Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13529 del 20/06/2011

Cassazione civile sez. trib., 20/06/2011, (ud. 18/05/2011, dep. 20/06/2011), n.13529

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – rel. Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

R.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 92, presso lo studio degli avvocati

NARDONE ELISABETTA e DE NISCO VINCENZO, che lo rappresentano e

difendono, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del legale

rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 87/2008 della Commissione Tributaria Regionale

di BOLOGNA del 3.10.08, depositata il 29/12/2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/05/2011 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLO COSENTINO.

E1 presente il Procuratore Generale in persona del Dott. FEDERICO

SORRENTINO.

La Corte:

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ. è stata depositata in cancelleria la relazione di seguito integralmente trascritta:

“Con sentenza depositala il 29.12.2008 la Commissione Tributaria Regionale di Bologna, in totale riforma della sentenza di primo grado, respingeva il ricorso proposti) dal sig. R.A. contro il silenzio-rifiuto opposto dall’Ufficio ad una istanza di rimborso relativa alle somme versate dal contribuente a titolo di IRAP per gli anni dal 1998 al 2003: istanza motivata dal R. con l’assunto che l’attività di agente di commercio da lui esercitata non presentasse il requisito dell'”autonoma organizzazione”, quale risultante dalla giurisprudenza costituzionale (C. Cost. 156/01) e di legittimità.

La Commissione Tributaria Regionale motivava la propria decisione con l’argomento che l’attività esercitata dal contribuente, di agente di commercio con la collaborazione della moglie, avrebbe presentato carattere imprenditoriale, e, pertanto, si sarebbe dovuta ritenere soggetta ad IRAP indipendentemente dall’accertamento dell’autonomia organizzativa.

Il R. ricorre per cassazione contro la sentenza d’appello sulla scorta di due motivi:

1) Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 4 e 8 (art. 360 c.p.c., n. 3), con riferimento al concetto di autonoma organizzazione.

Motivazione insufficiente illogica e contraddittoria l’art. 360 c.p.c., n. 5) relativamente all’esistenza dei requisiti dell’autonoma organizzazione.

2) Omessa e insufficiente motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 (relativamente all’esistenza dei requisiti dell’autonoma organizzazione) su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Col primo motivo, rubricato con riferimento sia all’art. 360 c.p.c., n. 3, che al n. 5 il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto, in violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 4 e 8, che l’attività di agente di commercio esercitala dal contribuente con la collaborazione della moglie andasse assoggettata ad IRAP a prescindere dall’accertamento della ricorrenza in concreto del requisito dell’autonomia organizzativa;

vedi pag. 4, rigo 15, del ricorso: “Ha errato quindi in diritto la sentenza impugnata laddove non ha fornito alcun elemento di fatto volto a motivare l’esistenza dei requisito della “autonoma organizzazione”, essenziale a fini IRAP, a prescindere da ogni valutazione di tipo quantitativo circa i mezzi di cui il titolare si serve per lo svolgimento della propria attività.” Col secondo motivo, rubricato solo con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, il ricorrente censura il difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine al fatto decisivo e controverso della ricorrenza del requisito dell’autonomia organizzativa nell’attività di agente di commercio esercitata dal contribuente.

Al termine dell’esposizione di entrambi i motivi di ricorso (pagg. 6 e 7 dell’atto), il ricorrente formula sei quesiti, che si trascrivono di seguito integralmente:

a) se l’IRAP sia dovuta da chiunque esercita un’arte a una professione, anche con tu sola organizzazione indispensabile per lo svolgimento dell’attività e che pertanto prescinde dai mezzi impiegati, ovvero solo da chi si serva di un’organizzazione complessa che implichi necessariamente l’impiego di capitali e beni strumentali e/o lavoro altrui, tale da acquisire una propria autonomia rispetto all’attività personale;

b) se per l’applicazione dell’IRAP il giudice possa prescindere (indipendentemente) dall’accertamento di un autonoma organizzazione;

c) sa lo sussistenza dei requisito della “autonoma organizzazione” debba essere congruamente motivato o se sia sufficiente una generica motivazione che tragga origine da generici elementi individuati eventualmente anche per relationem con riferimento ad altre ipotesi di fatto;

d) se la valutazione circa la sussistenza (o meno) dell’autonoma organizzazione deve essere operata anno per anno o se la sussistenza del requisito per un anno pregiudica e/o implica la valutazione anche per altri anni;

e) se in relazione agli artt. 1742 c.c. e segg. e art. 2915 c.c. l’attività svolta dall’agente di commercio sia sempre riconducibile alla definizione di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51 e, dunque, sia soggetta ad IRAP ai sensi del D.Lgs. n. 447 del 1998, art. 3, comma 1, lett.b);

f) se, con riguardo alle attività di lavoro autonomo, il presupposto impositivo dell’IRAP dell’autonoma organizzazione implichi necessariamente l’impiego di capitati e beni strumentali e/o lavoro altrui.

L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.

In via preliminare si osserva preliminarmente che la seconda parte del primo motivo di ricorso (motivazione insufficiente illogica e contraddittoria) nonchè il secondo motivo di ricorso (omessa e insufficiente motivazione) – entrambi riferiti all’art. 360 c.p.c., n. 5 – sono inammissibili perchè non contengono la chiara indicazione del l’atto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; indicazione che, secondo il costante insegnamento di questa Corte, deve essere contenuta in un momento di sintesi (omologo del quesilo di diritto), indicato in una parte del motivo stesso a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, che circoscriva puntualmente i limiti della censura, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (per una efficace sunto dei principi elaborati in proposito da questa Corte, si veda l’ordinanza 27680/2009).

Quanto alla prima parte del primo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 4 e 8, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3), si osserva che nessuno dei sei quesiti di diritto al medesimo riferiti, sopra trascritti, appare è conforme al paradigma fissalo, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 bis c.p.c..

Al riguardo si osserva che le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che il quesito deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e deve quindi porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regala juris che sia in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata: ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito. inteso come sintesi logico – giuridica della questione, l’errore di diritti) asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare: in conclusione, l’ammissibilità del motivo è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisca necessariamente il segno della decisione (cfr. Cass., sez. un., n. 28054 del 2008, cfr.;

n. 26020 del 2008; n. 18759 del 2008; n. 3519 del 2008; n. 7197 del 2009).

I principi espressi dalle Sezioni Unite sono poi stati ulteriormente dettagliati dalla Terza Sezione con la precisazione che è inammissibile il motivo di impugnazione in cui il quesito di diritto non indichi le due opzioni interpretative alternative, quella adottala nel provvedimento impugnalo e quella proposta dal ricorrente (vedi la sentenze n. 24339/08: “Il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ.: deve comprendere l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile “nello stesso senso, Ord. 4044/09).

Nel caso di specie, la parie ricorrente non ha adempiuto all’onere, dai contenuti sopra precisali, della proposizione di una valida impugnazione, in quanto i quesiti formulati a conclusione del ricorso non presentano alcun concreto ancoraggio alla fattispecie decisa e non investono la Corte della richiesta di indicare, in relazione al D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 4 e 8 quale sia l’interprelazione corretta tra due ipotesi alternative (quella adottata nella sentenza impugnata e quella, diversa, che il ricorrente assume essere esatta).

Il quesito sub a) è incoerente rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata poichè concerne la situazione di chi “esercita un’arte o una professione”, mentre la sentenza impugnala muove dal presupposto che l’attività esercitata dal ricorrente consista nell’esercizio di impresa.

Il quesito sub b) è pur esso scollegato rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnala, perchè dal quesito non emerge che tale sentenza ha ritenuto che resistenza di una organizzazione fosse insita nell’esercizio di impresa.

Il quesito sub c) concerne la motivazione in l’atto della sentenza e non è pertinente rispetto alla censura di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2, 3, 4 e 8. Il quesito sub d) è pur esso scollegato rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, nella quale non viene in nessun modo trattata la questione se la valutazione circa la sussistenza (o meno) dell’autonoma organizzazione debba essere operata anno per anno o se la sussistenza de requisito per un anno pregiudichi e/o implichi la valutazione anche per altri anni.

Il quesito sub e) è pur esso scollegato rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale non ha affermato che “in relazione agli artt. 1722 c.c. e segg. e art. 2915 c.c. l’attività svolta dall’agente di commercio sia sempre riconducibile alla definizione di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 51 (TUIR) e, dunque, sia soggetta ad IRAP ai sensi del D.Lgs. n. 447 del 1998, art. 3, comma 1, lett. b)”, ma ha ritenuto, con accertamento in fatto censurabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione (ed in effetti censurato dal ricorrente, ancorchè con motivi che, come sopra chiarito, vanno giudicati inammissibili per le modalità della relativa formulazione), che “nel caso in specie l’attività svolta dal contribuente di agente di commercio con la collaborazione della moglie C.T. ha connotato imprenditoriale”.

il quesito sub f) e pur esso scollegalo rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, perchè questa ha ritenuto che il contribuente esercitasse attività di impresa e non “attività di lavoro autonomo”.

In conclusione, si ritiene che il procedimento possa essere definito in camera di consiglio.

Con la declaratoria di inammissibilità del ricorso perchè i relativi motivi risultano formulati in termini difformi dalle prescrizioni dell’art. 366 bis c.p.c.”;

che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

che solo il ricorrente ha depositato una memoria.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide le argomentazioni esposte nella relazione;

che anche le argomentazioni spese nella memoria depositata dal ricorrente non sembrano inquadrare la ratio decidendi della sentenza impugnata, che – come evidenziato nella relazione – risiede nel giudizio di fatto (non adeguatamente censurato in ricorso) secondo cui il contribuente eserciterebbe un attività d’impresa ex art. 2195 c.c. e non un’arte o professione;

che pertanto, riaffermati i principi sopra richiamati, il ricorso va rigettato, per l’inammissibilità dei relativi motivi;

che le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.100,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2011

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