Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13579 del 21/05/2019

Cassazione civile sez. III, 21/05/2019, (ud. 12/10/2018, dep. 21/05/2019), n.13579

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1889-2017 proposto da:

L.M.M., A.V., A.S.,

A.G.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MANFREDI 11,

presso lo studio dell’avvocato GIULIO VALENTI, rappresentati e

difesi dall’avvocato IGNAZIO VALENZA giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrenti –

contro

AMISSIMA ASSICURAZIONI SPA, (già CARIGE ASSICURAZIONI SPA), in

persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DELLE FORNACI 38, presso lo studio

dell’avvocato FABIO ALBERICI, rappresentata e difesa dall’avvocato

ALBERTO INFANTINO giusta procura in calce al controricorso;

CSM Snc di G.C. & C. s.n.c., in persona del suo

legale rappresentante pro-tempore Sig. M.F.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. P. DA PALESTRINA 19,

presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO PONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato AURELIO CACCIAPALLE, giusta procura a margine

del controricorso;

A.N.A.S. SPA, in persona del suo Direttore Legale e Procuratore

speciale Avv. R.C., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA CRESCENZIO 17/A, presso lo studio dell’avvocato MICHELE CLEMENTE

che la rappresenta e difende giusta procura speciale notarile;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1099/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 07/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/10/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale Dott. PEPE ALESSANDRO, che ha

concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso di VITO AVARELLO più

altri con riferimento ai motivi 2 e 5, cassando con rinvio la

gravata sentenza della Corte d’Appello di Palermo.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. A.V., L.M.M., A.S., A.G.M. e A.P. ricorrono, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 1099/16, del 26 aprile 2016, della Corte di Appello di Palermo, che – respingendo il gravame principale dagli stessi esperito contro la sentenza n. 27/11 dal Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Licata (e, per guanto qui ancora di interesse, accogliendo quello incidentale, in punto di condanna alle spese di lite, della società CSM S.n. c. di C.G.) – ha rigettato la domanda risarcitoria proposta dagli odierni ricorrenti, verso la predetta società CSM S.n. c. di C.G. (d’ora in poi, “CSM”) e l’ANAS, Ente Nazionale per le Strade S.p.a. (d’ora in poi, “ANAS”).

2. Riferiscono, in punto di fatto, i ricorrenti di aver adito il Tribunale agrigentino per conseguire, nei confronti della società CSM e dell’ANAS, il risarcimento dei danni conseguenti al decesso del proprio congiunto, A.P..

Deducevano, infatti, in quella sede processuale, che costui mentre percorreva la S.S. n. (OMISSIS), in direzione di marcia (OMISSIS), alla guida del proprio motoveicolo – si scontrava frontalmente con un autocarro, in prossimità di una strettoia per lavori in corso, decedendo per effetto dell’impatto.

Gli allora attori ascrivevano la responsabilità del sinistro mortale sia all’impresa esecutrice dei lavori, ex art. 2050 c.c., ovvero la società CSM, sia all’ANAS, ente proprietario della strada, ex art. 2051 c.c., nonchè ad entrambi, ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Costituitesi in giudizio le convenute, l’ANAS veniva autorizzata a citare in giudizio, in garanzia, la Carige Assicurazioni S.p.a.

All’esito dell’istruttoria, l’adito Tribunale, pur affermando in capo alle convenute – a dire degli odierni ricorrenti – la sussistenza dei titoli di responsabilità invocati dagli attori, rigettava la domanda risarcitoria, sul rilievo che il comportamento di A.P. si sarebbe posto come causa esclusiva dell’evento lesivo. Al rigetto della domanda risarcitoria conseguiva, peraltro, la compensazione integrale delle spese di lite.

Proposto gravame principale dagli odierni ricorrenti, nonchè appello incidentale dalla società CSM relativamente alla disposta compensazione delle spese di lite, la Corte panormita, rigettando il primo ed accogliendo il secondo, confermava la reiezione della domanda risarcitoria e condannava gli odierni ricorrenti al pagamento, in favore di CSM, delle spese di lite di primo grado. Per quanto qui ancora di interesse, il giudice di appello poneva a carico degli appellanti principali anche il pagamento delle spese del secondo grado di giudizio, in favore di tutte le convenute.

3. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione gli A.- L.M., sulla base di sei motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., nonchè degli artt. 112,324,329,342 e 346 c.p.c.

Si censura la sentenza impugnata sul presupposto che la decisione resa in primo grado avrebbe affermato la sussistenza della responsabilità sia di CSM, qualificando come attività pericolosa l’apertura di cantieri edili su strade aperte al traffico (e ravvisando nel comportamento della stessa violazione del D.P.R. n. 16 dicembre 1992, n. 495, artt. 34e 42), sia di ANAS, a titolo, invece, di omessa custodia.

Pertanto, siffatti temi – in assenza di appello incidentale delle convenute – non avrebbero potuto essere messi in discussione dal giudice di seconde cure, donde la violazione delle norme summenzionate, “concernenti la corrispondenza tra il chiesto e pronunciato, il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” (con conseguente ultrapetizione della pronuncia sul punto), nonchè di quelle attinenti al giudicato formale e sostanziale”.

3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce violazione e falsa applicazione del medesimo D.P.R. n. 495 del 1992, art. 42 nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.p., comma 2, n. 4), e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1.

In particolare, si censura la sentenza impugnata laddove ha affermato che il predetto art. 42 del citato decreto (in base al quale, “se la larghezza della strettoia è inferiore a mt. 5,60, occorre istituire il transito a senso unico alternato nel tempo”) non troverebbe applicazione nel caso in esame, disattendendo le risultanze della CTU, secondo cui, la misura della carreggiata – nel tratto interessato dal restringimento, nonchè teatro del sinistro – variava, per larghezza, da mt. 5,30 a mt 6,00.

Orbene, la scelta della Corte territoriale di disattendere la valutazione del proprio ausiliario si fonderebbe su una semplice presunzione, suggerita da parte avversa, secondo cui il rilievo tecnico – effettuato dal consulente d’ufficio circa due anni dopo l’incidente “più che verosimilmente” sarebbe stato compiuto prendendo come riferimento linee di margine modificate nel tempo. In tale prospettiva, il giudice di appello avrebbe valorizzato una fotografia allegata da uno dei tecnici di parte, nella quale si intravede una vecchia linea di margine sbiadita più vicina al ciglio della strada, accanto a quella in bianco, più evidente, usata come riferimento dal consulente tecnico d’ufficio.

Su tali, errate, basi la Corte di Appello avrebbe pertanto escluso l’inosservanza del citato art. 42, donde la violazione delle altre norme sopra richiamate, finendo, così, con l’ignorare l’incidenza – in termini di efficienza concausale – esercitata da detta inosservanza nell’eziologia del sinistro, dal momento che l’istituzione di un senso unico alternato, imposta dalla norma suddetta, avrebbe costituito misura idonea a scongiurare l’evento mortale, impedendo ai veicoli viaggianti delle opposte direzioni di marcia di occupare contemporaneamente la medesima strettoia e, dunque, di fronteggiarsi e collidere, come avvenuto nel caso di specie.

3.3. Con il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del medesimo D.P.R. n. 495 del 1992, nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1.

La censura investe, in questo caso, l’esclusione della violazione dell’art. 34 del già citato decreto, che impone, in presenza di una strettoia, il ricorso a “coni” e “delineatori flessibili”, avendo ritenuto, invero, il giudice di appello che, nella specie, fossero state comunque adottate misure parimenti efficaci.

In particolare, secondo la Corte territoriale la società CSM avrebbe ottemperato alla norma suddetta, scegliendo di utilizzare delle barriere in cemento – a suo dire più efficaci degli strumenti imposti dalla norma – per delimitare, ai margini della carreggiata, la zona di lavoro.

Deducono i ricorrenti che, in realtà, la violazione della norma “de qua” consisterebbe nel fatto che la ditta esecutrice dei lavori non aveva provveduto a realizzare una separazione provvisoria degli opposti sensi di marcia attraverso il ricorso agli strumenti suindicati, essendosi, così, nuovamente ignorata – da parte della sentenza impugnata – una circostanza che sarebbe stata idonea ad escludere che il sinistro mortale di cui fu vittima l’ A. abbia trovato nella condotta dello stesso la sua causa esclusiva.

3.4. Con il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 495 del 1992, art. 34 nonchè del’art. 111 Cost., comma 6, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1.

Sulla falsariga delle due censure che precedono, si lamenta, questa volta, l’inosservanza della norma che impone l’adozione di segnaletica orizzontale temporanea e di dispositivi retroriflettenti.

In particolare, si censura la sentenza impugnata in quanto ha ritenuto che la norma “de qua” non dovesse applicarsi al caso di specie, in considerazione della temporaneità del cantiere, nel senso che esso sarebbe stato “allestito di giorno in giorno” in relazione al progredire dei lavori.

Si tratterebbe, tuttavia di affermazione smentita dalla stessa difesa della CSM, giacchè essa, nella propria comparsa di costituzione in appello, non solo avrebbe confermato la necessità di applicare le misure previste dalla norma in questione, ma avrebbe pure attestato che il cantiere non era per nulla mobile ed allestito “di giorno in giorno”, avendo riferito che in occasione del sinistro esso era ancora in fase di allestimento, in quanto i lavori non erano ancora iniziati.

Anche in questo caso, pertanto, l’omissione di CSM – secondo i ricorrenti – avrebbe avuto un’incidenza causale decisiva nella verificazione dell’evento mortale. Difatti, il persistere della segnaletica orizzontale di colore bianco sul manto stradale (pur all’esito del già operato restringimento della carreggiata), disegnando ancora l’originale ampiezza delle due corsie di marcia, avrebbe indotto il motociclista a rimanere all’interno della propria corsia di marcia nella convinzione di procedere regolarmente, ciò che escluderebbe la possibilità di ritenere il suo comportamento “imprevedibile ed eccezionale”, e dunque la sola causa del sinistro mortale occorsogli.

Si assume, in sostanza, che l’ A. (anzi, ciascuno dei conducenti dei veicoli scontratisi) sia stato tratto in inganno dalla perdurante presenza della segnaletica orizzontale bianca, la quale, se non addirittura da oscurare, andava sostituita con quella temporanea di colore giallo.

3.5. Con il quinto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 20502051 e 2697 c.c.

Si censura, in particolare, il punto della sentenza impugnata nel quale si afferma che gli odierni ricorrenti non avrebbero provato la “sussistenza dell’obbligo della ditta esecutrice dei lavori di predisporre il senso unico alternato”.

Al riguardo, si osserva come le fattispecie di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c. siano soggette ad un’eccezione rispetto al principio generale secondo cui chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.

In particolare, in caso di responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa, il danneggiato ha l’onere solo di provare l’esistenza dell’attività stessa e dell’evento dannoso verificatosi, nonchè il nesso causale tra l’una e l’altra. Per contro, è il convenuto che, per esonerarsi da responsabilità, deve fornire non la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza che disciplinano l’attività stessa, bensì la prova positiva di avere impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l’evento dannoso. E ciò restando inteso, peraltro, che – in presenza di oggettiva violazione di norme di legge o di regolamento da parte dell’esercente l’attività pericolosa – rimane preclusa anche la possibilità di fornire la prova contraria, atteso che la violazione costituisce, di per sè, elemento oggettivamente idoneo a fondare la responsabilità, non più superabile in modo alcuno (viene citata, in particolare, Cass. Sez. 3, sent. 13 maggio 2003, n. 7298).

3.6. Infine, il sesto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, lamentando l’omessa pronuncia circa la responsabilità delle convenute appellate, in quanto ipotizzata anche ai sensi dell’art. 2043 c.c.

4. Ha resistito l’ANAS, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendo la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza del ricorso.

L’inammissibilità del ricorso discenderebbe, innanzitutto, dalla carenza di interesse ex art. 100 c.p.c., dal momento che l’impugnazione non avrebbe attinto l’effettiva “ratio decidendi” della sentenza impugnata, che ha escluso la responsabilità delle convenute sul presupposto del difetto di prova della incidenza, rispetto alla produzione dell’evento dannoso, dell’efficacia almeno concausale delle omissioni ad esse addebitate.

Si assume, infatti, che i ricorrenti non avrebbero rivolto alcun specifico motivo di impugnazione in ordine a tale statuizione, probabilmente consci del fatto che l’accertamento del nesso causale tra l’azione e l’evento dannoso costituisce una “quaestio facti” riservata al giudice di merito it sottratta al sindacato di legittimità (viene citata Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439).

Quanto, poi ai singoli motivi, si eccepisce l’inammissibilità del primo, giacchè fondato su di un documento, la sentenza di primo grado, che non risulta neppure essere stata depositato in questa sede, ed inoltre perchè il motivo avrebbe dovuto essere proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

In ordine, invece, ai motivi di ricorso secondo, terzo e quarto, si esclude che gli stessi si risolvano nella denuncia di un “errore di sussunzione”, il quale presuppone che i fatti oggetto di causa siano incontroversi, ma ricondotti ad un’errata norma di legge. Per contro, ciò che si contesterebbe nel caso di specie è proprio l’accertamento di fatto svolto dalla Corte territoriale, ormai sindacabile solo nei ristretti limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo novellato dal legislatore del 2012.

Privo di specificità, invece, sarebbe il quinto motivo, poichè la Corte di Appello di Palermo non avrebbe affatto accertato l’applicabilità delle “presunzioni di colpa” previste dagli artt. 2050 e 2051 c.c.; conseguentemente, i ricorrenti, per dolersi della asserita inversione dell’onere della prova, avrebbero dovuto previamente impugnare la decisione della Corte territoriale per omessa sussunzione della fattispecie concreta sottoposta al suo esame in taluna delle ipotesi di cui alle norme suddette.

Infine, inammissibile sarebbe anche l’ultimo motivo di ricorso, visto che attraverso di esso non viene affatto lamentato l’omesso esame di un fatto, bensì della questione relativa alla supposta applicabilità, alla fattispecie concreta, dell’art. 2043 c.c.

5. Anche la società CSM ha resistito, con controricorso all’impugnazione principale, chiedendone la declaratoria di inammissibilità o il rigetto.

Quanto, in particolare, al primo motivo di ricorso, si esclude la presenza nella sentenza di primo grado di una statuizione che abbia attribuito la responsabilità dell’occorso ad essa società CSM. Ne costituirebbe conferma, del resto, la stessa decisione di compensare le spese di lite, nella quale pure vi è un riferimento ad una asserita responsabilità di CSM, dal momento che la disposta compensazione viene dichiaratamente assunta “nonostante il rigetto integrale delle pretese attoree”.

Inoltre, anche CSM ritiene che i motivi secondo terzo e quarto investano profili di accertamento di fatto, riservati esclusivamente al giudice di merito, sottolineando, invece, con riferimento al quinto motivo, che lo stesso è formulato sul presupposto erroneo della riscontrata esistenza di violazioni di legge in capo ad essa contro ricorrente.

Infondato, infine, sarebbe anche l’ultimo motivo di ricorso, atteso che già la sentenza di primo grado ha escluso la ricorrenza, nel caso in esame, della fattispecie della “insidia stradale”.

6. Ha proposto controricorso anche la società Amissima Assicurazioni S.p.a. (già Carige Assicurazioni S.p.a.), chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso, e ciò sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte dalle altre controricorrenti.

7. Nel presente giudizio è intervenuto il Procuratore Generale presso questa Corte, in persona di un suo sostituto, chiedendo accogliersi il ricorso con riferimento ai motivi secondo e quinto.

8. I ricorrenti e l’ANAS hanno presentato memoria, insistendo nelle rispettive argomentazioni e replicando a quelle avversarie, nonchè – nel caso di ANAS – a quelle del Procuratore Generale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

9. Il ricorso va accolto, sebbene nei limiti di seguito precisati.

9.1. Il primo motivo non è fondato.

9.1.1. Va, infatti, qui osservato – riproponendo quanto di recente ritenuto da questa Corte – che “sull’accertamento compiuto dal primo giudice ai fini del rigetto della stessa domanda attrice non si è formato alcun giudicato, il quale non si determina sul “fatto”” (nel caso che qui occupa, costituito dalla ipotizzata responsabilità di CSM ed ANAS, ai sensi, rispettivamente degli artt. 2050 e 2051 c.c.), “ma su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia; con la conseguenza che l’appello (da parte del soccombente, senza alcuna necessità di appello incidentale della parte totalmente vittoriosa, come nella specie), motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi della suddetta statuizione minima suscettibile di giudicato” (ovvero, nella specie, la pretesa inidoneità della condotta della vittima del sinistro a porsi come causa esclusiva dello stesso) “apre il riesame sull’intera questione che essa identifica ed espande nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene coessenziali alla statuizione impugnata, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 16 maggio 2017, n. 12202, Rv. 644289-01).

Pertanto, nessuna violazione, nè delle norme sul giudicato, nè di quella sull’effetto devolutivo dell’appello, ricorre nel caso di specie.

9.2. I motivi secondo, terzo, quarto e quinto – che data la loro connessione si prestano ad una disamina congiunta – sono, invece, fondati, per quanto di ragione.

9.2.1. Sul punto, si deve muovere dalla seguente constatazione, ovvero dalla – almeno astratta – riconducibilità della fattispecie per cui è causa alle norme di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c., quanto, rispettivamente, alle posizioni di CSM ed ANAS.

Invero, con specifico riferimento alla posizione del primo di tali soggetti, è da accogliere l’impostazione dei ricorrenti secondo cui come osservato già da tempo da questa Corte – la “attività di esecuzione di lavori sulla pubblica strada è da considerare pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., costituendo i lavori stessi fonte di pericolo per gli utenti”. Di conseguenza, “l’esercente l’attività in questione è assoggettato alla presunzione di responsabilità di cui alla predetta norma codicistica in relazione ai danni subiti dagli utenti della strada a causa e nello svolgimento dell’attività, presunzione che lo stesso può vincere fornendo la dimostrazione di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”, misure nell’individuazione delle quali “egli dispone di un certo margine di discrezionalità”, fermo restando che tale facoltà di scelta “non investe però quelle misure preventive che già la legge impone di adottare, ma è relativa solo alle misure aggiuntive, che la situazione del caso concreto e/o i progressi della tecnica consigliano”, sicchè “deve ritenersi non superata la presunzione di responsabilità da parte dell’esercente l’attività pericolosa che abbia adottato misure diverse da quelle prescritte da norme legislative (o regolamentari), senza che vi sia alcuna possibilità, in tal caso, di valutarne l’idoneità” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 13 maggio 2003, n. 7298, Rv. 562953-01; in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 24 novembre 2003, n. 17951, Rv. 568395-01).

Già in relazione a tale aspetto, dunque, risulta errata l’affermazione della Corte territoriale, laddove ha posto a carico dei ricorrenti la dimostrazione della sussistenza delle condizioni che imponevano alla società CSM di istituire il senso unico alternato, essendo, viceversa, a carico della stessa – per superare la presunzione di responsabilità ex art. 2050 c.c. – la prova di aver adottato la misura “de qua”, legislativamente imposta, e dunque presuntivamente idonea ad evitare il danno.

Sussiste, pertanto, la dedotta violazione anche dell’art. 2697 c.c., configurabile “nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (cfr. da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01).

9.2.2. Ma vi è di più.

9.2.2.1. Resta, infatti, inteso che – in caso di “di insussistenza di una o alcune di dette misure idonee ad evitare il danno” – “il fatto del danneggiato” possa comunque “produrre effetti liberatori”, purchè “per la sua incidenza e rilevanza” sia, però, “tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra attività pericolosa e l’evento” (e non già quando costituisca “solo un elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne avesse reso possibile l’insorgenza a causa dell’inidoneità delle misure preventive adottate, da valutarsi, quindi a norma dell’art. 1227 c.c., comma 1)”, e ciò in quanto la “disposizione normativa di cui all’art. 2050 c.c. presume (…) la colpa dell’esercente attività pericolosa per danni cagionati a terzi” (così Cass. Sez. 3, sent. n. 7298 del 2003, cit.), ammettendo, così, che detta presunzione possa essere vinta.

Analogamente, e quanto alla posizione di ANAS, va richiamato il principio secondo cui “l’ente proprietario di una strada si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanente connesse alla struttura ed alla conformazione della stessa e delle sue pertinenze”, restando fermo, tuttavia, “che su tale responsabilità può influire la condotta della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art. 1227 c.c.” (Cass. Sez. 3, ord. 1 febbraio 2018, n. 2481, Rv. 647935-01).

Nondimeno, una simile duplice evenienza (ovvero, la possibilità che il contegno osservato dalla vittima del sinistro recida, sul piano appunto eziologico, sia il nesso tra l’inosservanza delle misure normativamente prescritte per neutralizzare la situazione di pericolo e l’evento dannoso, sia quello tra custodia della “res” e danno) è ipotizzabile, nel primo caso, solo quando “questo comportamento del danneggiato si connoti come imprevedibile ed inevitabile, al momento della predisposizione delle misure cautelative, e tale da costituire una causa sopravvenuta da sola efficiente nella produzione dell’evento ed idonea a recidere ogni nesso di causalità con l’attività pericolosa, che assume il ruolo di mera occasione rispetto all’altrui imprudenza e negligenza” (Cass. Sez. 3, sent. n. 7298 del 2003, cit.), ovvero, nel secondo, quando la condotta della vittima, come detto, “sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto” (Cass. Sez. 3, ord. 1 febbraio 2018, n. 2481, Rv. 647935-01).

Orbene, siffatta valutazione è stata, nella specie, compiuta dalla Corte territoriale, la quale – proprio con riferimento alla (già in appello) dedotta violazione delle norme di cui al D.P.R. n. 495 del 1992 – ha escluso che la loro inosservanza “abbia costituito un antecedente (con)causale della collisione tra i mezzi”, per ragioni specificamente individuate, innanzitutto, nella circostanza che entrambi i conducenti (e quindi, per quanto specificamente qui interessa, lo stesso A.), “incuranti del fatto che risultava ampiamente segnalata la presenza di un cantiere, procedevano ad una velocità di gran lunga superiore a quella consentita”, ovvero “40 km/h”, avendo, inoltre, il CTU accertato, unitamente a detta circostanza, che la vittima del sinistro “non si trovava sul margine destro della carreggiata (come imposto dall’art. 143 C.d.S.”) e “non indossava il casco protettivo”, addirittura “ipotizzando” che si trovasse “in fase di soprasso”.

In questo modo, tuttavia, la Corte territoriale è incorsa in falsa applicazione degli artt. 2050 e 2051 c.c., se è vero che “il cosiddetto vizio di sussunzione, censurabile dal giudice di legittimità, può consistere” non solo “nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla”, ma anche “nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 30 aprile 2018, n. 10320, Rv. 648593-01; in senso sostanzialmente analogo Cass. Sez. Lav., sent. 15 dicembre 2014, n. 26307, Rv. 633859-01; Cass.l Sez. 3, sent. 24 ottobre 2007, n. 22348, Rv. 599791-01).

La seconda di tali evenienze è, appunto, quella che ricorre nel caso di specie, giacchè le circostanze del caso concreto valorizzate dalla sentenza impugnata, per ritenere il contegno della vittima del sinistro – come pure, in ipotesi, consentirebbe una corretta interpretazione degli artt. 2050 e 2051 c.c. – idonea a recidere ogni nesso di causalità con l’attività pericolosa, o con l’uso della cosa, hanno portato la stessa a trarre dalla norma conseguenze giuridiche che contraddicono tale, pur astrattamente corretta, interpretazione.

Infatti, l’eccesso di velocità e la non tenuta del margine destro della strada da parte della vittima del sinistro, erano tutt’altro che “conseguenze imprevedibili ed inevitabili, al momento della predisposizione delle misure cautelative” da adottarsi in occasione del restringimento di carreggiata, ovvero tali da connotare la condotta dell’ A. come “estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto”. Queste circostanze, anzi, avrebbero dovuto suggerire come proprio la predisposizione del senso unico alternato, quale misura idonea a neutralizzare la situazione di pericolo insista nell’attività di esecuzione dei lavori su pubblica strada e nell’uso della “res”, fossero idonee (come correttamente osservano i ricorrenti) ad impedire, ai veicoli viaggianti delle opposte direzioni di marcia, di occupare contemporaneamente la medesima strettoia e, dunque, di fronteggiarsi e collidere, come avvenuto nel caso di specie.

9.3. Il sesto motivo resta, invece, assorbito.

9.4. All’accoglimento del ricorso segue la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, perchè decida nel merito in conformità ai principi dianzi enunciati, provvedendo, altresì, sulle spese di lite, ivi comprese quelle relative al presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione e per l’effetto cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Palermo, in diversa composizione, perchè decida nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 12 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2019

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