Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13579 del 02/07/2020

Cassazione civile sez. I, 02/07/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 02/07/2020), n.13579

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35407/2018 proposto da:

G.O., elettivamente domiciliato in Roma Via Federico Cesi

n. 72, presso lo studio dell’avvocato Sciarrillo Andrea, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Sgarbi Pietro;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2351/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 26/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. Vella Paola.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Ancona ha rigettato il ricorso proposto dal cittadino (OMISSIS) G.O., avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Ancona gli aveva negato ogni forma di protezione internazionale.

2. Il ricorrente ha impugnato detta decisione con ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, corredato da memoria. Il Ministero intimato non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo – rubricato “violazione o falsa applicazione dell’art. 1 Convenzione di Ginevra 28.7.1951 (definizione del termine di rifugiato) e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e), (definizione di rifugiato)” – si deduce che la corte d’appello (così come, in precedenza, la commissione territoriale e il tribunale) avrebbe “erroneamente ritenuto la persecuzione patita dal ricorrente in patria ininfluente per il riconoscimento dello status” di rifugiato, “di fatto relegando il tutto ad una vicenda di “giustizia ordinaria””, e ciò “sul presupposto del tutto erroneo” (a parere della difesa) “che il racconto del ricorrente fosse “confuso e poco plausibile, comunque attinente a fatti di non significativa gravità non legittimanti il riconoscimento dell’invocata tutela” (…) quando invece la persecuzione di cui era stato vittima l’odierno ricorrente era prettamente politica (…) tanto che era stato arrestato e incarcerato nel 2012 nonostante la di lui minore età”.

4. Con il secondo mezzo – rubricato “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 (esame dei fatti e delle circostanze) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis (procedura di esame)” – si denunzia che la motivazione del provvedimento impugnato sulla “non credibilità/verosimiglianza del racconto del richiedente appare essere soltanto apparente ed apodittica”.

4.1. I due motivi, che in quanto connessi possono essere esaminati congiuntamente, presentano profili di inammissibilità e infondatezza.

4.2. Invero, sebbene rubricati come “violazione di legge”, essi si limitano a contestare la motivazione circa l’inattendibilità del racconto del ricorrente – che la corte d’appello ha ritenuto “scarsamente credibile, sotto molteplici aspetti, in difetto assoluto di minimi riscontri fattuali”, sulla base delle argomentazioni esposte a pag. 12 e s. della sentenza – senza indicare però se e in qual modo il giudice a quo si sia discostato dai parametri (ritenuti non tassativi ma meramente indicativi da Cass. 20580/2019) di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, il quale stabilisce tra l’altro che, “qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che: (…) c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; (…) e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”. In altri termini, le dichiarazioni del richiedente, qualora – come nel caso in esame – non siano suffragate da prove, devono essere sottoposte ad una verifica di “veridicità”, attraverso un controllo di coerenza – intrinseca (con riguardo al racconto) ed estrinseca (con riguardo alle informazioni generali e specifiche di cui si dispone) – nonchè di plausibilità (con riguardo alla logicità e razionalità delle dichiarazioni), anche a bilanciamento del potere-dovere del giudice di acquisire d’ufficio elementi probatori (segnatamente sulla situazione del paese di provenienza, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3) e finanche di ritenere provati, appunto, fatti sforniti di prova.

4.3. Orbene, per giurisprudenza costante di questa Corte, la valutazione sulla credibilità del racconto del richiedente (e quindi sulla sua attendibilità), nei termini sopra indicati, è sindacabile in sede di legittimità solo nei limiti del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (applicabile ratione temporis) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero per motivazione assolutamente mancante, o apparente, o perplessa e obiettivamente incomprensibile – ipotesi queste che, come anticipato, non ricorrono nel caso di specie – restando escluse sia la rilevanza della sua pretesa insufficienza, sia l’ammissibilità di una diversa lettura o interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente (ex multis, Cass. 21142/2019, 3340/2019, 32064/2018, 30105/2018, 27503/2018, 16925/2018; da ultimo Cass. 5114/2020).

4.4. In particolare, le contestazioni mosse non rispettano nemmeno i nuovi canoni dell’art. 360 c.p.c., n. 5), i quali postulano l’indicazione di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo per l’esito della controversia, onerando il ricorrente di indicare – nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, 8503/2014; conf. ex plurimis Cass. 27415/2018).

5. Il terzo motivo – rubricato “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), c), (protezione sussidiaria) anche in relazione all’art. 3 Cost.” – assume che la corte territoriale abbia “sottovalutato, da un lato, la vicenda personale del ricorrente che ha dovuto patire violenze, minacce, vessazioni e soprattutto rischierebbe nuovamente la carcerazione (già peraltro patita in passato quando era ancora minorenne e ciò solo perchè stava manifestando pacificamente contro il partito del Presidente in carica)” e, dall’altro, “il concreto pericolo per la sua vita e/o incolumità fisica in costanza dell’insicurezza e/o instabilità sociopolitica che tuttora caratterizza tutto il territorio del Senegal”. La pronuncia sarebbe quindi “mancante” sulla richiesta di protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b) e “sbrigativa” sulla protezione di cui alla successiva lett. c). La violazione dell’art. 3 Cost., deriverebbe invece dalla presenza di altre pronunce della stessa corte territoriale che avrebbero trattato “situazioni e/o condizioni identiche in maniera del tutto differente”.

5.1. L’articolata censura è infondata poichè, rispettivamente: trascura la preliminare valutazione di inattendibilità formulata dal giudice d’appello sulla vicenda personale narrata; non tiene conto della esplicita pronuncia sulla mancanza di qualsivoglia riscontro “a sostegno di una siffatta ipotesi di “danno grave” ai sensi del menzionato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b)”; si limita, circa l’ipotesi del conflitto armato generalizzato di cui alla successiva lett. c), a contrapporre diverse valutazioni all’ampia motivazione che si snoda da pag. 16 a pag. 21 della sentenza impugnata, con richiamo di varie fonti qualificate riguardanti la situazione del Senegal, e in particolare l’Amnesty International Report 2017/2018; erra nell’invocare uno scrutinio di costituzionalità secondo il principio di uguaglianza con riferimento ad atti non normativi bensì giurisdizionali.

5.2. Va inoltre ricordato che, per consolidato indirizzo di questa Corte (ex multis Cass. 8908/2019, 284/2019, 13858/2018, 32064/2018), il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), deve essere interpretato in conformità alla fonte Eurounitaria di cui è attuazione (i.e. art. 9 e art. 15, lett. c, delle direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE) e in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di giustizia, la quale ha precisato che “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15, lett. c), della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (Corte giust., 17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, punti 33-35 e 43; 30 gennaio 2014, Diakitè, C-285/12, punto 30). La stessa Corte giust. (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, punto 36) ha altresì chiarito che, di norma, i rischi cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un Paese non costituiscono ex sè una minaccia individuale definibile come “danno grave” (v. Considerando n. 26 della direttiva n. 2011/95/UE). Deve quindi concludersi che la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, invocata dal ricorrente ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), postula, da un lato, la sussistenza di una situazione configurabile come “conflitto armato” (inteso come scontro tra le forze governative di uno Stato ed uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati) e, dall’altro, una conseguente violenza generalizzata idonea a comportare una minaccia “grave e individuale alla vita o alla persona di un civile” derivante da quella violenza. Circostanze, queste, che sono state motivatamente escluse dalla corte territoriale, all’esito di una valutazione delle acquisite Country of origin informations (COI) non sindacabile in questa sede.

6. Il quarto mezzo – rubricato “violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 (criteri applicabili all’esame delle domande) e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis (procedure di esame)” – lamenta, sempre ai fini della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c) cit., che “l’esame della situazione oggettiva del paese di origine (Senegal) dell’odierno ricorrente” non sia stata effettuata o comunque non sia stata effettuata “in modo sufficientemente adeguato”.

6.1. Tenuto conto dei principi richiamati nel punto precedente, la censura è inammissibile, in quanto afferente il merito di una valutazione congruamente svolta dalla corte d’appello.

6.2. Va comunque ribadito che il riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), implica, alternativamente: i) una contestualizzazione della minaccia ivi prevista, in rapporto alla specifica condizione personale del richiedente; ii) l’esistenza di un conflitto armato interno, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel Paese o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza su quel territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia. Ebbene, solo nel secondo caso il giudice è tenuto a verificare d’ufficio, tramite le COI, l’esistenza della situazione di violenza indiscriminata (Cass. 19716/2018), mentre nel primo non può essere chiamato a supplire ad eventuali carenze probatorie del richiedente (Cass. 14006/2018, 13858/2018); fermo restando, peraltro, l’onere del richiedente di allegare i fatti costitutivi del suo diritto, in difetto non potendo attivarsi i poteri istruttori officiosi del giudice (Cass. 8908/2019, 3016/2019, 17069/2018).

7. Con il quinto motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6; artt. 3 e 10 Cost., nonchè la nullità della sentenza impugnata, stante “l’assenza di una concreta pronuncia” sulla protezione umanitaria, o comunque l’esistenza di una motivazione “meramente apparente”, mancando l’esame delle situazioni di vulnerabilità (tenuto conto, tra l’altro, che “il richiedente aveva prodotto unitamene alla comparsa conclusionale in appello il contratto di lavoro e le prime buste paga”) e della valutazione comparativa “tra il grado di integrazione raggiunto nel nostro paese (ove ad oggi gode dei diritti fondamentali e conduce una vita dignitosa anche grazie all’attività lavorativa svolta) e la situazione (oggettiva e soggettiva) cui il ricorrente sarebbe esposto ove fosse costretto al rimpatrio nel paese d’origine (ove i principali diritti e libertà democratiche sono fortemente represse)”.

7.1. Il motivo è inammissibile, in quanto le valutazioni della corte d’appello circa la mancanza di specifiche situazioni soggettive o lesioni di diritti umani ovvero di “un grado di integrazione nel contesto italiano tale da far ritenere che il rientro in patria del richiedente determinerebbe uno sradicamento costituente fonte di specifica vulnerabilità, rilevante ai fini della protezione umanitaria”, integrano apprezzamenti di fatto non censurabili in questa sede, se non attraverso i canoni del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel caso di specie non praticati.

7.2. Merita al riguardo ricordare che, ai fini della protezione umanitaria, “occorre il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vita privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente (…) altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6″ (Cass. 23778/2019, in linea con Cass. 4455/2018; conf. Cass. Sez. U., 29460/2019; da ultimo, Cass. 1040/2020).

7.3. Inoltre, le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente confermato come, “in tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”, precisando al riguardo che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza” (Cass. Sez. U, nn. 29459, 2460 e 2461 del 2019).

7.4. Tuttavia, “perchè il giudice possa effettuare una simile verifica comparativa, eventualmente anche esercitando i propri poteri istruttori officiosi, è necessario che il richiedente indichi i fatti costitutivi del diritto azionato e cioè fornisca elementi idonei perchè da essi possa desumersi che il suo rimpatrio possa determinare la suindicata privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. 17169/2019, 8908/2019, 27336/2018, 4455/2018), mentre dalla sentenza impugnata non risulta che il ricorrente abbia assolto questo specifico onere, limitandosi ad addurre in concreto – al di là delle generali affermazioni di principio e degli specifici timori individuali, rimasti però travolti dalla valutazione di inattendibilità formulata sia nella fase amministrativa che nei due gradi di merito – una generica “situazione di instabilità politico-sociale” e la compressione dei “principali diritti e libertà democratiche” esistenti nel proprio paese d’origine. Nè l’esistenza di un rapporto di lavoro (peraltro documentato in sede di appello solo con la comparsa conclusionale) riveste rilevanza decisiva ai fini dell’integrazione raggiunta in Italia, in difetto di elementi di comparazione di segno negativo, che evidenzino una compromissione dei diritti umani che attenderebbe l’immigrato in caso di ritorno in patria.

7.5. In questo quadro, si è detto, “non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale” (Cass. 17072/2018; da ultimo Cass. 5191/2020).

8. Al rigetto del ricorso non segue statuizione sulle spese, stante l’assenza di difese della parte intimata.

9. Sussistono i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (Cass. Sez. U, 23535/2019).

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020

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