Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13613 del 21/05/2019

Cassazione civile sez. trib., 21/05/2019, (ud. 29/05/2018, dep. 21/05/2019), n.13613

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ARCA s.u.r.l., in persona dell’amministratore unico-legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via

Germanico 197 presso lo studio degli Avv.ti Mauro Mezzetti e Alberto

Accordi che la rappresentano e difendono per procura a margine del

ricorso.

– ricorrente –

contro

AGENZIA delle ENTRATE, in persona del Direttore centrale pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12 presso

gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende;

– controricorrente/ricorrente incidentale –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia-sezione distaccata di Brescia, n.

68/66/11, depositata il 14 marzo 2011.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza camera

di consiglio del 29 maggio 2018 dal relatore Cons. Roberta Crucitti;

udito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

Mastroberardino Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e l’accoglimento del ricorso incidentale;

udito per la ricorrente l’Avv. Paolo Aldrovandi per delega;

udito per la contro ricorrente/ricorrente incidentale l’Avv. Paolo

Gentili.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società a responsabilità limitata, a socio unico, ARCA, in persona del legale rappresentante pro tempore, impugnò l’avviso di accertamento, relativo a Irpeg e Irap dell’annualità 2004, con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva ritenuto indeducibili le minusvalenze conseguenti ad operazioni su titoli, perchè la Società non aveva indicato, nella comunicazione prevista dal D.L. n. 203 del 2005, art. 5 quinques, i dati identificativi della controparte; veniva, poi, contestato un indebito risparmio di imposta realizzato, con abuso del diritto, attraverso l’acquisto di titoli con cedola e successiva rivendita degli stessi senza cedola.

Il ricorso proposto dalla Società avverso l’atto impositivo venne, parzialmente, accolto dalla Commissione tributaria provinciale la quale, confermando l’avviso di accertamento, dichiarava, invece, non dovute le sanzioni in quanto le stesse avrebbero in ultima analisi danneggiato le maestranze, vittime incolpevoli della situazione creatasi.

La decisione, appellata da entrambe le parti, è stata confermata, con la sentenza indicata in epigrafe dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia (d’ora in poi C.T.R.).

In particolare, il Giudice di appello ha rigettato l’eccezione preliminare di nullità dell’avviso di accertamento perchè emesso prima della scadenza del termine previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7. Ha rilevato che la mancata indicazione delle informazioni richieste rendevano irregolare la comunicazione, prevista dal D.L. n. 203 del 2005, art. 5quinques, con conseguente indeducibilità delle minusvalenze.

La C.T.R. ha, poi, ritenuto la sussistenza del prospettato abuso del diritto, non avendo la Società evidenziato la ricorrenza di valide ragioni economiche, e, in punto di sanzioni, ne ha escluso l’applicabilità sia pure con motivazione diversa rispetto a quella resa dal primo Giudice.

Avverso la sentenza la Società ha proposto ricorso per cassazione, fondato su tre motivi, ulteriormente illustrati con deposito di memoria ex art. 378 c.p.c.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso e propone ricorso incidentale fondato su due motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12 (art. 360 c.p.c., n. 5)- la ricorrente deduce l’errore commesso dal Giudice di appello nell’aver fondato la sua decisione, ricalcando quella del primo Giudice, con riferimento ad una fattispecie (emissione dell’avviso di accertamento prima della scadenza del termine previsto dalla norma sopra invocata) diversa da quella era stata prospettata sin dal ricorso introduttivo e ribadita in appello (ovvero l’omessa motivazione dell’avviso di accertamento con riguardo alle osservazioni presentate con memoria dalla Società a seguito dell’accesso).

1.1. La censura è inammissibile. Per costante giurisprudenza di questa Corte (v.” di recente, tra le altre Cass. Ordinanza n. 11603 del 14/05/2018; conf. Cass. n. 19952/2014) il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito.

1.2. Nel caso in esame, non solo nella rubrica si indica la violazione di legge facendo riferimento all’ipotesi di vizi attinenti la motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), ma, anche nella parte illustrativa del mezzo di impugnazione, si sovrappongono indistintamente diverse censure laddove da un canto, si deduce l’errore commesso dal Giudice di appello, in punto di motivazione, nell’avere deciso una fattispecie diversa da quella prospettata, e, dall’altro, si deduce una violazione di legge in ordine all’applicazione corretta della norma invocata, nella fattispecie effettivamente prospettata, e sul quale il Giudice di merito non avrebbe deciso, per concludere chiedendo la cassazione della sentenza per avere fondato la motivazione della propria decisione con riferimento a diversa fattispecie da quella sottoposta al suo vaglio, con conseguente nullità dell’accertamento.

1.3 Peraltro, la questione di diritto, sottesa alla censura, è già stata risolta in senso sfavorevole alla ricorrente da questa Corte (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 8378 del 31/03/2017; id. n.ri 3583 del 2016, 13294/2016; 16036 del 2015) la quale ha reiteratamente statuito il principio, dal quale il Collegio non intende discostarsi, secondo cui “in tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo”.

2. Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la sentenza impugnata di omessa o insufficiente motivazione laddove il Giudice di appello, nel ritenere che l’assenza delle indicazioni richieste nel prospetto prodotto dalla Società rendesse irregolare la comunicazione D.L. n. 203 del 2005, ex art. 5 quinques, comma 3, aveva omesso totalmente di dar conto delle ragioni di non fondatezza dei motivi di appello proposti su detta questione.

2.1. La censura è inammissibile. Il vizio di omessa o di insufficiente motivazione sussiste in rapporto ai “fatti” acquisiti agli atti del processo, mentre, nel caso in esame, con il mezzo di ricorso non si prospettano, e neppure si specificano, i “fatti decisivi” il cui esame sarebbe stato pretermesso, ovvero insufficientemente valutato, dal Giudice di merito ma ci si limita a riproporre pedissequamente i motivi di appello proposti innanzi a quel Giudice. Peraltro, la motivazione resa dal Giudice di appello, pur nella sua stringatezza, è sufficientemente motivata giacchè la C.T.R. ha argomentato, implicitamente ritenendo la Società obbligata alla compilazione del prospetto, che l’assenza nella comunicazione prescritta dal D.L. n. 203 del 2005, art. 5 quinques, comma 3, delle informazioni (richieste nel provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate) determinasse, di per sè, l’indeducibilità delle minusvalenze realizzate e ciò a prescindere dalla natura delle irregolarità riscontrate nella stessa comunicazione.

2.2. Va, peraltro, rilevato che la ricorrente, in memoria ha dedotto la sussistenza dell’ius superveniens costituito dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 11, comma 2, che ha soppresso il terzo periodo del D.L. n. 203 del 2005, art. 5 quinquies, ovverossia la disposizione che prevedeva, in caso di violazione dell’obbligo di comunicazione, l’indeducibilità della minusvalenza e della differenza negativa realizzate. Secondo l’assunto difensivo l’abrogazione della sanzione costituita dall’indeducibilità e la sua sostituzione con la diversa sanzione amministrativa del 10% delle minusvalenze di cui alla comunicazione omessa o incompleta opererebbe, in virtù del principio di legalità posto dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 3,anche per le fattispecie anteriori all’entrata in vigore della più favorevole novella, non essendo il provvedimento divenuto definitivo, con conseguente venir meno della pretesa dell’Agenza delle entrate.

2.3 In proposito, appare opportuno ricostruire il quadro normativo di riferimento:

– il D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 5 quinques, comma 3, convertito dalla L. n. 248 del 2005, prevede l’obbligo del contribuente di comunicare all’Agenzia delle entrate i dati e le notizie necessari per consentire l’accertamento delle conformità delle operazioni di cessione che hanno determinato minusvalenze e differenze negative cui si applicano le disposizioni inserite dallo stesso art. 5 quinques, comma 1, nell’art. 109 T.U.I.R., di ammontare superiore a Euro 50.000, derivanti da operazioni su azioni o altri titoli negoziali in mercati regolamentati italiani o esteri, anche a seguito di più operazioni e realizzate a decorrere dal periodo di imposta cui si applicano le disposizioni del D.Lgs. n. 344 del 2003. In caso di comunicazione omessa, incompleta o infedele, la minusvalenza e la differenza negativa realizzata erano fiscalmente indeducibili;

– il D.L. 2 marzo 2012 n. 16, art. 11, comma 1, convertito con modificazioni, dalla L. 26 aprile 2012 n. 44, intitolato” Modifiche in materia di sanzioni amministrative” ha inserito nel D.Lgs. n. 417 del 1997, art. 11, il nuovo comma 4 bis, il quale stabilisce che: “L’omessa, incompleta o infedele comunicazione delle minusvalenze e delle differenze negative di ammontare superiore a Euro 50.000 e delle differenze negative di ammontare superiore a Euro 50.000 di cui al D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 5-quinquies, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, nonchè delle minusvalenze di ammontare complessivo superiore a cinque milioni di Euro, derivanti da cessioni di partecipazioni che costituiscono immobilizzazioni finanziarie di cui al D.L. 24 settembre 2002, n. 209, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 novembre 2002, n. 265, è punita con la sanzione amministrativa del 10 per cento delle minusvalenze la cui comunicazione è omessa, incompleta o infedele, con un minimo di Euro 500 ed un massimo di Euro 50000.”;

– lo stesso citato art. 11, comma 2, ha poi soppresso, in un’ottica di coordinamento, le disposizioni che, invece, prevedevano quali conseguenza della omessa, incompleta o infedele comunicazione l’indeducibilità dell’onere non comunicato e, in particolare per quello che qui rileva, l’ultimo periodo del D.L. n. 248 del 2005, art. 5 quinques, comma 3.

2.4. Ciò posto, rileva il Collegio, come dal tenore testuale delle disposizioni di legge, dallo stesso titolo attribuito al citato art. 11 (modifiche in materia di sanzioni amministrative), nonchè dallo spirito e dalla ratio che ha ispirato l’intervento normativo (quali risultanti anche dalle relazioni accompagnatorie del disegno di legge predisposte dal Servizio Studi della Camera dei deputati ove in particolare, si legge, che con le disposizioni in esame si è provveduto ad introdurre una disciplina analoga a quella disposta con la L. n. 296 del 2002, a proposito del regime di deducibilità dei costi derivanti da operazioni intercorse con paesi della c.d. Black list), emerga chiara la volontà del legislatore di sostituire l’indeducibilità delle minusvalenze e delle differenze negative, ritenuta conseguenza meramente sanzionatoria dell’inosservanza dell’obbligo comunicativo, con diversa sanzione ritenuta più adeguata e proporzionata.

2.5. Ne consegue che l’illustrato ius superveniens, che tale indeducibilità ha soppresso, incidendo in materia di sanzioni, trova applicazione anche nel caso di specie in cui il rapporto non è ancora esaurito.

3. Con il terzo motivo del ricorso principale si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa o insufficiente motivazione laddove il Giudice territoriale, accertata la sussistenza dell’abuso di diritto “confermato dai primi giudici” in ordine al quale aveva ritenuto che “non possono sussistere dubbi”, aveva poi ribadito che, nel caso in specie, l’unico fine della società era il perseguimento del vantaggio fiscale e sempre, con affermazione altrettanto generica, aveva rilevato che il contribuente non era riuscito a dimostrare ragione alcuna sulla convenienza in termini economici delle operazioni di compravendita di titoli e della relativa riscossione di dividendi ad eccezione dell’intento di conseguire un vantaggio fiscale.

Secondo la prospettazione difensiva il vizio della motivazione era evidente, non avendo la C.T.R. valutato (e argomentato su) tutta una serie di fatti, emergenti dalla documentazione prodotta, e reiterati con i motivi di appello quali: la funzione finanziaria dell’impresa, l’errata definizione del comportamento abusivo della società quale dividendi washing a fronte della normale attività di trading in borsa (laddove era stato comprovato nello stesso PVC redatto dall’Agenzia delle entrate che la durata dei singoli investimenti si era protratta talora per mesi nel 2004, così escludendosi per tabulas l’asserita immediatezza tra acquisto e vendita di titoli), l’utile civilistico delle operazioni, emergente dal conto economico, che comprovavano l’interesse della Società ad impiegare nelle operazioni su titoli le eccedenze di liquidità.

3.1. Appare, opportuno premettere, in diritto, in relazione all’istituto dell’abuso del diritto di elaborazione comunitaria (in relazione ai tributi armonizzati) e successivamente accolto anche dall’ordinamento statale (in relazione alle imposte sui redditi D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37 bis) che, sulla scia della pronuncia delle Sezioni Unite n. 30055 del 23/12/2008 (“in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione), può dirsi, ormai, consolidato l’orientamento di questa Corte nel senso di ritenere che l’operazione economica che abbia quale suo elemento (non necessariamente unico, ma comunque) predominante ed assorbente lo scopo elusivo del fisco costituisce condotta abusiva, ed è, pertanto, vietata allorquando non possa spiegarsi altrimenti (o, in ogni caso, in modo non marginale) che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (cfr., tra le altre e di recente, Cass. n. 5090 del 28.2.2017)

Gli indici sintomatici ai quali, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza di questo Giudice di legittimità, occorre attingere per la dimostrazione dell’abusività della condotta, non vanno ricercati nella causa (funzione economico sociale) o negli effetti giuridici del negozio o della complessa operazione negoziale (diretti a disciplinare il regolamento di interessi voluto dalle parti), ma devono essere ricercati nel limite imposto dalla convenienza economica dell’operazione, nel senso che, data la peculiare situazione economico patrimoniale ed il tipo di organizzazione aziendale o societaria del soggetto, rilevate ex ante rispetto alla operazione economica da compiere, detto limite è rispettato se la modifica di tale situazione -mediante l’attività negoziale posta in essere- è rispondente a logiche di mercato ed in ultima analisi ai principi di economicità della gestione: ove tali requisiti di economicità non siano, invece, rinvenibili nell’operazione realizzata, ma la fattispecie negoziale posta in essere consenta, comunque, di realizzare, mediante una diversa allocazione delle risorse economico-patrimoniali preesistenti, un trattamento fiscale più favorevole, allora la duplice combinazione di tali elementi (carente giustificazione economica dell’operazione, realizzazione di un risparmio fiscale) consente di pervenire a qualificare l’operazione come elusiva in quanto diretta esclusivamente ad impedire la verificazione del presupposto di imposta (v. Cass. n. 26781/2013; 21782/2011; 1372/2011; 12249/2010).

3.2 Alla luce dei superiori principi la motivazione resa dalla C.T.R., obliterando tra l’altro gli elementi fattuali sottoposti al suo esame, è assolutamente insufficiente risolvendosi in asserzioni apodittiche sia in ordine alla sussistenza del prospettato abuso che in ordine all’assenza di contrarie e valide ragioni economiche.

Secondo il costante insegnamento di questa Corte, infatti, (cfr ex plurimis, di recente, Cass. n. 12967 del 24/05/2018) “risulta integrato il vizio di omessa o insufficiente motivazione, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quando, dal compendio giustificativo sviluppato a supporto della decisione, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa soluzione o sia evincibile un’obiettiva carenza dell'”iter” logico-argomentativo che ha portato il giudice a regolare la vicenda al suo esame in base alla regola concretamente applicata” ed ancora “ai fini della sufficienza della motivazione della sentenza, il giudice non può, quando esamina i fatti di prova, limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, perchè questo è il solo contenuto “statico” della complessa dichiarazione motivazionale, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è passato dalla sua situazione di iniziale ignoranza dei fatti alla situazione finale costituita dal giudizio, che rappresenta il necessario contenuto “dinamico” della dichiarazione stessa” (v. Cass. n. 1236/2006 e, in termini, Cass. n. 15964/2016 e n. 32980/2018.

4. Con il primo motivo di ricorso incidentale l’Agenzia delle entrate deduce la violazione di legge (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8) in cui sarebbe incorsa la C.T.R. nell’avere disapplicato le sanzioni argomentando: la complessità della materia e l’opinabilità della distinzione tra effetti fiscali ed effetti economici ai fini aziendali può sicuramente giustificare la non applicazione delle sanzioni.

5. Tale capo di sentenza è oggetto di censura anche del secondo motivo di ricorso incidentale con il quale si deduce l’illogicità e insufficienza della motivazione laddove il giudice di merito aveva motivato sulla dicotomia tra effetti fiscali ed economici.

6. Rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale (come sollevata dalla ricorrente principale), essendo l’atto difensivo sufficientemente specifico, le censure sono fondate.

6.1. La giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che (Cass. n. 23845 del 23/11/2016; n. 4522 del 22/02/2013) che “in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua del D.Lgs. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, nè all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere – dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione”.

La sentenza impugnata che ha escluso la debenza delle sanzioni, argomentando genericamente sull’opinabilità della distinzione tra effetti fiscali e o/ effetti economici ai fini aziendali, si è discostata dai superiori principi.

7. In conclusione, per le ragioni sin qui svolte, va accolto il terzo motivo del ricorso principale e il ricorso incidentale; la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale la quale, adeguandosi ai superiori principi, provvederà al riesame considerando anche lo ius superveniens costituito dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 11, comma 2.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo del ricorso principale;

accoglie il ricorso incidentale;

cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 29 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2019

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