Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13560 del 20/05/2019

Cassazione civile sez. I, 20/05/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 20/05/2019), n.13560

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria G.C. – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15977/2018 proposto da:

N.M., rappresentato e difeso dall’avvocato Paolo

Alessandrini, presso il cui studio è elettivamente domiciliato, in

Ascoli Piceno Rua del Papavero n. 6 giusta procura in calce al

ricorso

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno – Commissione territoriale per il

riconoscimento della protezione internazionale di Ancona – in

persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1670/2017 della Corte d’appello di Ancona,

depositata il 08/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/04/2019 dal cons. SAMBITO MARIA GIOVANNA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata l’8.11.2017, la Corte d’appello di Ancona ha confermato il rigetto delle istanze volte in via gradata al riconoscimento dello status di rifugiato, alla protezione sussidiaria ed alla protezione umanitaria, avanzate da N.M., cittadino del Senegal, il quale ha narrato di essersi innamorato di una ragazza di fede cattolica i cui fratelli osteggiavano il fidanzamento per motivi di carattere religioso e lo avevano, poi, minacciato e percosso. La ragazza, promessa in sposa ad un altro, si era quindi suicidata ed i familiari, ritenendolo responsabile, avevano assoldato dei sicari per ucciderlo, così costringendolo alla fuga.

Il richiedente ha proposto ricorso per cassazione sulla scorta di due motivi, ai quali l’Amministrazione resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione dell’art. 4 della Direttiva 2004/83/CE (abrogata e trasfusa nella Direttiva 2011/95/UE); D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3; Direttiva 2005/85/CE (abrogata e trasfusa nella Direttiva 2013/32/UE) del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e art. 27, comma 1 bis; art. 8 Direttiva 2004/83/CE (abrogata e trasfusa nella Direttiva 2011/95/UE), il ricorrente lamenta l’errore in cui è incorsa la Corte nel ritenere non credibili le sue dichiarazioni nonostante avesse presentato la domanda di protezione internazionale immediatamente ed avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla. Inoltre, il ricorrente afferma che la Corte del merito, senza procedere direttamente al suo esame, non ha tenuto conto della natura attenuata dell’onere probatorio che incombe sui richiedenti asilo, ed ha violato il principio di cooperazione istruttoria, che imponeva di esaminare la sua domanda alla luce delle informazioni aggiornate e precise circa la situazione generale del suo Paese, al lume delle quali sarebbe emerso il serio rischio, ove rimpatriato, di essere ucciso o di subire trattamenti inumani e degradanti nelle “ben note carceri del paese”.

2. Il motivo è infondato. La Corte territoriale ha confermato la valutazione d’inattendibilità del richiedente ritenendo il racconto estremamente generico (privo di indicazioni di tempi, luoghi, nomi e circostanze) in ordine all’ostilità da parte dei familiari della ragazza, alle ragioni per le quali sarebbe stato ritenuto responsabile del suicidio, e da chi avrebbe appreso di tale accusa. Inoltre, il racconto è stato ritenuto stereotipato (comune a molti altri richiedenti asilo: persecuzione da parte dei familiari della fidanzata) e ne è stata evidenziata pure l’incongruenza laddove non ha esposto le ragioni per le quali il richiedente non si era rivolto all’autorità locale per riferire i fatti, senza che fosse neppure allegata l’impossibilità da parte della polizia di offrirgli protezione.

3. A fronte di tale accertamento di fatto, qui censurabile, in costanza dei relativi presupposti, solo per vizio di omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che non è stato dedotto, il motivo si limita: a) a sostenere che non sarebbe stato valutato il suo sforzo per circostanziare la domanda, omettendo, tuttavia di indicare in cosa tale sforzo sarebbe consistito; b) ad affermare, in modo del tutto generico, la veridicità del suo assunto, senza però, neanche in questa sede, indicare quale fatto decisivo o quale circostanza avrebbe potuto esser riferita o chiarita in sede di audizione davanti al giudice, fermo restando che, nel procedimento d’appello relativo ad una domanda di protezione internazionale, non è ravvisabile una violazione processuale sanzionabile a pena di nullità nell’omessa audizione personale del richiedente, atteso che il rinvio, contenuto nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 13, al precedente comma 10 che prevede l’obbligo di sentire le parti, non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale – che non consta esser stato richiesto – cui si collega il potere officioso del giudice di valutarne la specifica rilevanza (Cass. n. 3003 del 2018); c) ad invocare, infine, il dovere di cooperazione dell’Ufficio, senza considerare che la valutazione di credibilità soggettiva costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento: le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono, infatti, alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018), salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 871 del 2017).

4. Col secondo motivo, si deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 e art. 5, comma 6 e art. 3 CEDU. Il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto il suo diritto al soggiorno per motivi umanitari.

5. Va, anzitutto, rilevato che la disciplina di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, che ha, tra l’altro, sostituito la disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande proposte come nella specie, prima della sua entrata in vigore, che vanno valutate in base alla disciplina preesistente (Cass. n. 4890 del 2019), al lume della quale il motivo è infondato. Ed, infatti, il motivo non tiene conto che la situazione di vulnerabilità va sempre riconnessa al rischio che il richiedente, ove rimpatriato, possa subire nel Paese d’origine una significativa ed effettiva compromissione dei diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018), il che non viene dedotto. Fuori tema, poi, il ricorrente invoca il principio del non refoulement e l’art. 3 della CEDU, che vieta l’allontanamento verso un Paese in cui il richiedente rischia di esser sottoposto a tortura o a trattamenti disumani o degradanti, tenuto conto che l’intrinseca inattendibilità del suo racconto, affermata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente anche per negare la protezione umanitaria, che deve ovviamente poggiare su specifiche e plausibili ragioni di fatto (Cass. 27438 del 2016), legate alla situazione concreta e individuale del richiedente, diversamente, infatti, verrebbe in rilievo non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti. La raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia non è, infine, di per sè sufficiente per il riconoscimento del titolo di soggiorno in esame, che pone rimedio alla privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani (Cass. 4455 del 2018 cit.).

6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Deve, poi, darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. La declaratoria va resa a prescindere dalla circostanza che nella specie risulta dal ricorrente è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato (che, in tesi, potrebbe esser revocato). Il Collegio reputa, infatti, di dover dare seguito alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 9661 del 2019) secondo cui “ai fini dell’adozione del provvedimento di cui all’art. 13, comma 1-quater, rileva il solo elemento oggettivo, costituito dal tenore della pronuncia che ne determina il presupposto, senza alcuna rilevanza delle condizioni soggettive della parte”, e considerato che il recupero nei confronti della parte ammessa al patrocinio è previsto, esclusivamente, nelle ipotesi di revoca del patrocinio o nelle ipotesi normativamente previste di rivalsa (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 134).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna alle spese, che si liquidano in Euro 2.100,00, oltre a spese prenotate a debito. Ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2019

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