Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13603 del 21/06/2011

Cassazione civile sez. III, 21/06/2011, (ud. 10/05/2011, dep. 21/06/2011), n.13603

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. UCCELLA Fulvio – rel. Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. LEVI Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.L. (OMISSIS), quale unica erede, accentante con

beneficio di inventario l’eredità della madre M.P.,

elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA AUGUSTO IMPERATORE 22,

presso lo studio dell’avvocato POTTINO GUIDO MARIA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ZAULI CARLO giusta

delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

ASSICURAZIONI GENERALI SPA (OMISSIS), in persona dei suoi

procuratori speciali Avv. T.G. e Dott. M.

B., elettivamente domiciliata in ROMA, V.CICERONE 49, presso

lo studio dell’avvocato BERNARDINI SVEVA, rappresentata e difesa

dall’avvocato VACCARI ANGELA giusta delega a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 318/2009 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

Sezione 2 Civile, emessa il 13/11/2007, depositata il 09/03/2009;

R.G.N. 895/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2011 dal Consigliere Dott. FULVIO UCCELLA;

udito l’Avvocato CUCCIA ANDREA (per delega dell’Avvocato POTTINO

GUIDO MARIA);

udito l’Avvocato PRASTARO ERMANNO (per delega dell’Avvocato VACCARI

ANGELA);

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso si rimette in merito alla

decisione dell’udienza di riunione, nel merito il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il 28 marzo 2003 il Tribunale di Forlì, in accoglimento della domanda proposta da M.P. madre di G.S., che aveva stipulato con le Assicurazioni Generali s.p.a. un contratto di assicurazione sulla vita il 14 settembre 1999 e che fu trovato cadavere in data 7 luglio luglio 2000, a seguito di asfissia per annegamento, come accertato tramite autopsia disposta dalla Procura della Repubblica di Ravenna, condannava la Compagnia assicuratrice a corrispondere all’attrice la somma di Euro 103.291,39 oltre spese di lite.

Su gravame della Compagnia la Corte di appello di Bologna riformava integralmente il 9 marzo 2009 la sentenza del Tribunale.

Avverso siffatta decisione propone ricorso per cassazione L. G., quale unica erede della M., nelle more deceduta, affidandosi a quattordici motivi.

Resistono con controricorso le Assicurazioni generali s.p.a..

La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso propone due ordini di motivi.

Dal 9^ al 13^ si snoda sotto profili in cui si ancorano le doglianze alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 47 della Carta di Nizza e alle decisioni delle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo, e nei motivi 12^ e 13^ si richiede il rinvio pregiudiziale ex art. 234 TUE. Dal 1^ al 14^ il ricorso si incentra su asserite violazioni del diritto interno applicabile nel caso in esame.

1. – Osserva il Collegio che per priorità logico-giuridica va esaminato preliminarmente il dodicesimo motivo del ricorso, con cui la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e art. 47 della Carta di Nizza, nonchè dell’art. 161 c.p.c., ovvero, in estrema sintesi, che il giudice dell’appello nella sua composizione collegiale non sarebbe stato giudice imparziale, quale si rinviene dalla interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, in quanto uno dei suoi componenti il dr. C. aveva già partecipato ad altro Collegio in cui si controverteva dell’indennizzo di altra polizza-vita, contratta con altra società assicuratrice dallo stesso G..

Al riguardo – ed è incontroverso tra le parti – va posto in rilievo che il dr. C. ha partecipato ad un altro giudizio in sede di appello e relativo ad una controversia tra gli eredi di G.S. e la Unipol s.p.a. circa il richiesto indennizzo di cui ad una polizza stipulata con detta compagnia dal G.S..

Ciò posto, è evidente che, pur nella diversità dei contratti assicurativi, il componente del collegio, la cui sentenza è soggetta a ricorso, venne a conoscere dello stesso fatto, ovvero della malattia del G., della sua consapevolezza e della sua buona o mala fede nel rendere le dichiarazioni richieste dalla Compagnia al momento della stipula.

In tale fase del giudizio venivano in rilievo le medesime applicazioni delle norme di diritto per così dire sostanziali, di cui nel presente ricorso si assume la violazione e/o la falsa applicazione.

Questa circostanza può ritenersi pacifica perchè non contraddetta nel controricorso, ove , invece, la resistente fa presente che le deduzioni della ricorrente “mancano di ogni supporto probatorio, in quanto la Generali non conosce altro giudizio oltre il presente” (v.

p. 6 controricorso). Si tratta di una deduzione ovvia, atteso che il giudizio si svolgeva e si è svolto tra i G. e la Unipol, ma che non scalfisce affatto il contenuto della censura. Pertanto, mentre non rileva la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (v. Affare Castillo Algar c. Spagna, ric. n. 28194/95, sent. 28 ottobre 1998), in quanto in quella decisione la violazione dell’art. 6 comma 1 CEDU riguardava due giudici che avevano partecipato sia in primo che in secondo grado al giudizio a carico di un soggetto-par.46 in motivazione, il dr. C. avrebbe potuto avvalersi della facoltà di cui all’art. 51 c.p.c., u.c. per cui non aveva l’obbligo di astenersi.

Peraltro, nella sentenza CEDU sopra richiamata la Corte di Strasburgo sottolinea che ai fini dell’art. 6, comma 1, l’imparzialità deve essere valutata sia in base ad un approccio soggettivo, tendente a provare la convinzione personale del giudice in tale occasione, sia in base ad un approccio oggettivo, tendente a dimostrare che offra le garanzie sufficienti per escludere ogni legittimo dubbio al riguardo (sent. Incal c/o Turchia del 9 giugno 1998, par. 65).

Per quanto concerne l’approccio soggettivo la Corte ricordava che la imparzialità del giudice si presume fino a prova contraria, per cui nonostante l’affermazione della ricorrente ritiene il Collegio che, data la fattispecie, non si rinvengano elementi che provino che il dr. C. abbia partecipato al collegio di appello con personale pregiudizio, pur avendo egli partecipato ad altro collegio in cui si dibattevano, tra l’altro, le stesse questioni.

Sotto il profilo della valutazione oggettiva, che secondo il pensiero della Corte di Strasburgo consiste nel domandare se, indipendentemente dalla condotta personale del giudice, taluni fatti accertati autorizzino a dubitare della imparzialità di quest’ultimo, perchè in questa materia anche le apparenze possono rivestire importanza, osserva il Collegio che l’elemento determinante consiste nel sapere se i timori dell’interessata possano essere oggettivairtente giustificati (v. sent. Hauschildt c/o Danimarca del 24 maggio 1989, par. 50 in motivazione). Ed in questo caso non lo sono atteso che il collegio di appello era diverso negli altri due componenti, per cui non si sa quanto determinante sia stato il contributo del dr. C. alla decisione, imputabile ad altro collegio, nè la ricorrente allega un minimo indizio a fondamento dei suoi timori, per cui resta in piedi la presunzione di imparzialità del magistrato, come, peraltro, si evince da S.U. n. 12345/01.

Quindi, non si può convenire con la ricorrente allorchè ella asserisce che non vi sia stata la cd. imparzialità oggettiva, per cui la censura va disattesa sia dal punto di vista del diritto meramente interno che dal punto di vista del diritto internazionale ” convenzionale” o di genesi “comunitaria”.

Infatti, la normativa interna, che esclude la ipotesi di ricusazione nei casi in cui il giudice in presenza di gravi ragioni di convenienza non abbia chiesto al capo dell’ufficio la relativa autorizzazione non contrasta con la normativa ” convenzionale” e quella comunitaria, in parte qua, nel senso che la normativa processuale al riguardo risulta pienamente corrispondente alla tutela minimale del diritto ad un giusto processo previsto dall’art. 6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dall’art. 6 par. 1 del TUE e dall’art. 47 della Carta di Nizza.

Di vero, anche in virtù dell’art. 111 Cost., comma 1, il diritto processuale interno tutela in modo inequivoco il diritto della persona ad avere un giudice imparziale. In virtù di esso, il soggetto coinvolto in una vicenda giudiziaria, allorchè ritiene che soggettivamente od oggettivamente si trovi di fronte ad un giudice non imparziale, può proporne la ricusazione mediante ricorso contenente i motivi specifici e i mezzi di prova (art. 52 c.p.c., comma 1), depositando apposito ricorso in cancelleria due giorni prima dell’udienza, se al ricorrente è noto il nome del giudice, chiamato a trattare o decidere la causa, e prima dell’udienza di trattazione o di discussione di questa nel caso contrario.

La tassatività dei casi di cui all’art. 51 c.p.c., tenuto conto della interpretazione che sul punto ha dato la CEDU, non è, quindi, incompatibile con la norma convenzionale interposta, anche in considerazione del fatto che la parte, nella specie, non si è attivata nei confronti dello iudex suspectus, con gli strumenti a sua disposizione, atteso che, come ha statuito la Corte costituzionale con sent. 387/99, il processo civile presenta una sua peculiarità perchè fondato sull’impulso paritario delle armi.

Quindi, non si rinviene alcuna nullità denunciabile ex art. 158 c.p.c. perchè la mancata istanza di ricusazione, di cui all’art. 51 nei commi diversi da quello di cui al comma 1 non determina la nullità del provvedimento decisionale (v. S.U. n. 10071/11, anche se in tema di giudizio disciplinare). In altri termini, le norme di origine meramente interna, che attengono alla astensione del giudice e alla sua ricusazione non stridono con l’art. 6 n. 1 della Convenzione europea nè con l’art. 47 della Carta di Nizza, ma, in virtù dell’art. 111, comma 1 hanno ricevuto un rafforzamento costituzionale, caratterizzato dalla ricezione materiale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) nella sua espansione e rilevanza internazionale al punto che le rendono pienamente compatibili con la tutela a livello europeo del diritto fondamentale ad un processo equo.

Peraltro, anche sotto il “profilo comunitario” la censura, là dove si concreta nella richiesta di un rinvio pregiudiziale ex art. 234 TUE, (la stessa richiesta è a conclusione del motivo decimo e del motivo tredicesimo) non coglie nel segno. E valga il vero.

Sotto il profilo “internazionale-convenzionale” la censura si concreta nella denuncia della violazione del diritto fondamentale di essere giudicato da un giudice imparziale, per cui essa avrebbe dovuto parametrarsi a quel diritto così come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Ma, anche a voler ritenere corretto il riferimento al “diritto comunitario” di cui parte integrante è la Carta di Nizza e, quindi, costituente la stessa un vincolo interpretativo per il giudice italiano (sul punto è solo opportuno aggiungere che la dottrina sembra divisa sulla generalità di tale vincolo) occorre pur sempre precisare che l’obbligo del rinvio pregiudiziale imposto dall’art. 234, u.c. TUE non è automatico.

In altri termini, questa Corte deve preliminarmente procedere alla delibazione dell’istanza, motivandone il rigetto o l’accoglimento, avendo presenti i paradigmi del Trattato, della Costituzione al fine di attuare una valutazione della questione nel quadro ordinamentale complessivo in cui la stessa si pone.

Detta valutazione va effettuata nella prospettiva di riconoscere al diritto interno, che si assuma eccentrico rispetto al diritto consacrato nel Trattato UE e all’annessa Carta di Nizza e alla Convenzione europea, in esso Trattato richiamata, la sua conformità a quel diritto. Solo se attraverso l’attività ermeneutica il giudice di ultima istanza dovesse rilevare la impossibilità di ritenere la norma processuale interna conforme al sistema sovranazionale, solo allora scatta per questo giudice l’obbligo del rinvio pregiudiziale.

Il che trova autorevole conferma ex adverso nella interpretazione della Corte di Lussemburgo allorchè ha avuto modo di statuire che nei giudizi tra le parti la verifica della disapplicazione o meno della norma interna non deve avvenire dopo che sia stato effettuato un rinvio pregiudiziale, perchè compete in via esclusiva al giudice nazionale di assicurare la protezione giuridica ai casi derivanti dalle disposizioni del diritto dell’Unione e di garantirne la efficacia nel diritto interno, attraverso, comunque, il rispetto delle norme procedurali interne (Grande Chambre, 19 gennaio 2010, in Affare Kuciikdeveci in C.-555/07, sent. n. 19 gennaio 2010).

Del resto, osserva il Collegio che, la stessa Corte di Lussemburgo già ebbe modo di affermare che la definizione degli aspetti processuali attinenti all’esercizio in giudizio del diritto dell’Unione, come nella specie si pone in risalto da parte della ricorrente, ovvero l’effettivo esercizio del diritto a comparire avanti ad un giudice imparziale spetta all’ordinamento nazionale nel cui ambito la norma dell’Unione è azionata (Affare Revve, sent.16 dicembre 1976 in C.-33/76, in Racc. I, p.1989). In questa decisione la Corte di Lussemburgo ebbe a stabilire che in mancanza di una specifica disciplina comunitaria è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro a designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dell’azione giudiziale intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta. E’ questo il principio noto come principio dell’autonomia processuale degli Stati membri ( Seconda Sezione, Affare Olimpiclub, sent.3 settembre 2009 in C.-2/08, in Racc.2009, I-p.7501).ed è condizionato da quello della equivalenza, nel senso che le modalità definite dal diritto nazionale per l’esercizio di posizioni che derivano dal diritto dell’Unione non possono essere meno favorevoli di quelle applicate per la protezione in via giudiziale di posizioni analoghe di origine interna, nonchè dal principio dell’effettività, nel senso che le modalità non possono essere tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti derivanti da norme dell’Unione.

I due principi condizionanti sono cumulativi ed esprimono il primo la manifestazione del principio generale di non discriminazione e il secondo si ricollega al diritto fondamentale ad una tutela giurisdizionale effettiva. Ed inoltre, come considerazione, ad avviso del Collegio, dirimente per disattendere la censura, va detto che una delle funzioni del rinvio pregiudiziale di interpretazione è quella di verificare la legittimità di una legge nazionale o di un atto amministrativo o di una prassi amministrativa rispetto al diritto comunitario e non già di ottenere un parere dal giudice comunitario su questioni generali ed ipotetiche, bensì di risolvere una controversia effettiva ed attuale, ritenendo la questione ad essa connessa rilevante proprio per la risoluzione del caso da parte del giudice nazionale.

Infatti, la stessa Corte di Lussemburgo si è rifiutata di rispondere al quesito pregiudiziale perchè nel frattempo era risultata risolta la controversia principale ( Affare Djaboli, sent.12 marzo 1998, in C.-314/96, in Raccolta I, p.1149, par.17-20) ed ha escluso il potere di pronunciarsi in presenza di questioni puramente ipotetiche (Affare Meilicke, sent. 16 luglio 1992, in C.-83/91, in Raccolta 1^, p. 4871), analogamente a quanto ritiene, come è noto, la Corte costituzionale italiana nei casi in cui viene sollevata una questione di legittimità costituzionale nei giudizi incidentali.

Nel caso in esame, quindi, il rinvio richiesto non può essere disposto:

a) perchè la normativa processuale interna è conforme ai principi comunitari, nella parte in cui essi comprendono i diritti fondamentali quali esplicitati dalla funzione nomofilattica della Corte di Strasburgo;

b) perchè la questione viene risolta dal Collegio seguendo un percorso ermeneutico attento alla prospettiva della norma convenzionale europea e all’art. 111 Cost., comma 1;

c) perchè la richiesta del rinvio, anche per la sua formulazione espositiva, porta a ritenere che si dovrebbe investire la Corte di Lussemburgo per ottenerne un parere; In altri termini, una volta acclarato che la normativa di origine interna è pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali individuati nella sua evoluzione giurisprudenziale dalla Corte di Strasburgo e recepiti nel TUE sia all’art. 6 par. 1 e 2 che con la Carta di Nizza, che pur costituiscono parametri di valutazione da utilizzare ancor più per far progredire il processo di consolidamento e di sviluppo dell’integrazione con l’affermazione della tutela del diritto ad un sindacato giurisdizionale (art. 47 Carta di Nizza), il giudice cui è sottoposta la controversia non è tenuto a disporre il rinvio pregiudiziale, anche se esso è richiesto dalla parte, qualora il punto controverso sia stato risolto nel senso previsto e voluto dal Trattato UE, ovvero nella accertata tutela del diritto al processo, asseritamente violato dalla normativa interna.

La relativa decisione del giudice interno, strettamente attinente al paradigma dei valori della persona, preclude allo stesso di disporre il rinvio in quanto la risposta che potrebbe dare il giudice comunitario non è, per l’effetto, ritenuta indispensabile per risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente, dopo aver confrontato la norma invocata con i principi che ispirano il diritto comunitario.

Nè, per le considerazioni innanzi svolte, il Collegio ritiene che possa parlarsi di questione di legittimità costituzionale della norma “interposta” ( la disposizione di cui all’art. 6 par. 1 Convenzione europea) in relazione al nostro sistema.

Queste considerazioni valgono anche per le censure di cui ai motivi decimo, undicesimo e tredicesimo al termine dei quali si richiede, per l’appunto, un rinvio pregiudiziale e di cui si tratterà in prosieguo.

2.-Ciò posto, con il primo motivo la ricorrente denuncia la motivazione contraddittoria circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

Lamenta la ricorrente che il giudice dell’appello avrebbe attribuito rilevanza probatoria ad un elemento emerso in causa (supposto suicidio risalente nel tempo) quale sotteso alle risultanze istruttorie dell’autopsia (annegamento per asfissia polmonare), senza che ciò fosse supportato da alcun accertamento o testimonianza raccolta in sede di indagini preliminari.

Al riguardo, va posto in rilievo quanto segue.

In punto di fatto, il G. fu trovato cadavere il (OMISSIS), in stato di decomposizione, presso la località nota come (OMISSIS), dopo che il 2 luglio 2000 si era allontanato di casa e lo stesso giorno si era incontrato con un suo amico sul litorale marittimo di (OMISSIS).

La sera non tornò a casa e furono avvertiti i Carabinieri di Cesenatico, che rinvennero la vettura di proprietà del G. chiusa a chiave di fronte al bagno (OMISSIS) e le chiavi erano nello zainetto collocato dal G. sulla battigia.

La Procura della Repubblica dispose l’autopsia, da cui si accertò che il G. era morto per asfissia da annegamento.

Nel riformare la sentenza del Tribunale il giudice dell’appello ha ritenuto che le dichiarazioni del G. rese all’assicuratore il 14 settembre 1999 non fossero state veritiere, ripercorrendo la storia umana dell’assicurato.

Contrariamente a quanto assume la ricorrente, il giudice dell’appello non ha considerato il “tentativo di suicidio” come determinante a tal fine, ovvero come significativo del mendacio reso all’assicuratore, ma ha solo ripercorso le tappe antecedenti la stipula del 14 settembre 1999 per argomentare il suo convincimento, trattandosi di fatti certi ed incontroversi.

Infatti, nel 1998 il G. tentò un suicidio, di cui si avvidero gli stessi familiari, che affidarono il G.S. ad uno psichiatra di Forlì – dott. Gi. -, che lo seguì per circa un anno, come confermato dal medico di famiglia dr. Ra. il 10 luglio 2000 ai Carabinieri di Forlimpopoli. Il richiamo di questo episodio è utilizzato dal giudice dell’appello per disattendere quanto ritenuto dal Tribunale, ovvero che l’assicurato avesse percezione di uno stato di generica melanconia, mentre riteneva il giudice a quo che il G. fosse affetto da una grave sofferenza psichica, in quanto il richiesto intervento dei sanitari si esplicito con le prescrizioni di assumere specifiche terapie farmacologiche” ben presenti al paziente” (p. 8 sentenza impugnata).

E che si trattasse di malattia psichica (e non di semplice depressione), di cui era ben consapevole il G., fu poi diagnosticato al momento del ricovero del Siro nella struttura ospedaliera avvenuto il 23 settembre 1999, ovvero nove giorni dopo la stipula di ben due contratti di assicurazione, di cui uno è quello di cui si tratta con il presente ricorso, mentre l’altro fu stipulato con la Unipol.

I sanitari, come ha potuto constatarli il giudice dell’appello, leggendo la cartella clinica agli atti, ricoverarono il G. per ” trattamento sanitario obbligatorio per scompenso psicotico acuto”.

Nell’occasione del ricovero il G. riferì di assumere psicofarmaci; indicò i medicinali specificamente prescritti dal dr. Gi. “circa un anno fa”, ovvero all’epoca del tentato suicidio; aggiunse di avere sospeso la terapia “perchè si sentiva eccessivamente sedato”.

Da questi elementi di fatto, la cui esistenza non è contestata nel ricorso, e dalla vicinanza temporale -appena nove giorni- tra la stipula della polizza e la scomparsa del G., almeno dal 3 luglio 2000, dopo che ebbe ad incontrarsi con il suo amico, il giudice dell’appello ha tratto una sola conclusione, ovvero che il G. aveva mentito all’assicuratore, in quanto consapevole di essere “malato”.

Ne consegue che nell’argomentare del giudice a quo non si rinviene affatto il vizio denunciato, perchè si è in presenza di un procedimento logico, ove sono messi insieme tutti i tasselli che hanno portato alla tragica vicenda al solo scopo di statuire che vi era stato un mendacio che rendeva applicabile l’art. 1892 c.c. da un lato e la clausola n. 5 del contratto di assicurazione, di tenore analogo al disposto della norma codicistica.

3. – Con il secondo e il terzo motivo, che come suggerisce la ricorrente vanno tratti in modo congiunto data la loro stretta interconnesione, la ricorrente lamenta la insufficienza motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5 – secondo motivo) e, comunque, la contraddittorieta della stessa (art. 360 c.p.c., n. 5 -terzo motivo) circa un punto decisivo della controversia.

In estrema sintesi, la ricorrente afferma che la malattia, di cui soffriva il G., non sarebbe stata elemento rilevante ai sensi dell’art. 1892 c.c., e di essa non sarebbe stata dimostrata la consapevolezza in capo al G.S. o, comunque, la mera possibilità da parte sua di essersene reso conto.

Il giudice dell’appello avrebbe mancato di appurare pregiudizialmente se il G. avesse avuto contezza del suo stato di salute al momento in cui stipulò la polizza. Queste censure vanno esaminate anche il relazione al quarto motivo ( motivazione insufficiente circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5).

Infatti, sotto lo stesso profilo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 la ricorrente lamenta che il fatto controverso attiene al nesso eziologico che una rappresentazione corretta di fatti in sede di questionario assicurativo e, nella specie, l’esistenza di una patologia psichiatrica, avrebbe avuto sul consenso negoziale dell’istituto assicurativo. Osserva il Collegio che, in parte, le censure restano assorbite dal rigetto del primo motivo, in parte non rispondono al vero, in quanto, e contrariamente a quanto si sostiene, le dichiarazioni sono state valutate in relazione alla determinazione del rischio al momento della conclusione del contratto e non al sinistro poi verificatosi.

In altri termini, il giudice dell’appello, una volta ritenuto che il G. fosse ben consapevole non già di soffrire di generica depressione, ma di specifica malattia psichica, ha concluso logicamente che egli avesse reso dichiarazioni mendaci all’atto della stipula e queste dichiarazioni mendaci fecero scattare l’inoperatività della polizza assicurativa, così come, per casi de genere, previsti dal codice e dalla clausola convenzionale.

4. – Di qui, il rigetto delle censure, analogamente a quanto deve ritenersi per il quinto motivo (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1892 c.c..) ed il sesto (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1892 c.c.).

In estrema sintesi, la ricorrente con tali censure si duole che il giudice dell’appello non avrebbe accertato se la situazione celata avesse potuto dare luogo ad una maggiore probabilità del verificarsi dell’evento dannoso, in quanto l’assicuratore non avrebbe fornito la prova circa l’alterazione del rischio per effetto delle dichiarazioni reticenti (con richiami a decisioni di questa Corte). In realtà, come emerge dalla attenta lettura della sentenza impugnata, una volta ritenuto configuratosi il mendacio, il giudice dell’appello ha ritenuto di ritenere pienamente legittima la pretesa dell’assicuratore di rifiutare di corrispondere alcun indennizzo e, quindi, di non adempiere, senza incorrere in alcuna violazione di legge.

5. – Con il settimo (error in judicando) e con l’ottavo motivo ( motivazione contraddittoria ed incoerente), in buona sostanza, la ricorrente lamenta l’elusione da parte del giudice dell’appello dell’onere della prova, laddove ha condannato la medesima a restituire le somme versate in ottemperanza della sentenza di primo grado a lei favorevole.

Le due censure vanno disattese, sia perchè la sentenza di primo, come riconosce la ricorrente, venne dichiarata provvisoriamente esecutiva e, quindi, deve ragionevolmente presumersi che la Compagnia assicuratrice abbia versato la somma liquidata dal giudice di primo grado, sia perchè nella sentenza di appello la condanna alla restituzione delle somme è condizionata all’eventuale versamento delle stesse da parte della Compagnia (v. sentenza impugnata in motivazione).

Del resto, i motivi sono generici perchè apodittici e non allegano nemmeno un indizio a conforto della doglianza in essi contenuta.

6.- Anche il nono e il decimo motivo per la loro logica consequenzialità vanno esaminati congiuntamente. Con il nono (violazione di legge costituzionale – artt. 2, 3, 11, 24 e 117 Cost.- e dei Trattati internazionali (art. 6 e 13 convenzione di Roma, nonchè art. 47 Carta di Nizza per mancata ammissione dei mezzi istruttori anche in relazione all’art. 117 – ovvero richiamo al diritto comunitario -, nonchè degli artt. 2721 e 2733 c.c. e dell’art. 244 c.p.c.) e con il decimo (formulato in parte come il precedente con l’aggiunta ” in relazione alla mancata ammissione di CTU psicobiologica o psicologica o psicoanalitica anche di carattere interno in relazione agli artt.61, 62, 63, 64, 194, 195 c.p.c. e vulnerazione delle stesse norme), in buona sostanza, la ricorrente lamenta che sia in primo grado e in fase d’appello aveva richiesto l’ammissione di prove orali, di istanze istruttorie, di deposizione di testi nonchè l’esperimento della CTU. Si rinverrebbe nella decisione sul punto una violazione delle norme e della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo perchè l’equo processo sarebbe entrato a far parte del diritto comunitario dei Trattati ex art. 6 TUE, per cui si legittimerebbe un rinvio pregiudiziale e in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo le richieste istruttorie, in specie la CTU e l’ammissione di ammettere prove determinanti per il processo, sarebbero obbligatorie perchè esse avevano pertinenza con il processo, come si ricaverebbe dalla giurisprudenza sulla Convenzione europea, che richiama (p. 28, 29, 32 ricorso).

La audizione dei testi e la CTU sarebbero serviti a dimostrare la esistenza o meno dell’elemento soggettivo di cui all’art. 1892 c.c., in particolare la consapevolezza e la percezione della malattia e si conclude per il rinvio pregiudiziale.

Osserva il Collegio che, in merito alla conclusione valgono le argomentazioni addotte circa il primo motivo. Del resto, nessuna violazione della norma CEDU nè della interpretazione che ne da la Corte di Strasburgo, nè del diritto interno che con quelle norme e quella interpretazione si confrontano si rinviene.

Al riguardo, risulta dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che pure la ricorrente richiama, che l’art. 6, comma 1 della Convenzione europea non disciplina il regime delle prove In quanto – tale e che, quindi, l’ammissibilità di una prova raccolta, senza rispettare le prescrizioni del diritto nazionale, non può essere esclusa in astratto. Spetta, però, al giudice nazionale valutare gli elementi di prova da lui ottenuti, nonchè la pertinenza di quelli di cui una parte chiede la produzione (Affare Mantovanelli c. Francia, sent.18 marzo 1997 nn.33 e 34; Pellissier e Sassi C.Francia, sent.25 marzo 1999 ( p.33-34 ricorso). E ciò ha fatto il giudice dell’appello, allorchè ha esaminato le testimonianze pertinenti al caso-le deposizioni del Gi. e del R., entrambi medici, che, a vario titolo, ebbero in cura il G.- e ha ritenuto irrilevante la richiesta di CTU perchè non avrebbe potuto condurre ad un accertamento sulla esistenza o meno di un mendacio, essendo il G. defunto.

Del resto, la ricorrente denuncia, sotto forma di domanda rivolta a questa Corte, se possa ancora ritenersi la CTU non un mezzo di prova nella disponibilità delle parti e, quindi, una espressione del potere del giudice cui è rimessa la facoltà di valutarne la necessità o l’opportunità e, come tale, secondo l’ordinamento interno compatibile con quello della CEDU e dell’Alta Corte di giustizia.

Questa lagnanza dimostra concretamente tutti i suoi limiti, in quanto dalla sentenza impugnata emerge con estrema chiarezza, dati il caso e le circostanze, che nessuna CTU, sia pure fosse stata disposta, avrebbe potuto accertare sui resti del povero G. quello che con essa si sarebbe voluto ricercare, ovvero l’esistenza in capo al defunto della consapevolezza del mendacio all’atto della stipula del contratto di assicurazione.

Pertanto, tutta la giurisprudenza richiamata appare inutilmente trascritta, per il semplice fatto che la CTU richiesta non avrebbe potuto essere un mezzo di prova decisiva per la soluzione del giudizio.

Del resto, va posto in rilievo che, ormai, con giurisprudenza consolidata, al punto che può parlarsi di ” diritto vivente”, è stato statuito che la consulenza tecnica può costituire anche fonte oggettiva di prova quando si risolva in uno strumento, oltre che di valutazione tecnica, anche di accertamento e di descrizione di situazioni di fatto, tali da essere rilevabili, nella loro obbiettiva consistenza, solo a determinate cognizioni tecniche (Cass. n. 6166/96 e Cass. n. 2802/00), per cui la censura della ricorrente, peraltro, proposta in via astratta, in linea di principio mostra il suo limite, in quanto , così interpretata, la normativa interna non si pone in thesi in contrasto con la giurisprudenza delle Corti europee.

7. – In merito all’undicesimo motivo (violazione di diritti cosituzionali – artt. 2, 3, 42, 47, 111, 117-e di diritti fondamentali ( art. 1 Protocollo addizionale e art. 17 Carta di Nizza) in relazione alla interpretazione che ha fornito la Corte di appello e da parte di una certa giurisprudenza italiana degli artt. 1892 e 1893) si richiede un rinvio pregiudiziale, affinchè la Corte di Lussemburgo possa dichiarare se sia conforme al TUE il questionario predisposto e richiesto dalla Compagnia assicuratrice.

Del resto, continua la ricorrente, il dovere di trasparenza e precisione nella formulazione di cui all’allegato 3^ richiamato dall’art. 36 della Direttiva 2000/83/CE, la formulazione del contratto di polizza vago e non sancente esplicitamente che per malattia si considera anche quella psichica, la carenza di indicazione dell’elenco di quelle che devono intendersi per malattie, le richieste circa il proprio stato di salute antecedente alla polizza e di cui ai formulari, non possono non essere considerate clausole vessatorie.

Conclude la ricorrente che alla madre M.P. era stato precluso di poter provare l’assunto contrario a quanto dedotto dalla Compagnia circa il mendacio del figlio e sottolinea che tra assicurato e assicuratore, che è soggetto economicamente più forte e non potrebbe mantenere nel processo una posizione di assurdo vantaggio, vi sia una situazione di disuguaglianza e di discriminazione. Vi sarebbe, pertanto, una violazione del principio della parità delle armi e, quindi la questione andrebbe sottoposta alla Corte di Lussemburgo. La complessa censura non merita accoglimento. In primis, non corrisponde al vero, per quanto si legge nella sentenza impugnata, che la M. non si sia potuta difendere.

Alcune sue richieste istruttorie sono state ritenute irrilevanti o per “giudizio che contengono” o “perchè attinenti a diverso rapporto assicurativo” (p. 9 sentenza impugnata).

L’asserito sbilanciamento del processo a favore dell’assicuratore è, quindi, risultato insussistente. Ed, inoltre, il giudice dell’appello non si è dispensato dall’esaminare i mezzi probatori offerti dalla ricorrente con rigore particolare, così come richiesto dalla Corte di Strasburgo (Affare Wagner C.Lussemburgo, sent. 28 luglio 2007 ), perchè, andando a leggere la sentenza impugnata, ci si accorge che il giudice a quo ha esercitato il suo potere di ammettere o escludere capitoli di prova, in virtù di quella autonomia processuale che lo stesso diritto dell’Unione gli riconosce, attraverso la interpretazione della Corte di Lussemburgo e della Corte di Strasburgo, stante il dialogo tra le Corti europee in tema di diritti fondamentali.

Infatti, le stesse decisioni richiamate dalla ricorrente sono nel senso che spetta al giudice nazionale di valutare gli elementi di prova da lui ottenuti, nonchè la pertinenza di cui una parte chiede la produzione, per cui non è incompatibile con il diritto all’equo processo il potere del giudice di rilevare i casi di inammissibilità della prova, di cui all’art. 184 in comb. disp. art. 244 c.p.c., oppure di disattendere la richiesta di CTU, quando la stessa non può concretarsi in un mezzo di controllo dei fatti costituenti la prova di quanto si richiede nel giudizio (Cass. n. 9175/97).

Del resto, il motivo contiene un interrogativo che non rispecchia l’impianto codicistico processuale che configura la CTU come un supporto tecnico diretto ad illuminare il giudice, senza che venga meno o alterato il principio dispositivo immanente al giudizio civile per cui le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio cui sono tenute, ovvero non possono supplire con la richiesta di CTU alle deficienze delle proprie allegazioni (Cass. n. 7097/05).

Ed in tal senso non si rinviene alcuna incompatibilità con l’indirizzo certamente vincolante di cui all’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo all’art. 6, comma 1 Convenzione, il quale contiene i limiti inderogabili dell’effettività dell’esercizio dei diritti azionati e della pertinenza dei mezzi dedotti al caso concreto. Il fatto, poi, che i questionari non indichino espressamente la malattia psichica è assolutamente irrilevante, in quanto con il questionario l’assicuratore evidenzia la sua intenzione di annettere particolare importanza a determinati requisiti, richiamando l’attenzione del contraente a fornire risposte complete e veritiere, in caso di polizza vita, sul suo stato di salute.

Non va dimenticato che l’obbligo della lealtà e della correttezza vale per entrambi le parti e a fronte dell’alea che corre anche l’assicuratore, è evidente che è nel suo interesse tutelarsi, magari, soppesandone il rischio, concludere il contratto a condizioni diverse, così come, a contrario, ben può il futuro assicurato, rifiutando di contrarre con quell’assicuratore e alle stesse condizioni da lui volute, stipularlo con altra compagnia assicuratrice.

Nè, infine, si può parlare a tal fine di clausole vessatorie, in quanto le norme di cui agli artt. 1892 e 1893 c.c., tra le altre, sono norme inderogabili e poste a tutela dell’assicurato, tanto che possono essere derogate solo in senso ad esso assicurato più favorevole, per cui i quesiti formulati nel questionar e relativi alla veracità delle dichiarazioni non sono nemmeno clausole vessatorie, atteso che nel caso in esame, peraltro, la clausola n. 5 del contratto di assicurazione riproduceva fedelmente il disposto di cui all’art. 1892 c.c. e non risulta, nemmeno dal ricorso, che si sia discusso mai tra le parti che essa non fosse stata oggetto di trattativa individuale (v. art. 1469 ter c.c., commi 3 e 4).

7. – Il quattordicesimo motivo ( vizio di ultrapetizione, in quanto sarebbe stata accolta una domanda di annullamento del contratto di assicurazione mai proposta con violazione degli artt. 112 e 167 c.p.c.) si commenta da solo. Dalla sentenza impugnata e dalla domanda in appello così come proposta dalla Compagnia si evince chiaramente che non si è discusso di annullamento del contratto, bensì solo di dichiarazioni mendaci di cui sarebbe stato consapevole il G. in merito all’esistenza di essere malato psichico. Una volta accertato che il mendacio si era consumato è evidente che la compagnia ha rifiutato il pagamento dell’indennizzo.

E ciò è tanto più conforme alla verità processuale che in primo grado la sentenza fu favorevole alla M., in quanto il giudice di prime cure ritenne la patologia del G. non una malattia psichica, ma meramente generica, come la depressione.

Conclusivamente, il ricorso va respinto, ma sussistono giusti motivi dati dall’alterno esito delle fasi di merito e dalla dolorosa vicenda che inducono la Corte a compensare integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

PQM

LA CORTE rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2011

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