Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1361 del 20/01/2011

Cassazione civile sez. I, 20/01/2011, (ud. 16/12/2010, dep. 20/01/2011), n.1361

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 31612 – 2005 proposto da:

T.A. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 6, presso l’avvocato D’AGOSTINO ANTONIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato TORDO CAPRIOLI ALFONSO, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCA POPOLARE DI TODI S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona del

Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

BARBERINI 52, presso l’avvocato GOLINO VINCENZO, rappresentata e

difesa dall’avvocato SEGOLONI ANNALISA, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 910/2004 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 18/10/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/12/2010 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato A. TORDO CAPRIOLI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARESTIA Antonietta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il sig. T.A., socio della Banca Popolare di Todi s.p.a., con atto notificato il 23 luglio 1996 citò detta società in giudizio dinanzi al Tribunale di Perugia per far dichiarare nulla o annullare una deliberazione assembleare, assunta il 25 aprile 1996, con cui gli amministratori erano stati autorizzati ad acquistare 7.000 azioni proprie della società.

Essendo stata la domanda rigettata dal tribunale, il sig. T. propose gravame, che fu però del pari rigettato dalla Corte d’appello di Perugia con sentenza depositata il 18 ottobre 2004.

La corte umbra, per quanto ancora in questa sede interessa, anzitutto negò fondamento alla tesi dell’impugnante secondo cui l’acquisto di azioni proprie della società sarebbe avvenuto in violazione dell’art. 2357 c.c., comma 1, ossia oltre il limite degli utili distribuibili e delle riserve disponibili. Tale limite, a giudizio della corte, non era stato superato, potendosi tra le riserve computare anche quella iscritta nel bilancio relativo all’esercizio 1995 come “fondo sovrapprezzo di emissione”, divenuta disponibile per effetto dell’avvenuta trasformazione della Banca di Todi in società per azioni in epoca anteriore alla deliberazione impugnata; nè poteva convenirsi con l’assunto dell’appellante – peraltro inammissibile, perchè dedotto per la prima volta nel giudizio di gravame – secondo cui, per rendere disponibile detto fondo, sarebbe occorsa l’approvazione di un ulteriore bilancio successivo alla trasformazione.

Fu del pari escluso dalla corte d’appello che l’acquisto di azioni proprie fosse stato autorizzato dall’assemblea oltre il limite del dieci per cento del capitale, posto dal citato art. 2357, comma 3, (nella formulazione vigente all’epoca dei fatti di causa). La corte ritenne che si dovesse a tal fine tener conto del capitale risultante all’esito di un aumento deliberato il 6 marzo 1996, ancorchè successivo all’approvazione dell’ultimo bilancio, non potendo trovare ingresso in appello l’eccezione con la quale il sig. T. aveva contestato la mancata informazione all’assemblea dell’avvenuta sottoscrizione di detto aumento di capitale; sottoscrizione comunque tempestivamente documentata in causa dalla difesa della banca, la quale aveva provveduto a depositare il proprio fascicolo di parte, precedentemente ritirato, entro quattro giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie di replica alla comparsa conclusionale.

Fu disattesa anche l’eccezione di nullità, o di giuridica inesistenza, della deliberazione di aumento del capitale sociale sopra menzionata: in parte per difetto di specificità del dedotto motivo di gravame ed in parte per l’infondatezza dell’assunto dell’appellante secondo cui l’aumento del capitale, con esclusione del diritto di opzione, non avrebbe potuto esser deliberato contestualmente alla trasformazione dell’ente in società azionaria ed avrebbe dovuto necessariamente essere adottato nelle forme e con le maggioranze richieste per quest’ultimo tipo di società.

Venne infine rigettato il motivo di gravame concernente la pretesa invalidità della delibera assembleare del 25 aprile 1996 per eccesso di potere della maggioranza, non essendo state dedotte prove idonee a sorreggere l’assunto dell’appellante.

Avverso tale sentenza il sig. T. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, al quale la Banca di Todi ha replicato con controricorso e successiva memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La questione posta all’esame di questa corte dal primo motivo del ricorso concerne il dettato dell’art. 2357 c.c., comma 1, che consente ad una società azionaria di acquistare azioni proprie solo “nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato”.

1.1. La corte d’appello ha escluso che, nel caso in esame, quel limite sia stato superato ed a tale conclusione è pervenuta computando tra le riserve disponibili della Banca di Todi anche una posta, denominata in bilancio “fondo sovrapprezzo azioni”, che era stata inizialmente costituita, a norma del previgente art. 2525, comma 3 (ora sostituito dall’art. 2528 c.c., comma 2, quando la società aveva ancora veste di cooperativa. La successiva trasformazione dell’ente in società per azioni ha indotto la corte territoriale a reputare che detta riserva, all’atto della deliberazione avente ad oggetto l’acquisto di azioni proprie della società, fosse divenuta pienamente disponibile e che, perciò, se ne potesse tener conto per ampliare il limite entro cui l’acquisto di dette azioni era consentito.

Il ricorrente, lamentando la violazione di varie norme di diritto sostanziale e processuale, oltre che vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, contesta siffatta conclusione e sostiene che, viceversa, avendo il legislatore fatto riferimento alle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato ed essendo stato l’ultimo bilancio della Banca di Todi approvato, prima dell’impugnata delibera, quando la società era ancora una cooperativa, il “fondo sovrapprezzo azioni” non avrebbe potuto esser considerato disponibile. Per raggiungere un tale scopo, sempre secondo il ricorrente, sarebbe prima occorsa l’approvazione di un nuovo bilancio, che tenesse conto della diversa veste giuridica assunta dalla società ed anche di ogni ulteriore fatto sopravvenuto.

Lamenta ancora il ricorrente che quest’ultimo rilievo – quello concernente la necessità dell’approvazione di un bilancio successivo alla trasformazione per poter computare il suddetto fondo tra le riserve disponibili – sia stato giudicato inammissibile dalla corte d’appello, perchè nuovo, senza però tener conto che non si trattava di un’eccezione, bensì di una mera argomentazione difensiva. E si duole anche che la stessa corte non abbia preso in considerazione le circostanze, dedotte nell’atto di gravame, dalle quali risultava come, per l’acquisto delle azioni proprie, la società avesse in concreto utilizzato fondi diversi da quello per sovrapprezzo azioni sopra menzionato.

1.2. Le riferite censure non sono convincenti, o almeno non al punto da indurre alla cassazione della sentenza impugnata.

Può darsi che l’assunto prospettato dall’appellante secondo cui sarebbe occorso un nuovo bilancio per rendere disponibili riserve che all’origine non lo erano non integri una vera e propria eccezione.

Non è però possibile rimettere in discussione in questa sede l’entità delle riserve di cui si discute, nè il modo del loro reale utilizzo ed il rapporto quantitativo tra esse e le azioni, proprie cui si riferisce l’impugnata delibera assembleare, trattandosi di profili di fatto, accertati in modo preciso nel giudizio di merito e non suscettibili di essere rivisti dal giudice di legittimità se non a patto di un non ammissibile riesame diretto delle risultanze istruttorie.

La questione decisiva resta, allora, unicamente quella di stabilire se fosse o meno disponibile, per essere utilizzata nell’acquisto di azioni proprie a norma del citato art. 2357, comma 1, la riserva da sopraprezzo iscritta nell’ultimo bilancio approvato, avendo nel frattempo la cooperativa assunto la veste di società per azioni.

A tale domanda la risposta non può che essere positiva.

Già prima della riforma del diritto societario attuata nel 2003 era opinione della prevalente dottrina che, nelle società cooperative, non essendo previsto un tetto massimo per la riserva legale, la riserva costituita dal sovrapprezzo di azioni fosse indisponibile, e quindi non utilizzabile per l’eventuale acquisto di azioni proprie della società. Una volta, però, che la cooperativa abbia dismesso questa veste per assumere quella di società per azioni, e che siano divenute quindi ad essa applicabili le disposizioni vigenti per quest’ultimo tipo sociale, mentre la riserva non cessa di esistere nel patrimonio dell’ente, viene meno la ragione d’indisponibilità strettamente legata al vigore di disposizioni riferibili alle sole società cooperative e si rendono invece applicabili le norme in tema di società azionaria, nel cui ambito le riserve da sovrapprezzo sono disponibili quando ricorra la condizione richiesta dall’art. 2431 c.c..

L’obiezione secondo la quale il riferimento dell’art. 357, comma 1, alle “riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio” implicherebbe che anche l’indicato requisito della disponibilità delle riserve debba sussistere alla data di chiusura di detto bilancio, non rilevando le eventuali vicende societarie successive (se non risultanti dall’approvazione di un eventuale ulteriore bilancio) non appare persuasiva.

La ratio della norma risiede nella tutela del capitale sociale, per impedire che l’acquisto delle azioni proprie della società mascheri un’indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale formato da detti conferimenti) o che siano intaccate riserve non utilizzabili in quanto destinate (per legge o per statuto) a preservare la solidità patrimoniale dell’ente o, comunque, a scopi diversi. Ciò che necessita è perciò, in primo luogo, che le riserve da utilizzare per l’acquisto delle azioni effettivamente sussistano ed, in secondo luogo, che siano legittimamente adoperabili a questo fine.

Il riferimento del legislatore alle risultanze dell’ultimo bilancio approvato attiene, evidentemente, alla prima di siffatte condizioni, ma non anche alla seconda. E’ dal bilancio che si può ricavare l’attestazione dell’esistenza della riserva patrimoniale di cui si tratta (ferma ovviamente la responsabilità degli amministratori nel verificare che la riserva non sia medio tempore venuta meno): perchè la funzione del bilancio è appunto quella di dar conto dell’esistenza di valori patrimoniali classificati in base al sistema di contabilità aziendale; non, invece, di determinare se e quale regime debba trovare applicazione per detti valori e per le poste che contabilmente li rappresentano.

Non è infatti il bilancio, bensì direttamente la legge, che disciplina la disponibilità della riserva da sovrapprezzo, il cui regime, sotto questo profilo, non muterebbe di certo sol perchè eventualmente nel bilancio medesimo essa fosse stata erroneamente classificata disponibile, se tale non era, o viceversa.

Acclarato, perciò, che la riserva da sovrapprezzo esisteva, ne consegue che la possibilità di adoperarla per acquistare azioni proprie correttamente è stata vagliata in base alle disposizioni applicabili, all’atto della deliberazione di acquisto di siffatte azioni, avuto riguardo al tipo di società che quella deliberazione ha assunto.

2. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso riguardano, sotto differenti profili, una diversa questione: se la più volte menzionata deliberazione assembleare di autorizzazione all’acquisto di azioni proprie sia stata o meno rispettosa del disposto del medesimo art. 2357, comma 3.

Tale norma, nella formulazione vigente al tempo dei fatti di causa (prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 142 del 2008), circoscriveva la possibilità di acquistare azioni proprie da parte di qualsiasi società entro un limite di valore non eccedente la decima parte del capitale sociale, comprendendo nel computo anche le azioni possedute tramite società controllate.

2.1. Il tribunale, prima, e la corte d’appello, poi, hanno reputato che neppure tale disposizione sia stata violata nel caso in esame, dovendosi tener conto dell’ammontare del capitale sociale risultante all’esito di un aumento deliberato alcun tempo prima dall’assemblea straordinaria della società.

2.1.1. Il ricorrente contesta questa conclusione, denunciando svariati errori di diritto sostanziale e processuale, nonchè vizi di motivazione dell’impugnata sentenza, anzitutto perchè, a suo parere, il limite quantitativo posto dalla norma alla possibilità di acquisto di azioni proprie andrebbe individuato unicamente nel capitale indicato dall’ultimo bilancio, che nel caso in esame era quello chiuso al 31 dicembre 1995. Avrebbe perciò errato la corte d’appello nel prendere invece in considerazione il capitale risultante a seguito della deliberazione di aumento assunta dall’assemblea il 6 marzo 1996. Per poter tenere conto di siffatto aumento di capitale, sarebbe stato almeno necessario presentare all’assemblea una situazione patrimoniale aggiornata, o comunque mettere i soci in condizione di verificare l’avvenuta sottoscrizione del capitale aumentato, non potendo un simile accertamento aver luogo solo successivamente, in sede giudiziaria. Nè sarebbe fondato, sempre a parere del ricorrente, il rilievo della corte d’appello in ordine all’inammissibilità di quest’ultima eccezione, sollevata per la prima volta in secondo grado, trattandosi anche in questo caso di una mera argomentazione difensiva, del resto già insita nelle difese formulate dinanzi al tribunale.

2.1.2. In ogni caso, sostiene ancora il ricorrente, per poter ampliare il limite entro cui alla società era consentito acquistare azioni proprie, sarebbe occorso che l’aumento di capitale deliberato il 6 marzo 1996 fosse stato anche sottoscritto (se non addirittura versato) e, contrariamente a quanto affermato dalla corte d’appello, ciò non è stato idoneamente provato in giudizio dalla Banca di Todi, poichè la relativa documentazione era contenuta nel fascicolo di parte di detta banca, che lo aveva ritirato e poi ridepositato prima che la causa fosse posta in decisione dinanzi al tribunale; ma questo deposito era stato tardivo, siccome effettuato dopo lo scadere del termine per la presentazione delle comparse conclusionali indicato dall’art. 169 c.p.c., comma 2. Nè sarebbe da condividere la contraria opinione manifestata dalla corte d’appello secondo cui, nel regime successivo alla novella processuale del 1990, il deposito del fascicolo di parte in precedenza ritirato può aver luogo fino a quattro giorni prima della scadenza del termine per le memorie di replica, in coerenza con quanto stabilisce l’art. 111 disp. att., comma 1. E neppure avrebbe fondamento l’ulteriore affermazione della stessa corte che ha ritenuto comunque non rilevante l’eventuale violazione del predetto termine, in quanto non disposto a tutela del diritto di difesa della controparte.

2.1.3. Il ricorrente sostiene, poi, che non si sarebbe potuto tener conto del suindicato aumento di capitale anche perchè la relativa deliberazione assembleare è da considerare nulla (o giuridicamente inesistente); e contesta che fosse generico il motivo di gravame da lui formulato sul punto, avendo egli invece ben evidenziato le ragioni dell’eccepita invalidità del menzionato aumento di capitale.

Invalidità derivante dal fatto che quell’aumento era stato adottato con la medesima deliberazione con cui la società cooperativa era stata trasformata in società per azioni: il che avrebbe reso necessario procedere a due distinte deliberazioni, essendo ormai la seconda soggetta alle differenti regole di votazione proprie della società azionaria.

Osserva ancora il ricorrente che, ove si volesse invece condividere l’opinione del tribunale e della corte d’appello secondo cui l’aumento di capitale era stato deliberato dalla società quando questa aveva ancora la forma giuridica di una cooperativa, non si potrebbe sfuggire al rilievo che il quorum deliberativo in tal caso richiesto dalla legge, commisurato al numero dei soci e non all’entità del capitale da ciascuno di essi sottoscritto, non risultava essere stato conseguito. Ed a questo rilievo, contrariamente a quanto affermato nell’impugnata sentenza, il tribunale aveva dato risposta, sia pure erroneamente, e l’appellante se ne era doluto: sicchè la corte d’appello avrebbe dovuto farsi carico della questione ed avrebbe dovuto dare atto della nullità o dell’inesistenza del deliberato aumento del capitale, derivanti anche dall’indebita esclusione del diritto di opzione, pure del quale l’appellante si era tempestivamente lagnato.

2.2. Esaminando in ordine le diverse doglianze cui s’è fatto cenno, è necessario anzitutto confermare l’esattezza del principio di diritto enunciato dalla corte d’appello, secondo cui, nel valutare se un acquisto di azioni proprie sia stato deliberato nel rispetto del limite fissato dall’art. 2357 c.c., comma 3, occorre tener conto anche dell’eventuale aumento di capitale deliberato e sottoscritto successivamente all’ultimo bilancio d’esercizio approvato, senza che sia a tal fine necessario procedere all’approvazione di un ulteriore bilancio.

Inducono a tale conclusione argomenti sia di ordine testuale sia di ordine logico.

Sul piano testuale è agevole constatare come il citato dell’art. 2357, comma 3, si limiti a richiedere che il valore delle azioni proprie acquistate dalla società non ecceda il dieci per cento del capitale ma, a differenza del comma 1, non faccia alcuna menzione dell’ultimo bilancio approvato.

Sul piano logico è da considerare che tale prescrizione, diversamente dall’altra cui sopra s’è fatto cenno, non appare dettata dall’intento di salvaguardare l’integrità del capitale sociale, bensì dallo scopo d’impedire un eccessivo accumulo di potere nelle mani dell’organo amministrativo della società e la possibilità che ciò influenzi indebitamente il mercato delle azioni ed eventualmente anche la futura composizione dell’azionariato. Quel che conta, a tal fine, è perciò la misura attuale del capitale e delle azioni in circolazione, con cui occorre confrontare il numero delle azioni proprie acquistate dalla società, e non quale fosse la misura del medesimo capitale in un momento precedente, indipendentemente da quando l’ultimo bilancio sia stato approvato.

2.2.1. Naturalmente, per le medesime ragioni, il capitale cui si deve fare riferimento non è quello meramente deliberato, bensì quello effettivamente sottoscritto, cui corrisponde il numero delle azioni emesse dalla società.

Nel caso in esame, come s’è accennato, il capitale al quale la corte di merito ha fatto riferimento, nel giudicare del non superamento dei limiti posti dal citato art. 2357, comma 3, è, appunto, quello sottoscritto. Nè ha fondamento l’obiezione del ricorrente, secondo cui la prova della sottoscrizione di detto capitale non sarebbe stata ritualmente acquisita, perchè il fascicolo di parte che la conteneva era stato prima ritirato e poi solo tardivamente ridepositato nella cancelleria del giudice di primo grado. Se anche le cose stessero in questo modo, occorrerebbe considerare che quel medesimo fascicolo di parte, con i documenti dai quali la corte di merito ha tratto il proprio motivato convincimento in ordine all’avvenuta sottoscrizione del capitale nell’indicata misura, è stato incontrovertibilmente di nuovo depositato in secondo grado. Tanto basta a rendere utilizzabili i summenzionati documenti, non ostandovi il divieto di nuove prove in appello: appunto perchè non di documenti nuovi si è trattato, bensì di documenti già a suo tempo ritualmente prodotti dinanzi al tribunale ed offerti all’esame dell’attore quando il fascicolo di parte convenuta è stato per la prima volta tempestivamente depositato nella cancelleria del tribunale.

Accertato, allora, in punto di fatto, che furono acquistate azioni proprie in misura non eccedente il limite del dieci per cento del capitale sociale sottoscritto, nessuna contrarietà alla legge o allo statuto è dato ravvisare, sotto questo profilo, nella deliberazione assembleare che quell’acquisto aveva autorizzato, non sussistendo alcuna prescrizione che imponga di fornire seduta stante ai soci una specifica informazione sull’avvenuta sottoscrizione del capitale aumentato (verificabile in qualsiasi momento, da chiunque, a seguito dell’iscrizione nel registro delle imprese disposta ai sensi dell’art. 2444 c.c., comma 1).

2.2.2. Non ha pregio neppure l’assunto secondo il quale del riferito aumento di capitale non si sarebbe potuto comunque tener conto perchè frutto di una deliberazione assembleare invalida.

Occorre a tal proposito osservare – ed è rilievo puntualmente sollevato dal Procuratore generale nella discussione in pubblica udienza, assorbente anche rispetto alle diverse considerazioni svolte sul punto nell’impugnata sentenza – che nessuno dei vizi dai quali il ricorrente afferma che la menzionata deliberazione di aumento del capitale sarebbe affetta è tale da determinarne la nullità, e tanto meno l’inesistenza giuridica.

E’ ben noto che, in tema di deliberazioni assembleari di società per azioni, il regime dell’invalidità differisce da quello previsto in generale per gli atti negoziali, giacchè, a norma dell’art. 2377 c.c., la contrarietà della deliberazione a prescrizioni di legge imperative o a disposizioni dello statuto sociale ne comporta la mera annullabilità, laddove è solo in presenza di una delle situazioni tassativamente indicate dal successivo art. 2379 che la deliberazione può essere considerata radicalmente nulla.

Ciò consente, anzitutto, di escludere subito che possa parlarsi di nullità della delibera di aumento del capitale sociale per pretesa violazione del diritto di opzione spettante ai soci, giacchè tale diritto è tutelato dalla legge solo in funzione dell’interesse individuale dei soci ed il contrasto con norme, anche cogenti, rivolte alla tutela dell’interesse dei singoli soci determina un’ipotesi di semplice annullabilità, laddove la nullità delle deliberazioni dell’assemblea delle società per azioni per illiceità dell’oggetto, ai sensi dell’art. 2379 c.c., (anche nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 6 del 2003), ricorre solo in caso di contrasto con norme dettate a tutela dell’interesse generale, tale da trascendere quello del singolo socio (cfr., da ultimo, Cass. 7 novembre 2008, n. 26842).

Non diversamente è a dirsi anche per gli ulteriori vizi della deliberazione denunciati dal ricorrente, che ugualmente non mettono capo ad un’ipotesi di oggetto illecito, tale evidentemente non potendosi considerare nè la trasformazione della cooperativa in società per azioni (consentita alle banche popolari già all’epoca dei fatti di causa) nè l’aumento del capitale sociale.

E’ altresì da escludere che i denunciati vizi della deliberazione di aumento del capitale sociale evidenzino deviazioni così radicali dal modello legale da configurare un’ipotesi d’inesistenza giuridica della deliberazione stessa: la quale, a quanto risulta, è stata assunta da un’assemblea ritualmente convocata, il cui andamento è stato normalmente verbalizzato, e che si è svolta senza particolari anomalie, salvo ad essersi conclusa con una votazione contestuale vertente tanto sulla proposta di trasformazione sociale che su quella di aumento del capitale.

I vizi che in ciò ravvisa il ricorrente si riducono, a ben vedere, ad un’asserita anomalia del procedimento di votazione ed alla non corretta modalità di computo delle maggioranze occorrenti per l’approvazione della proposta di aumento del capitale sociale. Ma, se anche si volessero considerare esistenti tali anomalie, non se ne potrebbe dedurre altro se non che il procedimento di votazione e le modalità di calcolo del quorum deliberativo non sono risultati conformi alla legge. Non ignora il collegio che, in tempi peraltro assai risalenti, questa corte ha parlato d’inesistenza della deliberazione assunta in difetto della maggioranza richiesta dall’atto costitutivo della società (Cass. 13 gennaio 1987, n. 133);

ma un siffatta affermazione, che dovrebbe ovviamente a maggior ragione valere per il difetto di quorum deliberativo prescritto dalla legge, anche alla luce degli orientamenti espressi da autorevole dottrina non può essere qui confermata, o almeno non in termini assoluti e generali.

Neppure nel contesto normativo anteriore alla suaccennata riforma del 2003 (con la quale il legislatore ha chiaramente manifestato l’intento di togliere spazio alla figura giurisprudenziale dell’inesistenza giuridica delle deliberazioni societarie) si sarebbe potuto sostenere che una deliberazione adottata in difformità dalle disposizioni di legge o dello statuto in materia di quorum deliberativi non abbia i lineamenti essenziali richiesti per integrare il modello legale di una decisione assunta dai soci della società in ordine alle proposte riportate nell’ordine del giorno dell’assemblea. Una siffatta deliberazione, proveniente da un’assemblea formata da soggetti legittimati ad assumerla e conclusasi con la proclamazione del risultato, è certamente un atto giuridico venuto ad esistenza. Nè vi osta il fatto che si sia proceduto ad un’unica votazione per una pluralità di oggetti, volta che risulti comunque possibile riferire l’esito della votazione medesima a ciascuno di essi.

La deliberazione è stata assunta e l’esito ne è stato proclamato e reso pubblico. L’eventuale errore nel computo dei voti, se fosse effetto di una mera svista, non potrebbe logicamente produrre conseguenze maggiori di quanto accade per l’errore ostativo in ambito negoziale; se invece – come si sostiene essere avvenuto nella fattispecie in esame – si fosse in presenza di un’errata valutazione circa le modalità di calcolo del quorum, operato secondo regole diverse da quelle legali o statutarie, ciò non potrebbe che tradursi in una non conformità alla legge (nella parte in cui questa dispone, appunto, in ordine alle suddette modalità di calcolo); ma in nessun caso potrebbe condurre a conseguenze più radicali, come quelle dell’ipotizzata inesistenza della deliberazione proclamata, palesemente contrarie alle fondamentali esigenze di certezza e di affidamento che ispirano (ed ispiravano anche nel regime anteriore alla cennata riforma societaria) la disciplina dell’art. 2377 c.c. e segg..

Si tratta, quindi, di una deliberazione semmai, annullabile, la cui stabilità ed i cui effetti non possono perciò essere messi in discussione ove, entro il termine di decadenza fissato dal citato art. 2311, nessuno dei soggetti a ciò legittimati abbia proposto azione di annullamento.

Stando così le cose, ed avendo il ricorrente sollevato solo in una memoria depositata il 30 ottobre 1997 (si veda il ricorso, pag. 9) la questione dell’invalidità della delibera di aumento del capitale sociale assunta dall’assemblea il 6 marzo 1996, è evidente che le asserite ragioni d’invalidità di detta deliberazione sono state dedotte quando erano ormai precluse.

3. L’ultimo motivo di ricorso sposta l’attenzione su un tema del tutto diverso: l’asserita invalidità per eccesso di potere della delibera assembleare che ha autorizzato gli amministratori della Banca di Todi ad acquistare azioni proprie.

3.1. Avendo tanto il tribunale quanto la corte d’appello escluso che una tale ragione d’invalidità fosse stata dimostrata in causa, il ricorrente si duole che il giudice del gravame non abbia preso in considerazione alcune specifiche censure da lui rivolte alla sentenza di primo grado, nè abbia inteso il senso delle argomentazioni con le quali era stato posto in evidenza l’abuso consumato dal socio di maggioranza al fine di trasformare il proprio controllo di fatto in un pieno controllo di diritto della società.

3.2. Neppure tale motivo di ricorso può essere accolto.

Premesso che nel giudizio di merito è stata fatta corretta applicazione del principio di diritto, sovente enunciato da questa corte, secondo cui l’abuso o eccesso di potere può costituire motivo di invalidità della delibera assembleare soltanto quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto (cfr., ex multis, Cass. 17 luglio 2007, n. 15950), l’unica questione decisiva consisteva – e consiste – nello stabilire se l’attore, sul quale grava il relativo onere, abbia fornito o meno la prova dell’abuso.

A questa domanda il tribunale ha dato risposta negativa e la corte territoriale ha poi ritenuto che i rilievi formulati dall’appellante non fossero idonei a scalfire la prima decisione.

Poco giova, in questa sede, soffermarsi a discutere in dettaglio sulle singole argomentazioni che il ricorrente asserisce di aver prospettato nell’atto di gravame e delle quali la corte d’appello non avrebbe tenuto conto. Ciò potrebbe aver rilievo, al fine di dimostrare l’esistenza di un vizio di motivazione dell’impugnata sentenza, solo a condizione che fosse possibile attribuire ad una o più specifiche e ben determinate circostanze, pretermesse dalla corte di merito, una valenza logica decisiva: tale, cioè, da far ipotizzare che, se di quelle circostanze detta corte si fosse invece fatta carico, la conclusione del giudizio sarebbe risultata diversa.

Ma l’esposizione del ricorso non consente di esprimere una siffatta valutazione. A fronte di una conclusione negativa circa l’assolvimento dell’onere della prova che, come riferisce la controricorrente, era stata tratta all’esito di un’istruttoria sviluppatasi in primo grado anche attraverso l’esame di testimoni, il ricorrente adduce l’esistenza di elementi indiziar dai quali, a suo dire, dovrebbe scaturire la conclusione opposta. Per poter avallare una simile opinione occorrerebbe, però, non solo poter esaminare direttamente ed in modo completo i documenti cui lo stesso ricorrente allude, ma anche confrontare quanto da essi emergesse con le risultanze della suindicata prova testimoniale; occorrerebbe, cioè, procedere ad una vera e propria rivisitazione integrale dell’intero materiale istruttorio acquisito in causa. Ma questo significherebbe reiterare il giudizio di merito e ciò esula dalla competenza di questa corte di legittimità.

4. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2011

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