Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13597 del 19/05/2021

Cassazione civile sez. III, 19/05/2021, (ud. 28/10/2020, dep. 19/05/2021), n.13597

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6098-2018 proposto da:

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANICIO

GALLO 102 SC. A INT. 13, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO

POLESE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO SIVIERO;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA DI RILEVO NAZIONALE “(OMISSIS)”, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DI MONTE VERDE 162, presso lo studio

dell’avvocato GIORGIO MARCELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato

LUCA FABRIZIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3450/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/10/2020 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI ANNA MARIA.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione 29-11-2012 B.A. convenne dinanzi al Tribunale di Napoli l’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale “(OMISSIS)” di (OMISSIS), deducendo: che in data (OMISSIS) era stata sottoposta presso il detto ospedale ad intervento di “istero annessiectomia bilaterale” in totale assenza di consenso informato.

Dopo l’intervento aveva accusato un’insostenibile incontinenza urinaria, che rese necessari diversi successivi accertamenti, ricoveri ed interventi chirurgici (il (OMISSIS), il (OMISSIS), il (OMISSIS) ed il (OMISSIS) presso lo stesso Ospedale ed il (OMISSIS) presso la clinica (OMISSIS)), in ordine ai quali non aveva ricevuto alcun valido consenso informato; in particolare, nel ricovero del (OMISSIS), i medici non eseguirono il previsto intervento di “fistolectomia”, in quanto, sbagliando la diagnosi, avevano ipotizzato la sussistenza di una “incontinenza da stress”, non riconoscendo la presenza di “tramite fistoloso” (diagnosi corretta poi fatta il (OMISSIS) presso la clinica (OMISSIS), ove le proposero di eseguire l’intervento di “fistolectomia”). Lamentò la persistenza dell’incontinenza urinaria dovuta alla presenza di “fistola vescicovaginale” successiva all’intervento del (OMISSIS). Residuavano postumi permanenti erano da quantificare nella misura del 14%. Chiese, pertanto, di: accertare la responsabilità dell’Azienda in relazione alla mancata esecuzione dell’intervento operatorio del (OMISSIS); accertare la mancanza di adeguato ed esaustivo consenso informato in ordine a tutti gli effettuati trattamenti; condannare l’Azienda al pagamento della somma di Euro 500.000,00 a titolo di risarcimento dei danni subiti, oltre interessi e rivalutazione ed ulteriori spese mediche sostenute.

Si costituì l’Azienda chiedendo il rigetto della domanda.

Con sentenza 11638/2015 l’adito Tribunale rigettò la domanda, rilevando che l’attrice, la quale aveva l’onere di allegare un inadempimento qualificato (cioè idoneo a costituire causa astrattamente efficiente della produzione del danno), aveva adempiuto a detto onere solo con riferimento al ricovero del (OMISSIS), lamentando che in quell’occasione i medici non avevano eseguito un intervento di “fistelectomia” erroneamente diagnosticando una “incontinenza da stress” e non riconoscendo l’esistenza di un “tramite fistoloso”; che l’attrice, pur lamentandosi dell’omessa esecuzione dell’intervento, non aveva nè allegato nè tanto meno dimostrato di essersi poi sottoposta a detto intervento (pur proposto dai medici della clinica (OMISSIS)); che non vi era nesso di causalità tra il detto errore diagnostico ed i lamentati postumi di natura permanente, da ricondurre all’intervento del (OMISSIS), correttamente eseguito; che l’attrice, in relazione alla violazione degli obblighi di informazione, non aveva adeguatamente dedotto che, ove correttamente informata, avrebbe rifiutato i trattamenti ricevuti; che, peraltro, attesa la grave patologia da cui era affetta e le conseguenze impellenti esigenze curative cui era indirizzato l’intervento del (OMISSIS), era da ritenere estremamente inverosimile la circostanza che la paziente, se adeguatamente informata sui rischi dell’intervento, si sarebbe astenuta dall’eseguirlo.

Con sentenza 3459/2017 del 24-7-2017 la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato il gravame proposto da B.A.. La Corte, in particolare, ha preliminarmente accertato la regolare costituzione in grado d’appello dell’Azienda; al riguardo ha innanzitutto evidenziato: che l’avvocato Fabrizio si era costituito per l’Azienda in primo grado “in virtù di procura in calce alla copia notificata dell’atto di citazione” (circostanza riportata nell’epigrafe della sentenza di prime cure, e quindi sicuramente accertata dal primo Giudice), e, in secondo grado, “in virtù di procura afferente al primo grado e valevole anche per il presente giudizio di appello”; che, tuttavia, non vi era prova che, al momento della costituzione in appello, avesse depositato il fascicolo di primo grado nel quale era inserita la citazione in calce alla quale era stata apposta la detta procura (mancava, infatti, un attestato di deposito da parte della Cancelleria e non risultava alcun deposito telematico); che, pertanto, pur essendo stato il detto fascicolo (con la copia dell’atto di citazione contenente in calce la procura) materialmente rinvenuto in quello di ufficio al momento della scadenza dei termini concessi ex art. 190 c.p.c., non vi era prova certa che la procura fosse stata ritualmente depositata all’atto della costituzione (pur essendoci degli indizi in tal senso, atteso che all’udienza ex art. 350 c.p.c. nè l’appellante nè il Collegio aveva rilevato alcunchè al proposito).

La Corte, con ordinanza 3-3-2017, dopo avere rilevato quanto sopra e precisato che “anche in ipotesi di mancato deposito della procura, il Giudice deve concedere un termine ex art. 182 c.p.c per la regolarizzazione della costituzione”, aveva rimesso la causa sul ruolo, al fine di consentire all’appellante di interloquire sulla predetta questione.

In esito a detta ordinanza, l’avv. Fabrizio ha proceduto al deposito telematico della produzione di primo grado, inserendovi la citazione notificata all’Azienda con in calce la procura (nella quale erano espressamente comprese le fasi esecutive e di appello). Con la nuova formulazione dell’art. 182 c.p.c. ratione temporis vigente (applicabile al giudizio di appello ex art. 359 c.p.c., in quanto con lo stesso compatibile) il Giudice, in caso di difetto di rappresentanza, non solo poteva (come previsto nella vecchia formulazione) ma doveva concedere un termine per la regolarizzazione; e tanto anche in appello, e quindi all’udienza ex art. 350 c.p.c. ed oltre detta udienza, non essendoci una norma che ne prevedesse il divieto.

La Corte, inoltre, ha confermato l’esattezza della statuizione impugnata, sia nel punto in cui la stessa aveva ritenuto che la domanda introduttiva fosse diretta ad accertare la responsabilità dell’Azienda solo in relazione all’intervento chirurgico del 23-12009, sia nel punto in cui aveva evidenziato che la B. aveva denunciato un inadempimento qualificato (cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno) solo con riferimento al ricovero del (OMISSIS) (mancato intervento per erroneità nella diagnosi).

Nessun profilo di responsabilità era stato invece evidenziato in relazione agli altri accertamenti ed interventi eseguiti presso l’Azienda (profili, peraltro, non individuati neanche nella perizia di parte e non chiariti neanche in grado di appello).

La Corte, ancora, dopo avere precisato che rispetto a detti altri accertamenti ed interventi la B. aveva solo chiesto di accertare la mancanza di adeguato ed esaustivo consenso impugnato, ha confermato quanto evidenziato dal Tribunale in ordine alla genericità delle allegazioni relative alla carenza di informazioni propedeutiche all’esecuzione dei trattamenti sanitari eseguiti.

In relazione ai diversi ricoveri, trattamenti ed interventi chirurgici subiti, la B., non aveva chiarito, per ciascuno di essi, quale necessaria informazione fu omessa, quale pregiudizio aveva ricevuto e se fosse sua intenzione denunciare la violazione del diritto all’autodeterminazione anche in assenza della correlativa lesione del diritto alla salute (violazione del diritto all’autodeterminazione in se stesso considerato non allegata in modo chiaro e specifico in primo grado ed invocata espressamente per la prima volta solo nel giudizio di appello). Secondo la Corte, anche a volere ritenere che la B. avesse dedotto con chiarezza che l’incontinenza urinaria era stata causata dall’intervento del (OMISSIS) e che, se fosse stata edotta di tale complicanza, non si sarebbe sottoposta all’intervento, comunque non sussisteva alcuna responsabilità del medico, posto che l’intervento (deciso per impellenti esigenze curative a fronte di gravi patologie) era stato eseguito correttamente e l’attrice non aveva provato che, ove compiutamente informata, avrebbe rifiutato l’intervento (rifiuto, peraltro, inverosimile).

La Corte, infine, nel rigettare il motivo di gravame con il quale si denunciava l’omessa decisione sull’eccezione di difetto di costituzione del convenuto in primo grado (eccezione basata sul rilievo che il difensore dell’Azienda aveva presenziato alla prima udienza del 25-3-2013 senza essersi previamente costituito in cancelleria mediante deposito del proprio fascicolo), ha ritenuto regolare anche la costituzione dell’Azienda in primo grado; al riguardo ha evidenziato che alla detta udienza il difensore non aveva l’onere di dimostrare l’avvenuta preventiva costituzione in cancelleria, ben potendo costituirsi anche in udienza con il deposito di comparsa di costituzione e procura (il deposito di detti atti non era stato contestato, se non con la prima comparsa conclusionale in grado di appello, e comunque detti atti erano stati prodotti in giudizio).

Avverso detta sentenza B.A. proponeva ricorso per Cassazione, affidato a quattro motivi ed illustrato anche da successiva memoria. Resisteva l’Azienda con controricorso.

Con ordinanza interlocutoria resa all’udienza camerale del 5 febbraio 2020 questa Corte rilevava che, in ordine alla possibilità che la controversia poneva una questione di rilievo nomofilattico. In particolare se, a seguito della rilevazione del difetto di rappresentanza o assistenza o del vizio di nullità in gradi di appello, la regolarizzazione debba avvenire entro l’udienza di cui all’art. 350 c.p.c. o il giudice possa concedere un termine perentorio per provvedervi (v. Cass. 19663 del 2016 e Cass. 6041/2018). Per tale motivo disponeva la trattazione nel contraddittorio alla pubblica udienza del 28 ottobre 2020.

La ricorrente deposita memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 350,182,359,83,165,166,167,127 e 319 c.p.c., nonchè degli artt. 11 e 24 Cost., dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, del R.D. n. 1368 del 1941, artt. 72, 73 e 74 nonchè, ai sensi dell’art. 360, n. 4, la nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c. e citato R.D. 1368 del 1941, art. 118. Secondo la ricorrente non vi era la prova dell’avvenuto deposito, entro l’udienza ai sensi dell’art. 350 c.p.c., del fascicolo cartaceo di primo grado della Azienda ospedaliera, contenente la copia notificata dell’atto di citazione con, in calce, la procura alle liti conferita al difensore dalla medesima Azienda e valida anche per il giudizio di appello. Per tale ragione, difettando la prova di tale presupposto, la Corte territoriale non avrebbe potuto, in virtù dell’art. 182 c.p.c., come modificato dalla della L. n. 69 del 2009, art. 46 assegnare, anche oltre l’udienza ai sensi dell’art. 350 c.p.c. (e, quindi, in ogni stato e grado del giudizio), un termine per sanare il difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione. La Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare la contumacia della Azienda e non affermare l’avvenuta regolarizzazione della costituzione. Inoltre, la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che in primo grado l’Azienda ospedaliera si era costituita ritualmente, quando invece avrebbe dovuto esserne dichiarata la contumacia, atteso che, alla prima udienza di comparizione del 25 marzo 2013, il difensore dell’Azienda aveva dichiarato di costituirsi, senza alcuna attestazione di avvenuto deposito del fascicolo.

Va subito anticipato che, nel caso in esame, la Corte territoriale non ha concesso un nuovo termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c., comma 2 ritenuto applicabile anche al giudizio di appello, ma si è limitata a rilevare l’esistenza, negli atti di causa, della procura alle liti, precisando che la regolarizzazione era già intervenuta. La rimessione della causa sul ruolo aveva, quindi, la finalità di consentire all’altra parte di controdedurre.

Fatta questa premessa, va rilevato che la questione sollevata dalla ricorrente è, comunque, rilevante ed ha rilievo nomofilattico perchè l’art. 350, comma 2, impone al giudice di appello di verificare la regolarità della costituzione e nel concetto di regolarità della costituzione rientra anche l’esame del rituale deposito della procura, in quanto l’art. 165 c.p.c., applicabile al giudizio di secondo grado, prescrive che la procura debba essere depositata all’atto di costituzione e, quindi, la disposizione considera il deposito della procura come requisito di regolarità della costituzione.

Pertanto, si pone la questione se, a seguito della rilevazione del difetto di rappresentanza o di assistenza o del vizio di nullità della procura, la regolarizzazione debba avvenire entro l’udienza di cui all’art. 350 c.p.c. ovvero il giudice possa concedere un termine perentorio per provvedervi, eventualmente anche diverso e successivo alla prima udienza del giudizio di appello.

Appare, pertanto, opportuno definire i rapporti tra le due norme in oggetto (art. 182 c.p.c. e art. 350 c.p.c.) muovendo, in primo luogo, dai profili non controversi.

L’art. 182, comma 1, consente (ed anzi impone) al giudice di merito, che rilevi l’omesso deposito di una procura speciale alle liti, rilasciata ai sensi dell’art. 83 c.p.c., comma 3, ma che sia stata semplicemente enunciata o richiamata negli atti di parte, di invitare la parte a produrre l’atto mancante. Il principio si applica anche all’omesso deposito della procura speciale, tanto che questa Corte ha reiteratamente affermato che il giudice di merito non può dichiarare l’invalidità della costituzione, prima di avere provveduto, proprio ai sensi del 182, comma 1, a invitare la parte a produrre il documento mancante (in questi termini Cass. 60417 del 2018; n. 11359 del 22 maggio 2014; n. 19169 del 2014 e n. 3181 del 2016).

Dall’esame delle disposizioni emerge che, ai sensi dell’art. 182 c.p.c.:

“Il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi.

Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza, o l’assistenza, o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione”.

Diversamente, ai sensi dell’art. 350 c.p.c., comma 2:

“Nella prima udienza di trattazione il giudice verifica la regolare costituzione del giudizio e, quando occorre, ordina l’integrazione di esso o la notificazione prevista dall’art. 332, oppure dispone che si rinnovi la notificazione dell’atto di appello”.

Si pone, quindi, il problema della possibilità di interpretare gli adempimenti previsti dall’art. 350 c.p.c., comma 2 (integrazione della costituzione irregolare) alla luce dell’art. 180 c.p.c., comma 2 (assegnazione di un termine perentorio per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa).

La questione non era sfuggita a questa Corte nella sentenza n. 19663 del 2016 che aveva evidenziato delle perplessità riguardo alla possibilità, in occasione dell’udienza ai sensi dell’art. 350 c.p.c., di assegnare un termine perentorio per sanare la costituzione, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 182 c.p.c., comma 2. Questo perchè il comma 2 dell’art. 350 c.p.c. non prevede espressamente la concessione di termini per regolarizzare la costituzione, ma semplicemente che “il giudice verifica la regolare costituzione del giudizio e, quando occorre, ordine la integrazione di esso”.

Il passaggio successivo risiede nel doveroso richiamo del criterio della compatibilità, previsto all’art. 359 c.p.c. secondo cui nel procedimento di appello si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per quello di primo grado “se non sono incompatibili con le disposizioni del presente capo”.

A questo punto la tematica va, più propriamente posta, non in termini di applicabilità diretta delle modalità previste dall’art. 182 c.p.c., ma con riferimento alla più sfumata categoria della “non incompatibilità” delle norme dettate per il giudizio di primo grado.

Ove si dovesse fare coincidere la “incompatibilità” con la previsione di adempimenti diversi (tra il giudizio di appello e quello di primo grado), si dovrebbe concludere che il meccanismo dettato dall’art. 182 c.p.c., comma 2, non è compatibile con la disciplina prevista dall’art. 350 c.p.c., perchè tale ultima disposizione non prevede il potere del giudice di invitare le parti a regolarizzare la costituzione con l’assegnazione di un termine durante quella udienza, giacchè è previsto solo un invito a regolarizzare, ma in udienza.

In sostanza, il giudice di secondo grado durante l’udienza del 350 c.p.c. non potrebbe ordinare alla parte di depositare una procura per sanare la nullità dell’atto e neppure ordinare di rinnovare o esibire una procura prodotta all’atto della costituzione. Sarebbe invece consentita la semplice “rinnovazione del rilascio o il rilascio tramite attività spontanea dell’appellante”, ma tutto deve concludersi entro l’udienza ex art. 350 c.p.c.

Ove, invece, la dizione “ordina l’integrazione di esso” (di cui all’art. 350 c.p.c.) dovesse ritenersi “non incompatibile” con gli adempimenti consentiti dall’art. 180 c.p.c., comma 2 (“il giudice assegna un termine perentorio… per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa”) l’esito sarebbe differente.

Ritiene questa Corte i precedenti di legittimità evidenzino un condivisibile indirizzo favorevole a tale seconda opzione.

Questa Corte ha recentemente affermato (Cass. n. 60417 del 2018) che l’invito alla parte a produrre l’atto mancante, nel caso di specie la procura speciale alle liti non depositata, “deve essere fatto in qualsiasi momento anche dal giudice di appello, sicchè solo in esito ad esso il giudice deve adottare le conseguenti determinazioni circa la costituzione della parte in giudizio, reputandola invalida solo nel caso in cui l’invito sia rimasto infruttuoso” (e negli stessi termini, Cass. n. 11359-2014; Cass. n. 19169-2014).

Ed anzi, l’invito riguarda generalmente la produzione di un documento mancante, come la procura generale alle liti, e tale invito oltre che essere rivolto dal giudice istruttore può essere fatto anche dal collegio, “anche dal giudice dell’appello” e la produzione del documento, effettuato nel corso del giudizio di merito (anche di appello) “sana ex tunc l’irregolarità della costituzione” (Cass. n. 3181-2016).

A favore di tale principio si richiama anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. 92172010 e Cass. 28337-2011, in materia di nullità della procura alle liti, oltre alla sezione semplice Cass. 22559-2015) che riguardava l’applicazione dell’art. 182 c.p.c., coma 2 nella formulazione precedente alla riforma introdotta dalla L. n. 69 del 2009.

Le Sezioni Unite interpretavano quel comma, nel senso che il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza era tenuto a promuovere la sanatoria “in qualsiasi fase o grado del giudizio”, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con sanatoria ex tunc.

Più di recente, questa Corte si è espressa per la generale applicazione del principio di sanatoria dell’atto anche nel giudizio di appello, con modalità analoghe a quelle previste per il giudizio di primo grado.

Così, Cass. n. 6884 del 2020 dopo avere richiamato che il principio secondo cui il giudice, quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, assegna alle parti un termine perentorio per la regolarizzazione, si applica anche al giudizio d’appello (Cass. n. 6041 del 13/03/2018), ha precisato che rientra nella previsione dell’art. 182 c.p.c., comma 1 l’ipotesi della procura rilasciata prima del giudizio, che sia enunciata negli atti di causa, ma che non risulti prodotta.

Al contrario, rientrano nella previsione del comma 2, le ipotesi di mancata costituzione delle persone cui spetta la rappresentanza o l’assistenza e di mancato rilascio delle necessarie autorizzazioni e, dopo la modifica normativa, anche le ipotesi di nullità della procura al difensore, evidentemente diverse dall’ipotesi in cui la procura vi sia e sia valida, ma ne risulti soltanto l’omesso deposito agli atti di causa.

Tali condivisibili valutazioni, recentemente espresse da questa Corte, prendono le mosse dal principio affermato dalle Sezioni Unite (Cass. n. 9217 del 2010, citata) secondo cui il giudice (di primo grado) deve promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali.

Pertanto, con riferimento all’art. 182 c.p.c., comma 1 va interpretato nel senso che il giudice che rilevi l’omesso deposito della procura speciale alle liti rilasciata, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., comma 3, che sia stata semplicemente enunciata o richiamata negli atti della parte, è tenuto ad invitare quest’ultima a produrre l’atto mancante, e tale invito può e deve essere fatto, in qualsiasi momento, anche dal giudice d’appello e solo in esito ad esso il giudice deve adottare le conseguenti determinazioni circa la costituzione della parte in giudizio, reputandola invalida soltanto nel caso in cui l’invito sia rimasto infruttuoso (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19169/2014, Cass. Sez. L, n. 9846 del 20/07/2001; Cass. Sez. 1, n. 13434 del 13/09/2002; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9915 del 28/04/2006; Cass. Sez. 3, n. 10123 del 09/05/2011).

Con riferimento all’art. 182 c.p.c., comma 2 va segnalato quanto affermato da questa Corte (Sezione Tributaria) nella decisione n. 16992 del 13/08/2020, secondo cui la disposizione di cui all’art. 182 c.p.c., comma 2, ai sensi della quale, quando il giudice rileva “un difetto di rappresentanza, di assistenza, di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore”, deve assegnare “un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura o per la rinnovazione della stessa”, deve tendenzialmente ritenersi applicabile anche al giudizio di appello, giusta il disposto dell’art. 359 c.p.c.

Orbene, dall’insieme di tali decisioni emerge un orientamento favorevole all’applicazione, al giudizio di appello, dello strumento processuale previsto dall’art. 182 c.p.c., comma 2 attraverso l’assegnazione di un termine perentorio per regolarizzare un vizio di rappresentanza. Ciò in quanto tale disposizioni afferente il giudizio di primo grado risulta “non incompatibile” con gli adempimenti previsti all’art. 350 c.p.c.

Tale impostazione appare condivisibile per tre ordini di ragioni.

In primo luogo perchè l’orientamento di legittimità sopra descritto è conforme al “più generale dovere di positiva collaborazione fra i soggetti del processo”, in un’ottica di perseguimento del diritto di accesso al giudice, ai sensi dell’art. 6, p. 1, CEDU e di limitazione delle interpretazioni formalistiche (principio, da ultimo affermato da Cass. SU n. 26338 del 7 novembre 2019).

In secondo luogo, come ben evidenziato dal Procuratore generale in udienza, tale soluzione è in linea con il principio di conservazione degli atti processuali ai sensi dell’art. 159 c.p.c.

Infine, perchè, accedendo alla tesi opposta, si determinerebbe una sostanziale equipollenza tra il giudizio di appello e quello di legittimità, non giustificata da reali ragioni processuali.

Come rilevato in premessa, il motivo non può trovare accoglimento poichè, nel caso di specie, la Corte territoriale ha solo riscontrato che la procura era agli atti, in quanto esibita in primo grado e ha rimesso la causa sul ruolo per consentire alla controparte di formulare deduzioni. La fattispecie, pertanto, è differente dal tema trattato, perchè il rinvio era finalizzato alla verifica dell’esistenza di un atto già prodotto in primo grado, del quale non era stato possibile apprezzare la effettiva consistenza per la mancata acquisizione del fascicolo di primo grado.

A prescindere da ciò, la censura sarebbe comunque infondata, dovendosi affermare il principio di diritto secondo cui la disposizione di cui all’art. 182 c.p.c., comma 2, secondo cui, quando il giudice rileva “un vizio che determina la nullità della procura al difensore”, deve assegnare “un termine perentorio per… il rilascio della procura o per la rinnovazione della stessa” è applicabile anche al giudizio di appello tale e provvedimento può essere emesso all’udienza prevista dall’art. 350 c.p.c.

Con il secondo motivo si lamenta, ai sensi art. 360 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c. e R.D. n. 1368 del 1941, art. 118 in quanto la Corte territoriale, con motivazione apparente avrebbe rigettato il motivo di gravame con il quale si sosteneva che il Tribunale non aveva mai disposto la discussione della causa. In particolare, la Corte territoriale avrebbe ritenuto sostanzialmente “incomprensibile” tale doglianza, senza adottare alcuna motivazione reale. Al contrario, il motivo di appello riguardava la giustificazione adottata dal primo giudice per avere omesso la descrizione dello svolgimento del processo, mancando di indicare i dati fattuali riferibili al giudizio di prime cure, che sarebbero risultati desumibili anche dai verbali delle udienze di trattazione della causa. Il Tribunale non avrebbe svolto attività istruttoria impedendo, di fatto, alle parti di discutere il libello, in quanto con l’ordinanza del 17 dicembre 2013 aveva rigettato le richieste istruttorie delle parti, rinviando direttamente per la precisazione delle conclusioni.

Il motivo è infondato.

Lo svolgimento del processo costituisce una parte della decisione che non è più necessaria, in conseguenza della nuova formulazione dell’art. 132 c.p.c. Inoltre, l’esposizione dei fatti di causa è, comunque, desumibile da tutti i verbali di causa, relativi anche all’udienza di trattazione. Pertanto, la motivazione della Corte territoriale di non comprensibilità della doglianza è reale e non apparente.

Sotto altro profilo appare oltremodo riduttivo censurare l’attività svolta dal Tribunale con esclusivo riferimento al contenuto dell’ordinanza istruttoria del 17 dicembre 2013, di rigetto delle richieste delle parti e di fissazione dell’udienza di precisazione delle conclusioni, senza considerare le altre attività pacificamente espletate, come quella di concessione dei termini ai sensi dell’art. 183 c.c., comma 6 e di precisazione delle conclusioni, sicuramente idonee ai fini della discussione del libello.

Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, si deduce la nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c. e art. 118 disposizioni di attuazione. In particolare, la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che le richieste risarcitorie si riferissero al solo intervento del (OMISSIS), mentre le stesse erano collegate a una serie di “plurimi accadimenti fattuali” compiuti dall’Azienda in danno della attrice, chiariti e ribaditi anche in appello.

Il motivo è inammissibile.

La censura non si confronta con la decisione impugnata e non ne coglie la ratio decidendi. La Corte territoriale precisa che l’unico inadempimento qualificato rilevante ai fini di una valutazione di colpa professionale era quello relativo all’inesatta diagnosi, nel corso del ricovero del (OMISSIS), che avrebbe comportato la mancata esecuzione dell’intervento di flistelectomia. Ma tale vicenda, secondo la Corte territoriale, non avrebbe rilievo, perchè il pregiudizio astrattamente derivante da tale attività riguarderebbe, eventualmente, il ritardo nell’intervento medesimo, che però è stato rifiutato dalla paziente (dal ritardo, comunque, non sarebbe derivata, nè l’incontinenza urinaria, nè la fistola vescico- vaginale).

Al di fuori di tale vicenda, l’argomentazione della Corte territoriale, che parte ricorrente non coglie, è tesa a precisare che, in occasione dei vari ricoveri ed interventi dell’Azienda, non vengono dedotti inadempimenti qualificati e cioè specifici profili di responsabilità professionale. Infine, il primo intervento, quello del (OMISSIS), è stato correttamente eseguito.

Con il quarto motivo si formulano le medesime censure oggetto del precedente motivo nella parte in cui la Corte territoriale avrebbe ritenuto generiche le allegazioni relative alla carenza di informazioni propedeutiche all’esecuzione dei trattamenti sanitari eseguiti, quando, invece, la ricorrente, avrebbe puntualmente anticipato il proprio intendimento di rifiutare il trattamento sanitario, se fosse stata correttamente informata dai medici dell’Azienda, in ordine ai rischi cui andava incontro (incontinenza urinaria e fistola vescico- vaginale). Inoltre, la Corte territoriale avrebbe erroneamente affermato la novità della questione, ritenendo che la lesione del diritto alla autodeterminazione in conseguenza del mancato consenso informato sarebbe stata prospettata per la prima volta in appello.

Il motivo è infondato.

Come dedotto anche dalla ricorrente a pagina 40 del ricorso, la questione della risarcibilità della lesione del diritto di autodeterminazione per mancanza di informazione adeguata, propedeutica al consenso, è stata disattesa dalla Corte territoriale sulla base di una pluralità di argomentazioni, costituenti tutte autonome motivazioni di rigetto.

In particolare la Corte territoriale ha rigettato la domanda, perchè:

– l’intervento operatorio del (OMISSIS), correttamente eseguito, si riferiva ad a impellenti esigenze di cura che non consentivano una scelta alternativa del paziente. Tale opzione risultava inverosimile “anche se (la paziente fosse stata) resa edotta della possibile complicanza”;

– la violazione del diritto di autodeterminazione era stata correttamente dedotta per la prima volta in appello, mentre in primo grado la censura relativa all’adeguatezza delle informazioni era stata solo genericamente illustrata (paragrafo 12 della citazione); in particolare, senza chiarire quale fosse l’informazione omessa e senza distinguere i singoli interventi;

– la prova testimoniale sull’individuazione delle modalità di informazione era stata dedotta in violazione l’art. 244 c.p.c.;

– nel caso di informazione inadeguata il danno da lesione del diritto di autodeterminazione sarebbe rientrato in quella soglia minima di tollerabilità prevista all’art. 2 Cost. ed imposta dai doveri di solidarietà sociale, trattandosi di meri disagi o fastidi;

Rispetto a tali autonome argomentazioni la ricorrente, dopo avere illustrato la fattispecie del consenso informato (pagine 41-47), ha contestato la seconda (genericità della deduzione in primo grado) e, genericamente, la quarta argomentazione. Ha dedotto, in particolare, che se avesse saputo che uno degli effetti era rappresentato dalla “insostenibile incontinenza urinaria”, non si sarebbe sottoposta all’intervento. Successivamente, ha descritto le vicende fattuali relative al primo intervento del (OMISSIS) ritornando sui profili di responsabilità professionale relativi a “tale epopea”, sottolineando gli effetti dell’incontinenza urinaria lamentati in appello, che troverebbero riscontro nella consulenza di parte del 2012 con una invalidità nella misura del 14%.

A pagina 51 si è occupata nuovamente della seconda argomentazione contestando che la violazione del diritto all’autodeterminazione sarebbe stato invocato per la prima volta in sede di appello soprattutto riguardo all’argomentazione della Corte territoriale secondo cui “l’attrice non chiarì se intendeva denunziare la violazione diritto di autodeterminazione… e sembra essere invocato per la prima volta nel presente grado del giudizio”. Rispetto a tale assunto ha sostento di avere dedotto in primo grado “di non aver mai ricevuto un valido consenso nel corso dei vari trattamenti praticati presso l’ospedale (OMISSIS)”.

La ritualità e completezza della proposizione di tale domanda in primo grado, secondo la ricorrente, avrebbe potuto essere dedotta dal fatto che buona parte dei motivi esaminati in appello riguardavano proprio diritto all’autodeterminazione.

Poi (pagg. 52-54) ha esaminato la questione trattata dalla Corte territoriale, secondo cui non sarebbe chiara l’esistenza -in primo grado- di una specifica domanda di danni da consenso informato e ha trascritto il contenuto del paragrafo 15 dell’atto di citazione relativo al risarcimento di tutti danni, anche “in conseguenza degli interventi chirurgici eseguiti in totale assenza di consenso informato… e quindi senza rendere edotta l’attrice delle possibili conseguenze connesse a tali interventi, quali una insostenibile incontinenza urinaria”.

A pagina 50 ha affrontato il tema della prova testimoniale, tesa a dimostrare che se correttamente informata, avrebbe rifiutato l’intervento. Sotto tale profilo ha evidenziato che la Corte avrebbe erroneamente esaminato il contenuto della memoria ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2 che faceva riferimento alle circostanze capitolate, dal n. 1 a n. 15 della premessa dell’atto di citazione. Tali capitoli di prova sarebbero stati ritualmente formulati; in particolare, quello corrispondente al paragrafo 12 secondo cui l’attrice “non ha mai ricevuto alcun valido consenso informato” e “non si sarebbe certamente sottoposta se messa a conoscenza delle problematiche”.

Come anticipato, sotto tale profilo ha contestato la quarta argomentazione della Corte territoriale, rilevando che siffatti postumi permanenti (14% secondo il ctp) sarebbero certamente superiori alla “soglia minima di tollerabilità”.

Da quanto precede, emerge con evidenza che le censure sono parziali e generiche. In particolare, la prima argomentazione della Corte territoriale, non è contrastata e cioè il fatto che l’intervento operatorio del (OMISSIS), correttamente eseguito, si è reso necessario per impellenti esigenze di cura (cd salva vita) che non consentivano una scelta alternativa della paziente. Tale profilo viene contestato tardivamente in udienza di discussione davanti a questa Corte.

Tale opzione (cioè la rinuncia alla cura) risultava inverosimile “anche se (la paziente fosse stata) resa edotta della possibile complicanza”.

Inoltre, la Corte aggiunge che l’attrice non distingue il tipo di informazione che avrebbe dovuto ricevere in occasione dei differenti interventi medici affrontati e quindi questa genericità e la onnicomprensività della deduzione, non consente di superare la argomentazione del giudice di appello, secondo cui non vi era alternativa all’intervento operatorio del (OMISSIS).

La ricorrente, in definitiva non aggredisce adeguatamente il ragionamento presuntivo della Corte territoriale secondo cui le gravi patologie da cui era affetta la paziente e le impellenti esigenze curative cui era indirizzato l’intervento del (OMISSIS) rendevano estremamente improbabile che la paziente, seppure adeguatamente informata, si sarebbe astenuta dall’eseguirlo.

In secondo luogo, le censure sulla formulazione della prova testimoniale dedotta secondo la Corte territoriale, in violazione dell’art. 244 c.p.c., non possono essere valutate in sede di legittimità e, comunque, rimangono generiche nella parte in cui si riferiscono al citato paragrafo 12.

Infatti, la doglianza riguarda il capitolo tratto dall’originario atto di citazione in cui l’attrice, a pagina 4, dichiarava che non si sarebbe sottoposta agli interventi chirurgici espletati presso l’ospedale (OMISSIS), se fosse stata a conoscenza delle problematiche connesse. Il capitolo è generico e riferito indistintamente a tutti i plurimi ricoveri e agli interventi sanitari e chirurgici eseguiti presso quel nosocomio e difetta della chiara esplicitazione della natura delle problematiche e di ogni sviluppo argomentativo in ordine agli elementi fattuali specifici che il capitolo di prova deve contenere.

Pertanto, poichè due delle quattro autonome motivazioni non sono adeguatamente censurate, il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 100 c.p.c. perchè, ove anche le altre censure fossero fondate, l’esito del ricorso non muterebbe.

Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione in considerazione della particolarità della questione processuale oggetto del primo motivo e del rilievo nomofilattico, possono essere integralmente compensate tra le parti.

La compensazione delle spese di lite renderebbe superfluo l’esame dei profili di regolarità della costituzione in giudizio dell’Azienda ospedaliera, che hanno rilievo esclusivamente sotto il profilo delle spese.

In ogni caso quelle censure infondate. In particolare, con la memoria ex art. 378 c.p.c. la ricorrente deduce la nullità del controricorso rilevando che, nell’asseverazione del difensore, si attesterebbe che il controricorso notificato è conforme all’originale cartaceo, pur trattandosi di notifica a mezzo pec di un documento in formato PDF nativo e ciò anche con riferimento alla dichiarazione di conformità all’originale cartaceo.

La censura è infondata atteso che l’asseverazione si riferisce anche alla conformità all’atto in formato digitale.

La ricorrente eccepisce, altresì, la nullità della procura alle liti perchè la firma di autentica del difensore si riferirebbe anche a quella apposta da altro soggetto, non ben individuato.

La doglianza è infondata, perchè il mandato alle liti è conferito da V.C., nella qualità di L.R. di A.O.R.N. (OMISSIS) e tale sottoscrizione è autenticata, mentre è irrilevante la firma apposta anche dal Dott. C., che riveste diverso incarico all’interno della medesima Azienda.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

PQM

Rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese di lite.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2021

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