncia sulla competenza sia stata adottata nelle forme previste dall’art. 429 c.p.c., comma 1, parte prima, con lettura del dispositivo e contestuale esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, il termine per la proposizione del regolamento di competenza decorre dalla data dell’udienza in cui tali attività sono compiute, dovendosi i provvedimenti adottati dal giudice ritenere legalmente conosciuti sin dal momento in cui sono emessi e con esclusione di ogni comunicazione della cancelleria (Cass. ord. n. 8939 del 2011), ancora sulla scorta di quanto già affermato con riferimento alla sentenza ex art. 281 sexies c.p.c., con principio applicabile anche alla pronuncia ex art. 429 c.p.c. che, nel testo novellato, risulta modellata appunto secondo lo schema dell’art. 281 sexies c.p.c. il quale, peraltro, la stessa giurisprudenza aveva ritenuto, ancor prima della riforma, estensibile al rito del lavoro (cfr. Cass. n. 13708 del 2007; Cass. n. 9235 del 2006).

3. Orbene, dall’esame dei fatti processuali, di cui questa Corte ha cognizione diretta nel caso di error in procedendo, anche prescindendo dalla motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione (per tutte: Cass. SS.UU. n. 8077 del 2012), la pronuncia della sentenza del Tribunale di Napoli si attaglia al modulo procedimentale che costituisce la regola prevista dall’art. 429 c.p.c..

Infatti nel dispositivo di sentenza non è indicato un termine per il deposito della medesima, come sarebbe stato necessario ove il giudice avesse inteso avvalersi dell’alternativo modulo procedimentale previsto in via residuale “in caso di particolare complessità della controversia”.

La stessa cancelleria certifica che “la sentenza è stata pronunziata e resa pubblica all’udienza del 27.3.2013” (cfr. pag. 4 ricorso per cassazione), mentre non certifica affatto, come invece avrebbe altrimenti dovuto, che la sentenza sia stata formalmente depositata il giorno successivo a mente dell’art. 430 c.p.c.. Tanto è che coerentemente la cancelleria non ha effettuato la comunicazione alle parti dell’avvenuto deposito, come invece avrebbe dovuto ai sensi della medesima disposizione, avendo piuttosto dato atto che era stato seguito l’ordinario modulo procedimentale della pubblicazione della sentenza mediante lettura in udienza per il quale non è previsto il deposito e la successiva comunicazione alle parti, come statuito dalla giurisprudenza innanzi richiamata.

Invero chi intende avvalersi del termine lungo per l’impugnazione deve farlo sulla base della data di pubblicazione della sentenza così come attestata dalla cancelleria, a nulla rilevando i successivi adempimenti (Cass. n. 24913 del 2008, Cass. n. 15778 del 2007; Cass. n. 11630 del 2004), perchè detta attestazione determina tutti gli effetti della indicata pubblicazione del provvedimento giurisdizionale, anche ai sensi dell’art. 327 c.p.c., salvo la proposizione dagli interessati della querela di falso (cfr. Cass. n. 17290 del 2009).

Rispetto a tali decisivi rilievi il dies a quo per l’impugnazione in appello nella specie non può che farsi decorrere dal 27 marzo 2013, non essendo sufficiente ad indurre un diverso convincimento la circostanza che fosse nel verbale di udienza “spuntata” una casella prestampata piuttosto che un’altra, nè tanto meno il “ricordo” della parte e del suo avvocato, atteso peraltro che non risulta neanche dedotta l’esistenza di un autonomo dispositivo separato dal testo della sentenza integrale, che invece risulta completa in ogni sua parte ed immediatamente disponibile sin da detta data in coerenza con l’attestazione dalla cancelleria.

4. Conclusivamente il ricorso va respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2017

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