Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13509 del 02/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 02/07/2020, (ud. 28/01/2020, dep. 02/07/2020), n.13509

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22806-2013 proposto da:

MILK BAR SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OFANTO 18,

presso lo studio dell’avvocato PIETRO SCIUME’, rappresentato e

difeso dall’avvocato LIBERATO MAZZOLA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, DIREZIONE CENTRALE, in persona del Direttore

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI

12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE (OMISSIS) DI (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 22/2013 della COMM. TRIB. REG. di NAPOLI,

depositata il 14/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

28/01/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI.

Fatto

RILEVATO

che:

la Milk Bar s.r.l. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 22/44/2013, depositata il 14.03.2013 dalla Commissione tributaria regionale della Campania, che, in riforma della decisione pronunciata nel giudizio di primo grado, totalmente favorevole al contribuente, aveva confermato in parte l’avviso di accertamento notificato alla ricorrente dall’Agenzia delle entrate, riducendo i ricavi rideterminati per l’anno d’imposta 2005 ai fini Ires, Irap ed Iva.

L’atto impositivo era stato generato da una verifica “a tavolino”, le cui risultanze erano state poi trasfuse nell’atto di accertamento.

Nel contenzioso seguitone la Commissione tributaria provinciale di Napoli, con sentenza n. 409/14/2011 aveva accolto il ricorso della società sul rilievo che l’accertamento fosse fondato sugli studi di settore e che fosse stato violato l’obbligo del contraddittorio.

La sentenza, appellata dall’Ufficio dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania, era stata riformata con la pronuncia ora al vaglio della Corte. Il giudice regionale ha in particolare affermato che l’accertamento eseguito nei confronti della contribuente non rientrasse tra quelli fondati su studi di settore, utilizzati solo a conforto degli esiti di un accertamento analitico-induttivo; aveva ritenuto non obbligatoria l’instaurazione del contraddittorio; aveva poi confermato i dati assunti ai fini dell’accertamento, con la sola eccezione dei costi sostenuti dalla società per l’acquisto del caffè, quale materia prima utilizzata per la preparazione delle bevande servite nell’esercizio commerciale, conseguentemente e implicitamente riducendo i maggiori ricavi accertati dall’Agenzia.

La ricorrente censura con otto motivi la sentenza:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 42, della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, degli artt. 2697 e 2700 c.c., perchè l’avviso di accertamento era carente di motivazione e dunque viziato;

con il secondo per l’illegittimità dell’avviso di accertamento per violazione del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, convertito in L. 29 ottobre 1993, n. 427, perchè l’Amministrazione finanziaria aveva fatto ricorso alla normativa sugli studi di settore, senza dimostrare le gravi incongruenze richieste dalla disciplina;

con il terzo per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, perchè la Commissione regionale non ha considerato che l’accertamento era solo basato su dati statistici degli studi di settore, senza alcuna valutazione in ordine alla sussistenza di gravi incongruenze;

con il quarto per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per erroneità dei dati di calcolo e violazione dell’art. 115 c.p.c.;

con il quinto per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, commi 2 e 5, per non aver tenuto conto che l’avviso di accertamento aveva omesso di indicare gli errori, omissioni, falsità e inesattezze fondanti la rettifica;

con il sesto per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2, per non aver considerato che le inesattezze ed omissioni devono evincersi dai registri e scritture contabili, potendo desumersi da presunzioni solo se gravi, precise e concordanti;

con il settimo per violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 2, art. 12, comma 2 e 4, art. 10, commi 1 e 2, per non aver tenuto conto dell’obbligo di collaborazione tra contribuente e Agenzia;

con l’ottavo per violazione della L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, per non aver tenuto conto della violazione degli obblighi di contraddittorio nell’ipotesi di ricorso agli studi di settore.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza, con decisione nel merito o rinvio.

Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha eccepito l’inammissibilità del ricorso e nel merito ha contestato la fondatezza dei motivi, dei quali ha chiesto il rigetto.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

Il primo motivo, con il quale ci si duole dei vizi dell’avviso di accertamento perchè carente di motivazione, è inammissibile.

Va rammentato che il ricorso per cassazione costituisce uno strumento di impugnazione a critica vincolata, avente ad oggetto la sentenza.

Nel caso di specie tutto il motivo si sviluppa nella critica all’avviso di accertamento, sotto il profilo delle sue carenze, con particolare riferimento alla carenza della motivazione. A fronte delle pagine dedicate ai pretesi vizi dell’atto impositivo, del quale si omette anche la riproduzione, sicchè la censura risulta anche incomprensibile sotto il profilo dell’autosufficienza dell’atto impugnatorio, solo in tre righi, che seguono l’epigrafe del motivo di ricorso, si denuncia genericamente l’assoluta erroneità della sentenza, ma non si specifica in cosa e come la pronuncia fosse erronea e viziata.

Il secondo motivo è inammissibile per le medesime ragioni, poichè la critica è anche in questo caso diretta all’atto impositivo e non alla sentenza. Se poi con esso si volevano muovere indirettamente censure alla decisione, per non aver tenuto conto che l’avviso di accertamento era viziato perchè fondato sugli studi di settore senza che ve ne fossero i presupposti, esso è infondato per non aver colto nel segno, avendo il giudice d’appello affermato e motivato che l’accertamento era analitico induttivo, e il riferimento agli elementi utilizzabili per gli studi di settore era solo rafforzativo della verifica condotta ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

Il terzo e il quarto motivo, che possono essere trattati congiuntamente per condurre entrambi critiche alla decisione sotto il profilo del vizio motivazionale, e in particolare per denunciare gli errori del giudice d’appello, il quale non avrebbe considerato che l’accertamento era fondato esclusivamente sugli studi di settore, e che non si era pronunciato sulla erroneità dei fattori di calcolo del reddito posti a fondamento dell’avviso di accertamento, sono inammissibili.

Deve intanto premettersi che la sentenza impugnata è stata depositata il 14 marzo 2013 e ad essa trova dunque applicazione la nuova formulazione del vizio di motivazione, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. Dunque il sindacato di legittimità sulla decisione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, sent. n. 8053/2014; n. 23828/2015; n. 23940/2017). Sicchè con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., ord. n. 27415/2018).

Ciò chiarito, a parte che la denuncia dell’accertamento fondato solo sugli studi di settore non costituisce un “fatto storico”, rappresentando un metodo di indagine normativamente previsto e disciplinato, non è neppure vero che la sentenza abbia omesso di esaminare le doglianze della contribuente, escludendo però che nel caso di specie l’accertamento fosse stato condotto con quello strumento, e riconducendo invece la metodologia d’accertamento del maggior reddito nello strumento analitico-induttivo. Tale configurazione esula dal vizio motivazionale censurabile alla luce del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Altrettanto dicasi sulla seconda censura di merito, poichè va escluso che la pronuncia abbia omesso di trattare dei fattori di computo del reddito posti a fondamento dell’avviso di accertamento. Anzi è su tale esame che il giudice d’appello ha potuto affermare l’erroneità dei conteggi del costo di acquisto del caffè. Tutti gli altri calcoli che la ricorrente pretende di riportare all’attenzione della Corte costituiscono un inammissibile tentativo di introdurre, nel giudizio di legittimità, questioni di merito.

Infondati, quando non inammissibili per la loro genericità, non indicando quale sia la parte errata della decisione impugnata, sono poi i motivi quinto e sesto, che possono essere trattati congiuntamente perchè intrinsecamente collegati. Con essi si assume la violazione delle norme in materia di Iva (D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 56 e 54), perchè non si sarebbe tenuto conto che l’avviso di accertamento aveva omesso di indicare gli errori, le omissioni, le falsità e inesattezze fondanti la rettifica e non avrebbe considerato che le inesattezze ed omissioni devono evincersi dai registri e scritture contabili, potendo desumersi da presunzioni solo se gravi, precise e concordanti.

Le censure non colgono nel segno perchè l’intero impianto logico motivazionale della decisione è basato sulla evidenziazione dell’erronea decisione del giudice di prime cure, per aver ritenuto l’accertamento fondato sugli studi di settore, laddove esso era basato su un accertamento analitico induttivo, e per aver descritto, succintamente ma efficacemente, i dati presuntivi utilizzati, e principalmente la quantità di materia prima acquistata (caffè e altro), la quantità di prodotti preparabili con quelle materie, il numero di ordini presuntivamente soddisfatti nell’esercizio commerciale, i ricavi complessivi sulla base dei ricarichi, il raffronto dei ricavi così calcolati con quelli dichiarati. A tal fine ha anche ritenuto di aumentare il costo d’acquisto del caffè, rettificando in questo senso la determinazione dei ricavi indicati nell’avviso di accertamento e dunque riconoscendo parzialmente le ragioni della contribuente.

A fronte di tale ragionamento, risultano allora incomprensibili le ragioni delle censure, con le quali si lamenta che nell’atto impositivo dovevano essere indicati “gli errori, le omissioni, e le false o inesatte indicazioni su cui è fondata la rettifica”, laddove ci si trova di fronte ad un accertamento analitico induttivo, con l’utilizzo dunque di prove presuntive, fondate su indizi ritenuti gravi precisi e concordanti.

E altrettanto incomprensibili sono le ragioni delle censure per violazione dell’art. 54, comma 2, cit., tenendo conto della natura della prova su cui l’accertamento è stato condotto.

Parimenti inammissibile è poi il settimo motivo, che lamenta l’inosservanza al dovere di collaborazione tra contribuente e Amministrazione finanziaria. Per un verso risulta incomprensibile perchè la violazione dell’art. 6 comma 2 dello Statuto del contribuente, che riguarda l’ipotesi del mancato riconoscimento di un credito o la comminazione di una sanzione, e dell’art. 12, commi 2 e 4, in tema di verifica, sia stata addebitata alla Commissione tributaria regionale e non all’Amministrazione finanziaria. Per altro verso, se mal esprimendosi il contribuente aveva intenzione di dolersi che il giudice d’appello non si fosse pronunciato su tali omissioni dell’Agenzia, doveva preliminarmente indicare quando e in quale atto la questione fosse stata sollevata nei pregressi gradi di merito.

Infondato infine è l’ottavo motivo, con il quale ci si lamenta ancora del fatto che siano stati violati gli obblighi di instaurazione del contraddittorio nell’ipotesi di ricorso agli studi di settore. La decisione impugnata ha invece escluso che l’accertamento fosse stato condotto mediante studi di settore, riconoscendo invece che l’Amministrazione aveva fatto ricorso al metodo analitico-induttivo. Ne discende che la normativa invocata esula dal ragionamento condotto dal giudice d’appello e le censure risultano ultronee.

In conclusione il ricorso va rigettato. Le spese processuali seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso nei confronti della Agenzia; condanna la società ricorrente a rifondere alla Agenzia le spese di causa, che si liquidano in Euro 5.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020

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