Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13580 del 19/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 19/05/2021, (ud. 03/02/2021, dep. 19/05/2021), n.13580

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26084-2016 proposto da:

ORSANIGO SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, V.E.Q.VISCONTI 20,

presso lo studio dell’avvocato ANGELO PETRONE, rappresentata e

difesa dagli avvocati LUCIO MODESTO MARIA ROSSI e FRANCESCO

D’ALONZO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1783/2016 della COMM. TRIB. REG. LOMBARDIA,

depositata il 29/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/02/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del

sostituto procuratore generale Dott. CARDINO ALBERTO che ha chiesto

il rigetto del ricorso.

 

Fatto

ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA

1. La società Orsanigo impugnava, innanzi alla CTP di Lecco, un avviso di liquidazione con cui l’Ufficio recuperava la somma di Euro 29.8400 a titolo di imposta di registro dovuta in relazione alla cessione immobiliare disposta dalla fondazione Isabella in suo favore, la quale avente ad oggetto un immobile adibito a scuola materna doveva ritenersi assoggettata ad Iva.

Il ricorso si fondava sul deficit motivazionale dell’atto impositivo, avendo l’Agenzia delle Entrate rilevato che la cessione non risultava essere posta in essere nell’esercizio di impresa.

La CTP di Lecco respingeva il ricorso affermando che sebbene sintetica la motivazione dell’atto opposto aveva consentito alla società contribuente di proporre adeguata difesa e non risultando che la Fondazione cedente avesse agito nell’occasione quale esercente l’attività di impresa, anche perchè posta in liquidazione, respingeva le doglianze della ricorrente.

Proposto appello sul rilievo della carenza motivazionale dell’atto impositivo e sulla veste commerciale della Fondazione che non risultava cancellata dal Registro dalle Imprese e che aveva presentato le dichiarazioni di redditi di impresa per natura commerciale oltre ad essere in possesso della partita Iva, la CTR della Lombardia, confermava la decisione di primo grado.

Ricorre per la cassazione della sentenza n. 1783/2016, depositata il 29.03.2016, la società contribuente svolgendo tre motivi.

L’Agenzia delle entrate si è costituita al solo fine di partecipare all’udienza. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Diritto

ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI DIRITTO

2. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza impugnata, denunciando violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, e dunque la nullità della motivazione della CTR per carenza motivazionale, avendo reiterato acriticamente la decisione di primo grado senza esplicare le ragioni per le quali riteneva l’idoneità della motivazione dell’atto opposto.

3. Con il secondo mezzo, si prospetta la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 35, comma 4, e art. 17, ex art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè violazione dell’art. 112 c.p.c., e dell’art. 132 c.p.c., comma 4, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 8 ter, dell’art. 30 c.c., e del D.P.R. n. 361 del 2000, art. 6, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4; per avere i giudici regionali escluso che la Fondazione esercitasse attività commerciale avendo sospeso le dichiarazioni dei redditi dal 2010 al 2013, quest’ultimo anno epoca in cui è avvenuta la cessione dei cespiti ed avendo proceduto alla cessione per finalità liquidatorie. Sostiene la contribuente che la fondazione era titolare della partita Iva che si conserva sino alla cessazione dell’attività commerciale e non sino alla liquidazione dell’ente. Insiste altresì sulla natura strumentale dell’immobile accatastato in categ. B/5 e sull’erronea qualificazione della natura dell’attività posta in essere sulla base delle finalità liquidatorie della cessione.

4. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 24 Cost., e dell’art. 112c.p.c., e art. 13c.p.c., n. 4, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4; per avere il giudice di appello fondato la propria decisione su elementi quale la mancata presentazione delle dichiarazione dei redditi e le finalità liquidatorie della società che non risultano nel corpo dell’atto impugnato nè nell’atto di appello.

5. La prima censura è destituita di fondamento.

Occorre premettere che, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma l, n. 5), disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012 – applicabile alla sentenza impugnata in quanto pubblicata successivamente alla data 11.9.2012 di entrata in vigore della norma modificativa -, non trova più accesso al sindacato di legittimità della Corte il vizio di mera insufficienza od incompletezza logica dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze probatorie, qualora dalla sentenza sia evincibile una “regula juris” che non risulti totalmente avulsa dalla relazione logica tra “premessa (in fatto)- conseguenza (in diritto)” che deve giustificare il “decisum”.

Rimane quindi estranea al vizio di legittimità “riformato”, tanto la censura di “contraddittorietà” della motivazione (peraltro attinente ad una incompatibilità logica intrinseca al testo motivazionale, in quanto determinata dalla reciproca elisione di affermazioni oggettivamente contrastanti, non altrimenti risolvibile, che impedisce di discernere quale sia il diritto applicato nel caso concreto: cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 25984 del 22/12/2010), quanto la censura che, anteriormente alla modifica della norma processuale, veicolava il vizio di “insufficienza” dello svolgimento argomentativo, con il quale veniva imputato al Giudice di merito di avere tratto, dal materiale probatorio esaminato, soltanto alcune delle conseguenze logiche che il complesso circostanziale avrebbe consentito di desumere, pervenendo ad un accertamento meramente parziale della “res litigiosa”, ovvero di non avere considerato elementi costituenti “fatti secondari” che – se pur non decisivi, da soli, a fornire la prova contraria favorevole al ricorrente tuttavia – erano idonei ad inficiare o quanto meno a revocare in dubbio la efficacia dimostrativa (dei fatti costitutivi della pretesa) attribuita ai diversi elementi indiziari utilizzati dal Giudice a fondamento della decisione, ovvero ancora erano idonei ad evidenziare eventuali lacune o salti logici dello stesso ragionamento rispetto alla corretta applicazione dei criteri induttivo-deduttivo della logica formale.

La nuova formulazione del vizio di legittimità, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012), ha infatti limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità(cfr. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; n. 23940 del 2017; n. 22598 del 2018). Consegue che, se per un verso deve ritenersi oramai esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, è pur vero che, per altro verso, il provvedimento il cui apparato argomentativo si colloca al di sotto della predetta soglia “minima costituzionale” è censurabile per omessa osservanza dell’obbligo di motivazione affermato dall’art. 111 Cost., comma 6, e dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, concretando tale omissione una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (v. Sez. 3, Sentenza n. 7402 del 23/03/2017, Rv. 643692).

Ebbene, nella specie la motivazione risulta del tutto idonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, avendo la CTR chiaramente evidenziato che la motivazione dell’atto opposto aveva consentito alla contribuente di comprendere le ragioni della tassazione e di predisporre adeguate difese.

Del resto, la CTR si è conformata ai principi esposti da questa Corte che ha ribadito che “in tema di accertamento tributario, l’insufficienza motivazionale dell’atto impositivo, che ne giustifica l’annullamento, non esclude che il contribuente possa difendersi nel merito, deducendo, mediante l’impugnazione, anche vizi di merito, poichè tale difetto non può essere sanato, ex art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo in quanto l’atto ha la funzione di garantire una difesa certa anche con riferimento alla delimitazione del “thema decidendum”(Cass. n. 21997 del 17/10/2014; n. 9810 del 2014). Nella specie, la contribuente aveva spiegato le sue difese sia in ordine alla qualificazione catastale del bene ceduto, sia in merito alla compilazione di quadri relativi ai redditi di impresa delle ultime dichiarazioni presentate dalla fondazione ed al possesso della partita iva, con ciò dimostrando di aver esattamente compreso che il recupero della imposta di registro originava dalla circostanza che l’Agenzia reputava che la cessione dell’immobile non fosse avvenuta nell’ambito dell’attività di impresa.

5. Parimenti destituito di fondamento è il secondo mezzo.

Orbene, deve rilevarsi che per gli enti non commerciali, al fine di determinare il trattamento da riservare, ai fini dell’IVA, alle cessioni di immobili, anche strumentali, occorre verificare se gli immobili stessi appartengono al patrimonio immobiliare utilizzato per lo svolgimento dell’attività istituzionale ovvero se tali immobili sono impiegati nell’attività commerciale svolta dall’ente. Solo in tale ultimo caso l’operazione è rilevante ai fini del tributo.

Nel caso in esame emerge che l’edificio in discorso sin dal suo acquisto era stato adibito a scuola materna, ma alcuna prova che la cessione sia avvenuta nell’ambito dell’esercizio di attività commerciale è stata fornita dalla società ricorrente; atteso che nè il possesso della partita iva nè tanto meno le dichiarazioni dei redditi presentate in anni non meglio precisati dalla predetta, dimostrano la sussistenza del presupposto di assoggettamento ad Iva.

Tanto premesso, la cessione dell’immobile è stata erroneamente assoggettata ad IVA e, dunque, correttamente, l’Ufficio ha provveduto ad assoggettarla ad imposta di registro notificando l’originario atto impositivo. Ed invero, osserva il Collegio, che assorbente al fine di qualificare la cessione de qua come atto di disposizione del bene del proprio patrimonio (dunque assoggettabile ad imposta di registro proporzionale) e non come atto rientrante nell’esercizio di attività commerciale (anche nella forma della liquidazione), è la circostanza che nell’immobile in questione non venisse svolta già da tempo alcuna attività di impresa, tant’è che l’ente non presentava dichiarazioni dei redditi dal 2010 sino alla data della cessione.

In tema di IVA, infatti, la nozione di esercizio di impresa commerciale, non coincide con quella civilistica, ma va ricavata dalla normativa comunitaria e, in particolare, dalla sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, secondo cui si intende inerente all’esercizio dell’impresa ogni operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità. L’accertamento in ordine alla riconducibilità della cessione di un bene ad un’attività di commercio posta in essere nell’esercizio abituale e professionale di un’impresa, valutato in relazione alle concrete modalità ed al contenuto oggettivo e soggettivo dell’atto, costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Sez. 5, Sentenza n. 27208 del 20/12/2006; n. 16534/2017). In tale contesto, dunque, l’assoggettabilità ad IVA del trasferimento di un immobile, anzichè all’imposta proporzionale di registro, implica l’accertamento in concreto, valutato in relazione alle modalità ed al contenuto oggettivo e soggettivo dell’atto, che tale trasferimento sia stato posto in essere nell’esercizio abituale o professionale di un’impresa.

Non va inoltre trascurato che la cessione di un bene da parte di una impresa non sconta l’imposta di registro solo successivamente alla cessazione dell’attività imprenditoriale, poichè essa comprende anche la fase di liquidazione D.P.R. IVA, ex art. 35.

Del resto, la stessa dichiarazione di cessazione dell’attività, che, nella sequenza prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 35, è successiva al compimento delle operazioni di liquidazione, ha finalità, per così dire, di anagrafe tributaria e non ha valore costitutivo del credito per le restituzioni, (in tal senso, Cass. n. 4234 del 2004; Cass. n. 13920 del 2011; Cass. n. 5851 del 2012; Cass. n. 5893 del 2019), principio che trova conferma nell’interpretazione della sesta direttiva, art. 22, n. 1 – cui il decreto IVA, art. 35, può senz’altro correlarsi – data dalla Corte di Giustizia (sent, 22 dicembre 2010 C-438/09, punto 34, e giurisprudenza ivi richiamata), secondo cui l’obbligo per i soggetti passivi di dichiarare l’inizio, la variazione e la cessazione delle loro attività “non autorizza affatto gli Stati membri, in mancanza di tale dichiarazione, a posticipare l’esercizio del diritto alla detrazione sino all’inizio effettivo dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili oppure a precludere al soggetto passivo l’esercizio di tale diritto” restando, così, confermato che il meccanismo dell’IVA si riconnette alla sussistenza dei presupposti materiali e non di elementi formali.

Nel caso in esame, corretto è dunque l’assunto contenuto nella sentenza impugnata per il quale lo svolgimento di una precedente attività commerciale fosse del tutto irrilevante ai fini dell’assoggettabilità ad IVA, rilevando infatti l’attualità dello svolgimento dell’attività commerciale con riferimento all’immobile in questione, al momento della cessione, e non la circostanza che in passato detta attività fosse svolta.

Se, infatti, in base alla normativa nazionale ed alla sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, deve intendersi come inerente all’esercizio dell’impresa ogni operazione che comporti lo sfruttamento di un bene materiale per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità e se, pertanto, l’accertamento in ordine alla riconducibilità della cessione di un bene ad un’attività di commercio posta in essere nell’esercizio abituale e professionale di un’impresa costituisce apprezzamento di fatto insindacabile in questa sede se congruamente motivato, deve ritenersi corretto quanto sostenuto nella sentenza impugnata, laddove afferma sulla base della valutazione del materiale istruttorio non risultava l’esercizio dell’attività di impresa da parte della fondazione.

Non può quindi sindacarsi – a meno di non sostituire l’apprezzamento di fatto svolto dalla CTR, operazione inibita a questo Giudice di legittimità – l’approdo valutativo cui è pervenuto il giudice di appello, laddove afferma che l’atto di cessione non rientra, per le argomentazioni esposte, nell’ambito dell’esercizio di attività di impresa, non potendo certo sostenersi che la cessione del medesimo bene immobile fosse riconducibile ad un’attività di commercio, D.P.R. n. 633 del 1972, ex artt. 1 e 4, che presuppone pur sempre che la stessa sia posta in essere nell’esercizio “abituale” e professionale di un’impresa, abitualità evidentemente mancante nel caso di specie; con la conseguenza che la cessione non poteva qualificarsi come inerente all’esercizio dell’impresa, in quanto non si trattava di operazione comportante lo sfruttamento del bene immobile per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità, secondo la citata nozione della sesta direttiva.

6. Il terzo motivo è anch’esso infondato, avendo la contribuente sostenuto che i giudici regionali avrebbero attinto fonti di prova non al di fuori del processo, bensì da “atti diversi dall’atto impositivo e dal suo atto di impugnazione”. Il che non esclude che dette informazioni siano state attinte dalla documentazione prodotta dalle parti ovvero dalle difese svolte dalla stessa Agenzia per contrastare l’impugnazione.

7. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

In assenza di costituzione dell’Agenzia delle Entrate, non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

PQM

La Corte:

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della sezione tributaria della Corte di Cassazione, tenuta da remoto, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2021

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