Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13516 del 01/07/2016


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Cassazione civile sez. lav., 01/07/2016, (ud. 06/04/2016, dep. 01/07/2016), n.13516

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24310/2013 proposto da:

C.V., C.F. (OMISSIS), elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA CARLO DEL GRECO 59 – OSTIA -, presso lo

studio dell’avvocato DORA LA MOTTA, rappresentata e difesa

dall’avvocato PAOLO FALZEA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNILAV S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V1A

LUNIGIANA 6, presso lo studio dell’avvocato GREGORIO D’AGOSTINO,

rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO INTILISANO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 746/2013 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 03/05/2013 r.g.n. 2443/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/04/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato INTILISANO MARIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 3.5.13 la Corte d’appello di Messina, in totale riforma della sentenza di reintegra ex art. 18 Stat. emessa il 3.11.11 dal Tribunale della stessa sede, rigettava l’impugnativa di C.V. contro il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che le era stato intimato il 29.10.04 da UNILAV S.c.p.A..

Per la cassazione della sentenza ricorre C.V. affidandosi a tre motivi.

La società intimata resiste con controricorso.

Le parti depositano memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Con il primo motivo del ricorso ci si duole di violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, per avere la sentenza impugnata ritenuto sufficiente, ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la mera scelta aziendale di sopprimere un posto di lavoro per ridurre i costi, essendo invece indispensabile – prosegue il ricorso – che il datore di lavoro provi l’effettiva necessità della contrazione dei costi medesimi.

Analoga doglianza viene svolta con il secondo e il terzo motivo di ricorso, sempre per violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, sotto il profilo dell’omesso controllo giudiziale della reale sussistenza del motivo di licenziamento addotto e dell’effettiva necessità della contrazione dei costi, circostanze di fatto non provate dalla UNILAV. 2- I tre motivi di ricorso – sostanzialmente analoghi, giacchè affrontano sotto diverse visuali il concetto di giustificato motivo oggettivo – sono infondati.

Il controllo giurisdizionale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per non sconfinare in valutazioni di merito che si sovrappongano a quelle dell’imprenditore (la cui autonomia è garantita ex art. 41 Cost., comma 1), deve limitarsi a verificare che il recesso sia dipeso da genuine scelte organizzative di natura tecnico-produttiva e non da non pretestuose ragioni atte a nasconderne altre concernenti esclusivamente la persona del lavoratore licenziato.

In breve, ciò che conta è che vi sia un genuino ed effettivo mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva (non contingente e transeunte, ma destinato a protrarsi stabilmente nel tempo) all’esito del quale risulti in esubero una data posizione lavorativa.

Secondo la giurisprudenza di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 4.11.04 n. 21121, seguita da altre conformi), nel concetto di giustificato motivo oggettivo di licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva rientra la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, senza che sia necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuitegli, ben potendo le stesse essere anche solo diversamente ripartite.

Si tratta di una scelta insindacabile nei suoi profili di opportunità ed efficacia.

La giurisprudenza di questa S.C. è altresì chiara nello statuire che spetta al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore, nel senso che ne risulti l’effettività e la non pretestuosità (cfr., ancora, Cass. n. 21121/04 cit. e successive conformi).

Nel presupposto d’una scelta aziendale effettiva e non pretestuosa, in linea di massima (e in estrema sintesi) la soppressione d’una data posizione lavorativa può derivare:

a) o da una diversa organizzazione tecnico-produttiva che abbia reso determinate mansioni obsolete o comunque non più necessarie o, ad ogni modo, da abbandonarsi in virtù di insindacabile scelta aziendale: è – questo – il caso in oggetto, essendo state soppresse le mansioni di addetta alle pubbliche relazioni cui era adibita la ricorrente;

b) oppure dall’esternalizzazione di determinate mansioni (che, pur reputate ancora necessarie, vengano però lasciate a personale di imprese esterne);

c) o dalla soppressione d’un intero reparto o dalla riduzione del numero dei suoi addetti, rivelatosi sovrabbondante per l’impegno richiesto;

d) o – ancora – da una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, date mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale fa emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente.

In tale ultima evenienza – è appena il caso di ricordare – il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati poi distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anzichè costituirne mero effetto di risulta (cfr. in tal senso Cass. n. 24502/11).

Se tale redistribuzione fosse un mero effetto, di risulta (e non la causale del licenziamento) si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove e non in un’esigenza di più efficiente organizzazione produttiva.

La costante in tutte le ipotesi sopra enucleate (all’esito delle quali risulti sovrabbondante una data posizione lavorativa, quella del dipendente poi licenziato), è data dal fine, che in ultima analisi è sempre lo stesso: migliorare la produttività.

Quest’ultima è un rapporto fra due quantità: la quantità di prodotto (o di servizi) ottenuta in un certo periodo di tempo e quella dei fattori impiegati nello specifico processo produttivo e in quel medesimo arco temporale.

In tale rapporto il numeratore è dato dalla quantità di prodotto (o di servizi) e il denominatore dalla quantità di fattori produttivi (che per l’azienda, ovviamente, sono costi).

Come ogni rapporto, il suo valore può crescere se aumenta il numeratore oppure se diminuisce il denominatore, di guisa che in ogni incremento di produttività vi è sempre un risparmio inteso come contrazione dei costi, che può esprimersi in termini assoluti o percentuali.

E’ in termini assoluti quando la stessa quantità di prodotti o di servizi venga realizzata con un minor impiego di fattori produttivi (e/o con fattori produttivi a più basso costo).

E’ in termini percentuali quando, fermi restando in cifra assoluta i costi di produzione, si riesca però ad ottenere una maggior quantità di prodotti o servizi rispetto al passato (ad esempio portando a pieno regime il processo produttivo e/o eliminandone passaggi non essenziali).

Ancora la contrazione dei costi è in termini percentuali quando aumentino sia il numeratore che il denominatore del rapporto, ma il primo in misura maggiore del secondo.

Dunque – ed è un punto su cui va richiamata l’attenzione – ogni incremento di produttività si traduce sempre anche in un risparmio o contrazione dei costi, in termini assoluti o percentuali.

A questo punto poco importa che tale risparmio o contrazione dei costi serva solo a prevenire o contenere perdite di esercizio oppure sia destinato a procurare un incremento di profitto: l’importante è che tale finalità si traduca in un mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva genuino e non strumentalmente piegato ad espellere personale (a vario titolo) non gradito.

Non è vero – invece – che qualsiasi ricerca di incremento di produttività passi necessariamente attraverso un mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva (su ciò v. meglio infra).

Rebus sic stantibus, solo un’incompleta lettura della giurisprudenza potrebbe far apparire la soluzione qui accolta come dissonante rispetto ai precedenti di questa Corte Suprema che, secondo parte ricorrente, escluderebbero che il giustificato motivo oggettivo possa consistere nella semplice ricerca di un incremento di profitto, nel senso di giustificare tale tipo di licenziamento solo ove si debba fare fronte a sfavorevoli situazioni – non meramente contingenti influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario.

In realtà tali precedenti, se letti nella loro interezza e con riferimento ai casi concreti su cui si pronunciavano, confermano che basta che il riassetto organizzativo dell’azienda sia attuato al fine di una sua più economica gestione.

Ad esempio, Cass. n. 5173/15 conferma l’illegittimità del recesso perchè i due motivi addotti erano contraddittori (oltre che l’uno insussistente e l’altro ininfluente), mentre Cass. n. 2874/12 e Cass. n. 7750/03 asseriscono che un licenziamento per giustificato motivo oggettivo ben può conseguire ad una riorganizzazione tecnico-

produttiva mirante a contenere i costi; Cass. n. 17069/02 dichiara giustificato il licenziamento dovuto all’informatizzazione dell’organizzazione aziendale per la quale il lavoratore non aveva adeguata professionalità; Cass. n. 12421/02 dichiara ingiustificato il licenziamento per mancanza di prova dell’impossibilità del repechage; Cass. n. 8396/02riconosce legittimo il licenziamento per avvenuta soppressione delle mansioni di centralinista; Cass. n. 14210/01 e Cass. n. 4670/01 ammettono la legittimità del recesso conseguente ad una diversa ripartizione, fra altri lavoratori, delle mansioni un tempo affidate a quello licenziato; Cass. n. 13021/01 consente il licenziamento in un caso di esternalizzazione di mansioni di vigilanza; Cass. n. 8135/2000 conferma la legittimità d’un licenziamento intimato per soppressione d’un posto di ispettore d’una società di assicurazioni.

In nessuno dei precedenti giurisprudenziali invocati dalla ricorrente si afferma che l’imprenditore possa riorganizzare la propria azienda (e conseguentemente licenziare un lavoratore) solo per evitare perdite e non anche per mantenere od incrementare i profitti.

Peraltro, un accertamento in tal senso richiederebbe un confronto, da operarsi in sede giurisdizionale, tra il conto economico dell’anno precedente a quello in cui è stato intimato il licenziamento e il conto economico successivo, confronto che potrebbe rivelarsi, da un lato, impraticabile da un punto di vista cronologico e, dall’altro, di fatto arbitrario, non potendosi stabilire se e in che misura il singolo licenziamento in concreto si ripercuota sull’andamento del conto profitti e perdite, potenzialmente influenzato da plurime variabili di mercato imprevedibili all’atto dell’intimazione del recesso.

In altre parole, quel che è vietato non è la ricerca del profitto mediante riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi (nell’ottica dell’art. 41 Cost., comma 1, la libertà di iniziativa economica è finalizzata alla ricerca del profitto), ma il perseguire il profitto (o il contenimento delle perdite) soltanto mediante un abbattimento del costo del lavoro realizzato con il puro e semplice licenziamento d’un dipendente che, a sua volta, non sia dovuto ad un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma esclusivamente al bisogno di sostituirlo con un altro da retribuire di meno, malgrado l’identità (o la sostanziale equivalenza) delle mansioni.

Ad esempio, il licenziamento d’un lavoratore anziano, che abbia un elevato livello di inquadramento contrattuale e che abbia maturato tutti gli scatti di anzianità non è giustificabile ove la sua posizione lavorativa permanga immutata in azienda e sia semplicemente attribuita ad un nuovo assunto, magari più giovane e/o più disponibile ad accettare peggiori condizioni retributive e di inquadramento contrattuale.

In tal caso, infatti, la ricerca d’un incremento di produttività in termini di contrazione del costo del lavoro non si accompagna ad un mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva, solo in presenza del quale ricorre l’ipotesi del giustificato motivo oggettivo così come descritto dalla L. n. 604 del 1966, art. 3 (che lo individua in “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.”).

Nel caso di specie l’impugnata sentenza ha evidenziato che effettivamente tale mutamento nell’organizzazione tecnico-produttiva dell’azienda vi è stato, avendo la società soppresso le mansioni di addetta alle pubbliche relazioni cui era adibita la ricorrente e ridotto in generale tutti gli altri costi, inclusi i compensi dei membri del consiglio di amministrazione.

Essendo queste le premesse, l’assunto secondo cui il datore di lavoro dovrebbe provare la necessità della contrazione dei costi dimostrando l’esistenza di sfavorevoli contingenze di mercato, a tal fine non bastando una sua autonoma scelta in tal senso, si dimostra infondata vuoi perchè tale necessità non è imposta dalla lettera e dallo spirito dell’art. 3 cit., vuoi perchè l’esegesi proposta è incompatibile con l’art. 41 Cost., comma 1″ che lascia all’imprenditore (con il limite di cui al cpv. dello stesso articolo) la scelta della migliore combinazione dei fattori produttivi a fini di incremento della produttività aziendale.

Diversamente opinando e cioè supponendo come indispensabile, affinchè si possa ravvisare un giustificato motivo oggettivo, che l’impresa versi in sfavorevoli situazioni di mercato superabili o mitigabili soltanto mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il conseguente licenziamento d’un dato dipendente, bisognerebbe ammetterne la legittimità esclusivamente ove essa tenda ad evitare il fallimento dell’impresa e non anche a migliorarne la redditività.

Ma sarebbe – questa – una conclusione costituzionalmente impraticabile e illogica: in termini microeconomici, nel lungo periodo e in un regime di concorrenza, l’impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato.

3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.600,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2016

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