Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1360 del 19/01/2018


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 1360 Anno 2018
Presidente: MANNA FELICE
Relatore: CRISCUOLO MAURO

ORDINANZA
sul ricorso 9302-2013 proposto da:
GIOFFRE’ CARMELO GFFCML28C01A552B, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA SISTINA 121, presso lo studio
dell’avvocato GIUSEPPE PANUCCIO, che lo rappresenta e
difende giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente nonchè contro

COTRONEO VINCENZO, COTRONEO ANTONIA, COTRONEO
ROSARIA, COTRONEO PATRIZIA, COTRONEO SIMONA;

intimati

avverso la sentenza n. 99/2012 della CORTE D’APPELLO di
REGGIO CALABRIA, depositata il 23/02/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio
del 15/11/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Data pubblicazione: 19/01/2018

Viste le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale dott.
SERGIO DEL CORE che ha richiesto accogliersi i primi due
motivi di ricorso, dichiararsi inammissibile il terzo, con
assorbimento dei restanti;
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO
Con citazione del 15 maggio 1986 Gioffrè Salvatore

conveniva in giudizio Vincenza Carbone deducendo di essere
proprietario di un fabbricato in Ragnara ralabra coperto da una
terrazza divisa in due parti e confinante con

la proprietà della

convenuta, la quale nel 1983 aveva demolito il preesistente
fabbricato realizzando una nuova costruzione di quattro piani
fuori terra con la soletta di copertura dell’ultimo piano posta ad
altezza più elevata della terrazza attorea, così che era stata
limitata la preesistente servitù di veduta che il Gioffrè
esercitava dal suo immobile sul fabbricato Carbone, ab origine
posto a quota inferiore, ed era stata altresì creata una servitù
illegittima di veduta dal terrazzo della nuova costruzione
Carbone.
Deduceva altresì che l’ultimo piano della proprietà Carbone era
stato costruito in arretramento, in parte di circa metri 7,50, ed
in parte di circa metri 3 rispetto al confine, violando le distanze
minime prescritte dallo strumento urbanistico del Comune di
Bagnara Calabra, e che lungo il lato monte il medesimo
fabbricato era costruito in arretramento rispetto al confine per
una distanza tra un minimo di 1 metro ed un massimo di metri
3,65, sempre in violazione delle distanze legali, con la
conseguenza che erano illegittime anche le vedute ed i balconi
aperti lungo il fronte dell’edificio.
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– ordinata la demonzionè:

costruzione, con la condanna della convenuta al risarcimento
del danno.

Ric. 2013 n. 09302 sez. 52 – ud. 15-11-2017 -2-

1.

Nella resistenza della Carbone, che contestava la fondatezza
della domanda attorea, il Tribunale di Reggio Calabria con la
sentenza n. 550/2001 accoglieva la domanda limitatamente
alla condanna della convenuta, e per essa dei suoi eredi, a
munire di schermo opaco l’inferriata installata al confine con

terrazza dell’ultima elevazione nel tratto di cm. 75 dal confine
con la proprietà Gioffrè, rigettando le altre richieste attoree, e
liquidando, per la sola violazione della distanza in tema di
vedute, la somma di lire quattro milioni a titolo di risarcimento
danni.
La Corte d’Appello di Reggio Calabria con la sentenza n. 99 del
23 febbraio 2012 ha rigettato sia l’appello principale del Gioffrè
che l’appello incidentale (in punto di compensazione delle
spese di lite), disponendo la compensazione per un quinto delle
spese di appello, e ponendo la residua parte a carico
dell’appellante.
La sentenza, dopo avere ritenuto ormai superate le reciproche
eccezioni di difetto di legittimazione attiva e passiva (rectius di
difetto di titolarità del diritto azionato), e ritenuto che non era
stata dimostrata la violazione della regola del litisconsorzio
necessario, sebbene la verifica dovesse operare anche d’ufficio,
rilevava che effettivamente era erronea l’affermazione del
giudice di prime cure secondo cui non era deducibile dinanzi al
G.O. la violazione delle prescrizioni urbanistiche vigenti,
contrastando tale affermazione con il pacifico orientamento
giurisprudenziale che ritiene devolute al giudice ordinario tutte
le controversie tra proprietari confinanti in tema di osservanza
delle norme che prescrivano dilatanze tra costruzioni, non
rilevando a tal fine nemmeno la circostanza che sia stata
eventualmente rilasciata la concessione edilizia per il

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l’immobile dell’attore, nonché la ringhiera installata sulla

manufatto di cui si denunzia l’illegittimità sul piano dei rapporti
interprivatistici.
Tuttavia, superata tale questione, riteneva che le doglianze
dell’appellante non potessero avere seguito.
In particolare quanto alla deduzione di parte attrice secondo

violava lo strumento urbanistico che vietava di realizzare edifici
con altezza superiore a quella preesistente ovvero che superino
in altezza gli edifici già esistenti, reputava che la stessa
introduceva una questione nuova e come tale inammissibile, in
quanto in primo grado non era stata dedotta la violazione dei
limiti per l’altezza della costruzione, atteso che il Gioffrè si era
lagnato della sola violazione delle distanze.
La violazione degli standard urbanistici diversi da quelli dettati
in tema di distanze legittima sì la richiesta risarcitoria, ma
costituisce domanda diversa da quella specificamente volta ad
ottenere il rispetto della previsione di cui all’art. 873 c.c.
Inoltre, non risultava nemmeno allegata l’esistenza di norme
urbanistiche che correlassero la distanza tra fabbricati alla loro
altezza.
In merito alla diversa censura relativa alla necessità di
assicurare la tutela della servitù di veduta con l’eliminazione
della veduta stessa, secondo i giudici di appello, l’appellante
aveva confuso tra la questione relativa alla tutela della pretesa
preesistente veduta esercitata dal Gioffrè sul fabbricato della
Carbone, con la diversa veduta che veniva ad essere esercitata
dal fondo Carbone sul fondo attoreo, in conseguenza della
sopraelevazione.
Tale confusione rendeva la critica inammissibile, ma anche a
voler ricavare un senso logico per le deduzioni svolte, e cioè
che ci si doleva del fatto che non era stata accordata adeguata

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cui la costruzione realizzata sul lastrico solare dai convenuti

tutela alla preesistente veduta vantata dal Gioffrè, in realtà il
motivo non si confrontava con la diversa affermazione del
Tribunale, peraltro non oggetto di censura, per cui non era in
alcun modo configurabile una veduta dal terrazzo dell’attore,
non potendosi quindi sottoporre a critica il diverso rimedio

creazione di una nuova veduta a vantaggio della proprietà degli
appellati.
Quanto

alle

lagnanze

che

investivano

il

mancato

riconoscimento dell’illegittimità della costruzione della Carbone
per la violazione delle distanze legali, i giudici di appello
ritenevano che fosse inammissibile il motivo che deduceva
l’esistenza di norme locali che imponevano il rispetto di una
distanza di 7 metri dal confine, trattandosi di affermazione
apodittica e che non aveva trovato alcun riscontro.
Peraltro la scheda tecnica allegata alla perizia tecnica di parte
attrice confortava la convinzione già espressa dal CTU secondo
cui in zona non erano previste distanze minime dal confine.
Né potevano essere invocate le previsioni di cui all’art. 9 del
DM n. 1444 del 1968, posto che, trattandosi di costruzione
insistente in zona A, per la quale sono ammesse solo
operazioni di risanamento conservativo ed eventuali
ristrutturazioni, poiché l’unica prescrizione dettata è quella che
prevede che le distanze tra gli edifici non possono essere
inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti,
occorreva fare applicazione unicamente della previsione
codicistica di cui all’art. 873 c.c.
In merito alla contestazione circa la liquidazione del danno, i
giudici reggini rilevavano che la stessa era del tutto generica,
in quanto non era accompagnata da alcuna, sia pure apparente
o accennata ragione di critica alla diversa statuizione del

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adottato al fine di elidere il pregiudizio scaturente dall’avvenuta

giudice di prime cure, palesandosi come tale inammissibile ex
art. 342 c.p.c.
L’avvenuto rigetto delle doglianze di parte appellante
giustificava altresì il rigetto della richiesta di rinnovazione della
CTU.

riferimento al regolamento delle spese di lite, sia per la sua
genericità, sia per il fatto che comunque risultava sussistere
una sia pure parziale soccombenza dei convenuti.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione
Gioffrè Carmelo sulla base di sei motivi.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa fase.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione degli

artt. 112 e 345 c.p.c. con riferimento alla statuizione della
sentenza che ha escluso l’ammissibilità delle richieste
dell’attore concernenti l’altezza del fabbricato.
Assume il ricorrente che, anche in considerazione del fatto che
il giudizio de quo è sottoposto alle regole processuali anteriori
all’entrata in vigore della legge n. 353/1990, nell’atto di
citazione aveva reiteratamente fatto riferimento alla questione
relativa all’altezza del fabbricato della convenuta sicchè la
stessa non poteva ritenersi avere carattere di novità.
Il motivo è infondato.
Ed, invero come si ricava in maniera univoca dalla lettura della
motivazione del giudice di appello, questi è pervenuto alla
declaratoria di inammissibilità della domanda concernente la
maggiore altezza del fabbricato rispetto agli standard
urbanistici vigenti nella limitata prospettiva della richiesta
risarcitoria correlata a tale violazione, e ciò sul presupposto
che anche tali violazioni, come appunto disposto dall’art. 872
co. 2 c.c., sebbene non consentano di ottenere una tutela

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Infine era da disattendere anche l’appello incidentale con

ripristinatoria, permettano tuttavia al privato di conseguire il
risarcimento del danno per il pregiudizio scaturente
dall’illegittima attività edificatoria.
In tale ottica quindi, e tenuto conto che una domanda
risarcitoria correlata alla violazione di previsioni urbanistiche

distanze, non era stata proposta dall’attore, come appunto
confermato anche dalla lettura delle conclusioni dell’atto di
citazione, così come riportate in ricorso, la deduzione della
costruzione di un manufatto di altezza superiore rispetto a
quella imposta dallo strumento urbanistico locale non poteva
giovare che all’accoglimento di una domanda risarcitoria, che,
in relazione all’effettivo contenuto delle domande avanzate in
primo grado, non poteva che palesarsi come nuova, e come
tale inammissibile.
Assume inoltre il Gioffrè che alla diversa altezza del fabbricato
aveva però fatto riferimento in citazione, avendo altresì
sottolineato tale aspetto in comparsa conclusionale in primo
grado.
Tuttavia, oltre a doversi ribadire che anche nei processi di cd.
vecchio rito non è consentita la proposizione di domande nuove
con la comparsa conclusionale, potendosi rilevare anche
d’ufficio la conseguente inammissibilità, in realtà la deduzione
in ordine all’altezza dell’edificio appariva sviluppata in relazione
alla diversa questione concernente la possibilità di ritenere la
attività edificatoria come mera ricostruzione ovvero come
nuova edificazione, ai fini dell’individuazione della disciplina in
materia di distanze (questione che è più propriamente
interessata dalla proposizione del secondo motivo di ricorso).
Inoltre, e ciò esclude che possa ravvisarsi la dedotta violazione
degli artt. 112 c.p.c. e 345 c.p.c. e quindi la sussistenza di un

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diverse da quelle strettamente concernenti il rispetto delle

vizio riconducibile all’ipotesi di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c.,
quale deve ritenersi essere stato denunziato dal ricorrente (ad
onta dell’erroneo richiamo in rubrica al n. 3 della norma
citata), la sentenza ha espressamente statuito circa la possibile
incidenza della questione relativa all’altezza del fabbricato sulla

in realtà nello strumento urbanistico applicabile non si
rinvenivano norme che fissassero le distanze tra le costruzioni
in misura variabile in relazione all’altezza dei fabbricati,
pervenendo quindi ad offrire una risposta nel merito alla
deduzione di parte ricorrente secondo cui l’aumentata altezza
del fabbricato imponeva una maggiore distanza.
Il motivo deve quindi essere rigettato.
3. Il secondo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione

del DM n. 1444 del 1968 in correlazione con l’art. 873 c.c. e
con le previsioni dello strumento urbanistico del Comune di
Bagnara Calabra.
A tal riguardo la sentenza gravata ha infatti rilevato che
mancava una previsione regolamentare che fissasse una
distanza minima dal confine pari a metri 7, e che comunque
non potevano invocarsi le previsioni di cui al DM n. 1444 del
1968, in quanto nella fattispecie si controverteva in materia di
fabbricati ubicati in zona A, per la quale la norma de qua
prevede solo la possibilità di interventi di ristrutturazione e
manutenzione conservativa, aggiungendo che le distanze legali
non possono essere inferiore a quelle intercorrenti tra i volumi
preesistenti.
Ha quindi concluso affermando che non ricavandosi da tale
disposizione alcuna distanza specifica, ed in assenza di una
diversa previsione regolamentare, non poteva che farsi
applicazione dell’art. 873 c.c. (nemmeno potendosi fare

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disciplina in tema di distanze, rilevando alle pagg. 19 e 20 che

richiamo alla distanza di 10 metri tra pareti finestrate di cui
all’art. 9 co. 1 n. 2 del citato DM, che si applica invece alle
costruzioni nuove in zone diverse da quella A), norma rispetto
alla quale andava esclusa la ricorrenza di una costruzione a
distanza inferiore a quella di legge.

errata, in quanto, attesa l’inclusione della costruzione oggetto
di causa nella zona A del Comune di Bagnara Calabra, la citata
previsione in tema di limiti all’edificazione di nuove costruzioni
ed alla necessità di dover rispettare le distanze tra volumi
edificati preesistenti, non consentiva di fare applicazione della
previsione codicistica di cui all’art. 873 c.c.
Peraltro, la maggiore altezza del fabbricato della convenuta
esclude che possa parlarsi di mera ristrutturazione del
fabbricato preesistente, ma impone di ritenere realizzata una
nuova costruzione.
Il motivo è fondato.
Rileva il Collegio che la questione giuridica concernente la
corretta individuazione della disciplina in tema di distanze per
edifici collocati nella zona A) è stata oggetto di soluzioni
diversificate nel tempo, e senza che fosse possibile individuare
un quadro diacronico degli interventi, e ciò anche in relazione
agli orientamenti del giudice amministrativo, e che solo di
recente ha trovato una solu7ione che sembra consolidata ed
alla quale si ritiene dover assicurare continuità.
Secondo una prima tesi la fattispecie andrebbe disciplinata
facendo applicazione della norma di carattere generale di cui
all’art. 873 c.c., in quanto ( cfr. Cass. n. 7804/1991) il
regolamento edilizio, ancorché non contenga una specifica
disciplina delle distanze tra fabbricati, comporta l’inapplicabilità
delle limitazioni poste in materia di distanze ed altezze negli

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Assume il ricorrente che tale interpretazione delle norme sia

edifici dall’art. 41 “quinquies”, primo comma, lett. c), della
legge 17 agosto 1942 n. 1150, come introdotto dall’art. 17
della legge 6 agosto 1967 n. 765, dovendosi intendere in tal
caso adottata dal regolamento la distanza stabilita dall’art. 873
cod. civ. ( si veda anche Cass. n. 12376/1992).

n. 12767/2008, laddove afferma che l’art. 9, primo comma, n.
2), del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 – emanato in forza dell’art.
41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150, aggiunto
dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765 – in base al quale
la distanza tra pareti finestrate di edifici frontisti non deve
essere inferiore a dieci metri, si riferisce alle sole nuove
edificazioni consentite in zone diverse dal centro storico (zona
A), posto che in questo ultimo, dove vige il generale divieto di
costruzioni “ex novo”, la norma si limita a prescrivere che la
distanza non sia inferiore a quella intercorrente tra i volumi
edificati preesistenti, atteso che la stessa si limita a ben vedere
solo ad escludere l’applicazione del DM 1444 ( così anche Cass.
n. 879/1999).
Condurrebbe invece all’applicazione dell’art. 873 c.c. quanto
affermato da Cass. n. 4754/1995, secondo cui la mancanza in
uno strumento urbanistico, di prescrizioni sulle distanze per
una determinata zona del territorio, a causa della scelta del
legislatore locale di vietare in tale zona qualsiasi attività
costruttiva, lungi dal creare lacune nella regolamentazione dei
rapporti di vicinato, fa si che resti applicabile ad esso la
disciplina dettata dagli art. 873 e ss. cod. civ., con la
conseguenza che, in caso di violazione del divieto di costruire,
il privato proprietario che ne abbia subito danno ha diritto, ai
sensi dell’art. 872 cod. civ., di esserne risarcito ma non può
pretendere la riduzione in pristino, ove non risulti

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Solo in apparenza sembra aderire a tale soluzione anche Cass.

contemporaneamente trasgredito l’obbligo di rispettare le
distanze previste dalle norme codicistiche ( si veda sempre in
relazione ad un caso di costruzione realizzata in zona
successivamente assoggettata a vincolo assoluto di
inedificabilità, Cass. n. 3638/2007).

in prevalenza dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui
dovrebbe trovare applicazione la previsione in tema di distacco
tra pareti finestrate di cui all’art. 9 del DM n. 1444 del 1968.
In tal senso Consiglio di Stato, sez. V, 23/05/2000, n. 2983 ha
affermato che in materia di distanze tra nuove costruzioni,
quando il regolamento edilizio comunale presenta una lacuna
normativa, la disciplina applicabile è quella contenuta nell’art.
41 quinquies della I. n. 1150 del 1942 che richiama l’art. 9
d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, ed ha natura di norma integrativa
dell’art. 873 c.c. (in termini e proprio con specifico riferimento
ad edifici collocati in cd. Zona A, Consiglio di Stato sez. V 19
marzo 1999 n. 280).
A tale soluzione si contrappone poi l’ulteriore tesi che reputa
applicabili le misure di salvaguardia di cui alla legge n. 765 del
1967.
In tal senso si veda Cass. n. 20713/2013, a mente della quale,
la norma contenuta nell’art. 41 quinquies, lett. c), della legge
17 agosto 1942, n. 1150, introdotto dall’art. 17 della legge 6
agosto 1967, n. 765, secondo la quale, nelle nuove edificazioni
a scopo residenziale, “la distanza dagli edifici vicini non può
essere inferiore all’altezza di ciascun fronte dell’edificio da
costruire”, va osservata non solo nei casi in cui i Comuni siano
sprovvisti di strumento urbanistico, ma anche quando negli
stessi o nei regolamenti edilizi manchino norme specifiche che
provvedano direttamente in materia di distanze.

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A tale orientamento si è poi contrapposta la tesi, fatta propria

Solo in apparenza sembra porsi in tale ottica Cass. n.
26123/2015, la cui massima recita: ” Qualora lo strumento
urbanistico vieti ogni attività costruttiva in una determinata
zona e per essa non dia quindi alcuna prescrizione sulle
distanze tra costruzioni, i rapporti di vicinato non sono

n. 1150 del 1942, introdotto dall’art. 17 della I. n. 765 del
1967, per il quale, nelle nuove edificazioni a scopo
residenziale, “la distanza dagli edifici vicini non può essere
inferiore all’altezza di ciascun fronte dell’edificio da costruire”,
occorrendo però specificare come peraltro chiarito da questa
stessa Corte, che si tratta di fattispecie nella quale il vincolo di
inedificabilita’ assoluta dipendeva dall’osservanza della fascia di
rispetto delle aree cimiteriali prevista dall’art. 338 T.U. leggi
sanitarie 27 luglio 1934 n. 1265 (e non dall’esercizio di
discrezionalità amministrativa da parte dell’ente comunale),
non vale tuttavia quando – come nella specie – il vincolo di
inedificabilita’ assoluta e’ previsto dallo strumento urbanistico
comunale in relazione al particolare carattere storico e di
pregio ambientale della zona territoriale individuata.
Infine è stata sostenuta la tesi secondo cui i limiti all’attività
edilizia prescritti per gli immobili collocati nella zona A
impongono che debbano in ogni caso essere rispettate le
distanze preesistenti tra fabbricati.
In tal senso si veda Cass. n. 1282/2006, che ha appunto
affermato che la disciplina del regolamento edilizio del Comune
di Somma Vesuviana la quale aveva recepito il d.m. 2/4/1968
che all’art. 9 prescrive per la zona A, in relazione alle
operazioni di risanamento conservativo e per le eventuali
ristrutturazioni, che le distanze fra gli edifici non possono
essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi preesistenti,

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disciplinati dall’art. 873 c.c., ma dall’art. 41 quinquies della I.

poichè nella zona A sono consentite soltanto operazioni di
risanamento conservativo e di manutenzione ordinaria, mentre
sostituzioni edilizie e nuove costruzioni potranno essere
ammesse soltanto dopo l’approvazione di un piano
particolareggiato esecutivo (nella specie insussistente) –

urbanistico di realizzazione di interventi edilizi nella zona senza
prevedere alcuna deroga alla disciplina in materia di distanze
tra fabbricati di cui all’art. 9 del citato d.m., tenuto conto che
l’eventuale deroga sarebbe, comunque, illegittima e
suscettibile di disapplicazione da parte del giudice, giacché in
caso di adozione dello strumento urbanistico tali norme, per
inserzione automatica nello stesso, sono immediatamente
operanti nei rapporti fra privati. Pertanto, la disposizione di cui
al citato art. 2 non può essere interpretata nel senso che, in
assenza dell’approvazione del piano particolareggiato
esecutivo, trovi applicazione la disciplina dettata dall’art. 873
cod. civ. anziché quella prevista dal citato art. 9.
Tale principio è stato poi ribadito anche da Cass. S.U. n.
20354/2013 (non massimata), nella cui motivazione si legge
che nelle zone A, per le operazioni di risanamento conservativo
e per le eventuali ristrutturazioni, le distanze tra gli edifici non
possono essere inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi
edificati preesistenti.
Reputa il Collegio che tale ultima soluzione sia in assoluto da
preferire, e che pertanto debba darsi continuità a quanto di
recente affermato da Cass. n. 14552/2016 e da Cass. n.
15458/2016, che hanno appunto ribadito che per gli edifici in
zona omogenea A, debba in ogni caso rispettarsi il limite delle
distanze intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.

Ric. 2013 n. 09302 sez. 52 – ud. 15-11-2017 -13-

introduce un divieto assoluto “medio tempore” sotto il profilo

Ed, infatti, una volta ricordato che il DM n. 1444/1968 nel
definire le “zone territoriali omogenee” e gli standards
urbanistici ai quali i Comuni devono attenersi in sede di
approvazione o revisione degli strumenti urbanistici, pone dei
parametri “minimi”, che gli strumenti urbanistici comunali

ministeriale (17 aprile 1968) sono tenuti ad osservare, ma che
gli enti locali possono derogare con la previsione di parametri
piu’ rigorosi, è palese l’illegittimita’ dello strumento urbanistico
che non osservi i parametri minimi in questione.
In tale prospettiva, come ribadito dalle Sezioni unite di questa
Corte, poiché il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, essendo stato
emanato su delega del L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41quínquies (c.d. legge urbanistica), ha efficacia di legge dello
Stato, le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di
densita’, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali
si sostituiscono per inserzione automatica (Cass. Sez. U, n.
14953 del 07/07/2011, Rv. 617949).
Ciò comporta altresì che poiché la disciplina sulle distanze
dettata da uno strumento urbanistico comunale deve osservare
le prescrizioni di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, comma 1,
che detta le distanze “minime” tra fabbricati per ciascuna zona
territoriale omogenea, le medesime – una volta recepite dallo
strumento urbanistico o inserite automaticamente nello stesso
– hanno efficacia precettiva, in quanto norma integrativa
dell’art. 873 cod. civ., anche nei rapporti tra privati.
E’ pur vero che le Sezioni Unite hanno affermato il principio
secondo cui il D.M. 2 aprile 1968, nell’imporre all’art. 9
determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione
di strumenti urbanistici, non e’ immediatamente operante nei

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i

emanati successivamente all’entrata in vigore del detto decreto

rapporti tra i privati (cfr., ex plurirnis, Sez. U, Sentenza n.
5889 del 01/07/1997, Rv. 505623), ma è altrettanto vero che
poichè il DM in esame e’ rivolto agli enti comunali, che devono
farne applicazione nella redazione dei loro strumenti
urbanistici, una volta che l’ente locale abbia adottato lo

disposizioni sulle distanze tra le costruzioni che violino i
parametri minimi stabiliti dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art.
9, il giudice di merito e’ tenuto a disapplicare le disposizioni del
regolamento comunale illegittime e ad applicare direttamente,
anche nei rapporti tra privati, la disposizione del detto art. 9, la
quale diviene, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima.
In tal senso deve poi altresì precisarsi che l’inserzione
automatica della disciplina delle distanze dettata dall’art. 9 del
d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 nello strumento urbanistico
comunale opera non solo quando lo strumento urbanistico
stesso, individuando le zone territoriali omogenee, violi le
distanze minime prescritte dallo stesso art. 9 per ciascuna zona
territoriale, prevedendo una distanza inferiore a quella minima
prescritta, ma anche quando lo strumento urbanistico, dopo
aver individuato le zone territoriali omogenee, nulla preveda
sulle distanze legali relativamente ad esse (o ad una di esse).
Per l’effetto se lo strumento urbanistico locale recepisca le
prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate
dall’art. 9 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 ovvero stabilisca
distanze più rigorose, si applicheranno le norme del
regolamento comunale, ma se non osservi le prescrizioni del
detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in
quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si
determinerà l’inserzione automatica delle prescrizioni dell’art. 9

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strumento urbanistico e qualora quest’ultimo contenga

nello strumento urbanistico, divenendo così tali prescrizioni – a
mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far
parte – immediatamente applicabili anche ai rapporti tra
privati.
In termini analoghi si è poi pronunziata anche Cass. n.

consentiti esclusivamente interventi di risanamento
conservativo senza incremento delle densita’ edilizia di zona e
territoriale preesistenti, è stato in sostanza imposto un vincolo
conformativo inerente alla caratteristiche intrinseche del
territorio – non temporaneo e, come tale, non caducabile.
Ciò comporta che il vincolo d’inedificabilita’ assoluta, impedisce
in radice che possano trovare applicazione i criteri stabiliti
dall’art. 873 c.c., nonche’ quelli di cui alla L. n. 765 del 1967,
art. 17, comma 1.
Tornando all’esame della fattispecie per cui e’ causa, va
osservato che, gli immobili oggetto di causa sono collocati in
zona A, e che lo strumento urbanistico locale, a quanto
riferisce la stessa sentenza impugnata, senza che sul punto sia
stata formulata alcuna censura, nulla dispone in tema di
distanze, sicchè appare erronea l’affermazione contenuta in
sentenza circa la possibilità di fare applicazione dell’art. 873
c.c.
Tuttavia, dovendosi fare applicazione del principio di diritto per
il quale lo strumento urbanistico comunale, nel disciplinare il
territorio individuando le zone territoriali omogenee di cui al
D.M. 2 aprile 1968, n. 1968, art. 2, deve osservare le
prescrizioni in materia di distanze minime tra fabbricati
previste per ciascuna delle dette zone dal primo comma
dell’art. 9 del medesimo decreto ministeriale, quale
disposizione di immediata ed inderogabile efficacia precettiva,

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14552/2016, che ribadendo che nelle zone A, nelle quali sono

ne consegue che qualora il regolamento non preveda alcuna
distanza tra fabbricati relativamente ad una o piu’ zone
territoriali omogenee dal medesimo individuate, si determinerà
l’inserzione automatica, nello strumento urbanistico, della
disciplina dettata dal detto art. 9, e tale disciplina si sostituirà

così parte integrante del regolamento comunale e
immediatamente operante – in virtù della natura integrativa del
regolamento rispetto all’art. 873 cod. civ..
Occorre quindi cassare la sentenza impugnata, dovendo il
giudice del rinvio verificare, in relazione alla norma ritenuta
applicabile come sopra individuata, se la costruzione degli
intimati costituisca una mera ricostruzione di quella
preesistente o se invece (come sembra emergere anche dalla
sentenza gravata, laddove a pag. 25 dà atto che lo stesso
giudice di primo grado aveva riconosciuto la maggiore altezza
della costruzione rispetto a quella originaria) si tratti di nuova
costruzione, occorrendo a tal fine altresì verificare se risultino
rispettate le distanze intercorrenti tra volumi edificati
preesistenti.
4. Il terzo motivo denunzia la violazione dell’art. 905 c.c.
laddove la sentenza impugnata non ha ritenuto esistente una
servitù di affaccio dal fondo Gioffrè per la preesistenza di
un’inferriata sul parapetto di confine. Inoltre poiché quella della
Carbone è una nuova costruzione, la sentenza non ha
considerato che i manufatti rinvenuti non impediscono la
veduta, avendo quindi determinato la violazione dell’art. 907
c.c.
Il motivo deve essere disatteso, incorrendo nella medesima
confusione che il giudice di appello ha segnalato in ordine alle

Ric. 2013 n. 09302 sez. 52 – ud. 15-11-2017 -17-

ipso iure alle disposizioni regolamentari illegittime, divenendo

analoghe doglianze mosse dal Gioffrè in materia di vedute in
quella sede.
Non si comprende dalla lettura del motivo se la descrizione
sinteticamente riportata faccia riferimento alla veduta che si
esercita dal terrazzo della Carbone ovvero a quella in

mentre nella rubrica del ricorso si lamenta la violazione della
previsione di cui all’art. 905 c.c. (che detta la disciplina della
distanza per l’apertura di vedute rispetto al fondo viciniore),
nella parte espositiva si richiama la diversa previsione di cui
all’art. 907 c.c., che invece prescrive la distanza per le
costruzioni rispetto alle preesistenti vedute.
Ed, invero anche laddove volesse reputarsi che la doglianza sia
riferita al fatto che la successiva attività edificatoria degli
intimati abbia precluso il diritto di veduta in precedenza
vantato dal ricorrente, il motivo non si confronta con il
contenuto della decisione gravata che, pur avendo segnalato la
scarsa intellegibilità dell’omologo motivo di appello, con la sua
conseguente inammissibilità, ha in ogni caso precisato che il
Tribunale aveva escluso che l’attore potesse legittimamente
vantare un dritto di veduta dal proprio terrazzo, affermazione
questa che non era stata in alcun modo contestata dalla difesa
dell’appellante (cfr. pag. 21 e 22 della sentenza d’appello), il
che preclude la stessa ammissibilità del motivo in esame.
5. Il quarto motivo di appello denunzia la violazione dell’art.
342 c.p.c. con riferimento alla richiesta di risarcimento del
danno.
A tal fine si evidenza che il giudizio è stato introdotto nel 1986
e che pertanto non risulta applicabile la novella del codice di
rito

Ric. 2013 n. 09302 sez. 52 – ud. 15-11-2017 -18-

precedenza esercitata dal lastrico del ricorrente, così come,

Inoltre la richiesta risarcitoria era stata avanzata in relazione
non solo ai danni derivanti dall’illegittima apertura di una
veduta da parte della convenuta, ma anche per la stessa
illegittimità dell’intera opera della convenuta.
Ebbene premesso che anche in relazione ai processi di cd.

forma dell’appello, impone che l’appellante oltre a specificare la
statuizione impugnata, debba allegare le ragioni per le quali
chiede la riforma della statuizione stessa, poiché solo, in
siffatto modo, risultano precisati l’ambito del riesame richiesto
al giudice di secondo grado e le concrete ragioni della
lamentata ingiustizia (cfr. Cass. n. 3848/1978), sicchè la
doglianza del ricorrente quanto alla affermata inammissibilità
del motivo di appello volto a contestare il quantum dei danni
liquidati per la veduta illegittimamente creata dai convenuti, si
palesa infondata, stante l’accoglimento del secondo motivo di
ricorso che impone in sede di rinvio la rivalutazione della
controversia in punto di rispetto delle distanze legali, deve
ritenersi assorbita la censura che concerne i pretesi danni
scaturenti proprio dalla violazione delle dette distanze.
6.

Il quinto motivo di ricorso denunzia l’insufficiente

motivazione in relazione al rigetto della richiesta di rinnovo
della CTU, ma trattasi di doglianza che risulta evidentemente
assorbita per effetto dell’accoglimento del secondo motivo di
ricorso.
7. Il sesto motivo denunzia infine la violazione degli artt. 92 e
ss. c.p.c. con riferimento alla condanna alle spese del giudizio
di appello, alla luce della fondatezza dei motivi di ricorso.
Anche tale motivo deve ritenersi assorbito in conseguenza
dell’accoglimento del secondo motivo e della cassazione con
rinvio della sentenza impugnata, ritenendo la Corte di dover

Ric. 2013 n. 09302 sez. 52 – ud. 15-11-2017 -19-

vecchio rito l’esigenza posta dall’art 342 cod proc civ in tema di

rimettere al giudice del rinvio, che si designa in altra Sezione
della Corte d’Appello di Reggio Calabria anche per la
liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
PQM
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo ed il terzo

motivo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio ad altra
Sezione della Corte d’Appello di Reggio Calabria, anche per le
spese del presente giudizio.
Così deciso nella camera di consiglio del 15 novembre 2017
Il P e4de te

‘o Giudizi

R1

DEPOSITATO IN CANCELLERIA

Roma,

19

691. 2018

motivo, e ritenuti assorbiti il quarto, il quinto ed il sesto

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