Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13575 del 04/06/2010

Cassazione civile sez. trib., 04/06/2010, (ud. 11/01/2010, dep. 04/06/2010), n.13575

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.A. elettivamente dom.ta in Roma, Via F. Massimo, n.

107, nello studio dell’Avv. Torino Gianfranco, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale

dello Stato, nei cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, 12, è

domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia, Sezione distaccata di Brescia, n. 66/67/04, depositata in

data 14.6.2004;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza in data

11 gennaio 2010 dal cons. Dott. Pietro Campanile;

Udito il P.M., nella persona del Sost. Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

1.1 – C.A. impugnava gli avvisi di rettifica emessi dall’Ufficio IVA di Bergamo con cui venivano contestati, relativamente agli anni 1989 e 1990, la mancata emissione di fatture relative a operazioni imponibili e il versamento di IVA inferiore di oltre un decimo rispetto a quella dovuta.

1.2 – La Commissione tributaria provinciale di Bergamo, riuniti i ricorsi, annullava gli avvisi di rettifica, ritenendo priva di rilevanza probatoria l’utilizzazione, sulla quale essi si fondavano, della percentuale media di ricarico. Con detta decisione veniva altresì disposto il rimborso, con gli interessi legali, della somma di L. 23.184.468, già versata dalla contribuente.

1.3 – La Commissione tributaria regionale della Lombardia, Sezione distaccata di Brescia, con la decisione meglio indicata in epigrafe, pronunciando sull’appello proposto dall’Ufficio, in primo luogo rilevava il vizio di ultrapetizione in cui erano incorsi i giudici di primo grado, per aver disposto il rimborso, non richiesto neppure dalla contribuente, delle somme dalla stessa versate ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 58, comma 4, corrispondenti a un sesto della sanzione e, nel resto, irripetibili.

1.4 – Passando all’esame del merito, veniva preliminarmente rigettata l’eccezione sollevata dall’appellata circa l’inammissibilità delle deduzioni proposte dall’Ufficio e relative ai presupposti dell’accertamento, indicati nelle discordanze di natura contabili: si confermavano gli atti di rettifica, salva la riduzione, quanto all’anno 1990, della percentuale di ricarico fino alla misura del 200 per cento.

1.5 Con atto notificato in data 27 luglio 2005 la C. proponeva ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi e notificato all’Ufficio Locale delle Entrate di Treviglio.

1.6 Si costituiva con controricorso notificato in data 21 ottobre 2005 l’Agenzia delle Entrate, eccependo, in primo luogo – per essere stato il ricorso proposto nei confronti dell’Ufficio locale, privo di legittimazione – l’inammissibilità dell’impugnazione, della quale contestava, in ogni caso, la fondatezza.

1.7 – La ricorrente depositava memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., in ordine all’eccezione di inammissibilità sollevata dalla controricorrente.

Diritto

2.1. Preliminarmente deve rilevarsi l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Agenzia dell’Entrate (la cui costituzione, in ogni caso, assume efficacia sanante ai sensi dell’art. 164 c.p.c. (Cass., 19 novembre 2008, n. 27452), venendo in considerazione, al riguardo, l’ormai consolidato orientamento – fondato sia sul principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia sul carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato – secondo cui per i giudizi di cassazione, nei quali la legittimazione era riconosciuta esclusivamente al Ministero delle finanze, ai sensi del R.D.L. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 11 la nuova realtà ordinamentale, caratterizzata dal conferimento della capacità di stare in giudizio agli uffici periferici dell’Agenzia, in via concorrente ed alternativa rispetto al direttore, consente invece di ritenere che la notifica della sentenza di merito, ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, e quella del ricorso possano essere effettuate, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici (Cass. Sez. Un., 14 febbraio 2006, n. 3116).

2.2. I primi due motivi di ricorso, incentrati sul ricorso alle percentuali di ricarico per la determinazione delle operazioni imponibili (essendosi dedotta, con il primo, violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e con il secondo, degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), possono essere congiuntamente esaminati.

Essi sono infondati, per le seguenti ragioni.

Il D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, comma 3, (convertito in L. 29 ottobre 1993, n. 427) prevede che gli accertamenti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) (vale a dire le rettifiche sui redditi delle persone fisiche) e quelli di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 (vale a dire le rettifiche alle dichiarazioni IVA) possono essere fondati anche su gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62-bis del presente decreto. Per determinare il reddito presuntivo della società l’amministrazione ha fatto riferimento, infatti, agli studi di settore. Questi ultimi, disciplinati appunto dal D.L., art. 62 bis, ed elaborati con metodo statistico nell’apposita sede ministeriale, hanno ricostruito la redditività di ogni singolo settore produttivo traducendola in appositi coefficienti presuntivi (già previsti, anche per l’IVA, dal D.P.C.M. 21 dicembre 1990) da applicare come percentuale di ricarico sul costo dei beni e dei servizi trattati dalle aziende commerciali.

Va rilevato anche, per completezza, che il già citato art. 62 sexies, introdotto nel testo originario del decreto dalla legge di conversione, decorre dalla data di entrata in vigore di questa ultima, e perciò dal 13 novembre 1993 (quindici giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 29 ottobre 1993).

In proposito va precisato che, sebbene le rettifiche si riferiscano agli anni 1989 e 1990, precedenti la sua entrata in vigore, la norma è applicabile ugualmente al caso di specie, perchè l’accertamento è del 1995: l’art. 62 sexies regola, infatti, l’attività di accertamento, cioè un attività amministrativa di controllo svolta dagli uffici, per definizione, solo dopo il termine dei periodi cui si riferiscono le denunzie. Secondo l’insegnamento costante di questa Corte, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione, con metodo induttivo, di ricavi e compensi ai sensi del D.L. 2 marzo 1989, n. 69, artt. 11 e 12 (convertito, con modificazioni, nella L. 27 aprile 1989, n. 154), è legittima l’applicazione, ad anni d’imposta anteriori dei coefficienti presuntivi stabiliti con il D.P.C.M. 21 dicembre 1990 – emanato ai sensi delle citate disposizioni, poichè esso detta norme dì natura procedimentale e non sostanziale, adottate in conformità alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., e le quali regolano le modalità di esercizio del potere di accertamento, di cui limitano la discrezionalità, vincolandola a criteri predeterminati”. (Cass. civ., 14 febbraio 2002, n. 2123; nello stesso senso, 24 settembre 2003, n. 14161; 30 agosto 2002, n. 12731; 7 giugno 2002, n. 8272; 11 settembre 2001, n. 11607).

A sua volta, la L. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2, stabilisce che l’infedeltà della dichiarazione, (…) deve essere accertata mediante il confronto tra gli elementi indicati nella dichiarazione e quelli annotati nei registri di cui agli artt. 23, 24 e 25 e mediante il controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni sulla scorta delle fatture ed altri documenti, delle risultanze di altre scritture contabili e degli altri dati e notizie raccolti nei modi previsti dagli artt. 51 e 51 bis vale a dire dall’ufficio nell’esercizio dei propri poteri e delle proprie attribuzioni. Le omissioni e le false o inesatte indicazioni possono essere indirettamente desunte da tali risultanze, dati e notizie a norma dell’art. 53 o anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”. Giova precisare, quanto ai profili relativi all’onere della prova, che, come già rilevato da questa Corte (sia in materia di imposte dirette: Cass. civ., 23 ottobre 2000, n. 13976, sia in tema di IVA :

Cass., 31 ottobre 2005, n. 21165), “è consentito l’accertamento induttivo del reddito, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza, potendo il giudizio di non affidabilità della documentazione fiscale essere determinato dall’abnormità dell’espressione finale. Qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato l’accertamento sintetico, sia specificando gli indici di ricchezza sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, il provvedimento di rettifica del reddito è di per se legittimo, non essendo necessario che sia stato preceduto dal riscontro analitico della congruenza e della verosimiglianza dei singoli cespiti di reddito dichiarati dal contribuente”.

Nel caso di specie la sentenza impugnata pone in evidenza le discordanze di natura contabile che caratterizzano le dichiarazioni della C., rilevando come, “a fronte di beni commercializzati per un valore complessivo di L. 18.359.000, per il 1989, e di L. 12.344.000 per il 1990, nelle stesse annualità la contribuente ha.

dichiarato una cifra d’affari di L. 11.617.000 e di L. 7.637.000 sicchè rimane inspiegabile come beni per un valore di L. 6.922.000, per il 1989, e di L. 4.707.000, per il 1990, non siano stati dichiarati nè nel volume d’affari realizzato, nè tra le rimanenze finali”.

Risultano, pertanto, rispettati i criteri normativi testè richiamati.

2.3 – Con il terzo motivo di impugnazione si denuncia violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma art. 36, n. 3, non essendo stati indicati quali elementi di fatto e di diritto abbiano consentito di quantificare la percentuale di ricarico applicabile all’attività svolta in concreto dalla contribuente.

A tacere della denuncia come violazione di legge di un vizio di motivazione, da censurare ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve rilevarsi la genericità del motivo e la carenza di autosufficienza, non essendo state indicate le parti della decisione impugnata – per altro caratterizzata da una motivazione molto diffusa – in cui si evidenzierebbe la carenza lamentata. Per altro l’utilizzazione delle percentuali di ricarico, riferibili al settore si appartenenza, ed effettuate secondo una inedia aritmetica (non avendo la parte – costituendo un suo onere: Cass., n. 26312/2009 – evidenziato la disomogeneità della merce), risponde a una precisa esigenza, che tiene conto anche delle possibilità offerte al contribuente (mediante i questionar, espressamente richiamati nella decisione impugnata) di offrire un contributo ai fini della ricostruzione del reddito (Cass., Sez. Un. 18 dicembre 2009, n. 26635, alla quale si rinvia anche in relazione alla validità, in generale, dell’accertamento tributario fondato su gravi incongruenze determinate proprio dallo scostamento dei redditi dichiarati rispetto agli studi di settore).

2.4 – Parimenti infondato è il quarto motivo di ricorso, con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57 perchè solo con le deduzioni di secondo grado l’Ufficio avrebbe operato un riferimento alle discordanze contabili poste alla base della rettifica.

Al riguardo deve porsi in evidenza che dall’esame degli avvisi di rettifica – consentito dalla natura procedurale del vizio denunciato – si evince che gli stessi contengono, nella premessa, un sintetico quanto esplicito riferimento alle incongruenze poste alla base delle rettifiche stesse, così come richiamati nella decisione impugnata (v., sopra, sub 2.2), dovendosi altresì rilevare che tali aspetti risultano richiamati nelle controdeduzioni dell’Ufficio davanti alla commissione tributaria provinciale.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna della C. al pagamento delle spese processuali.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 1.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5^ sezione civile – tributaria, il 11 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2010

 

 

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