Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13509 del 01/07/2016

Cassazione civile sez. lav., 01/07/2016, (ud. 23/02/2016, dep. 01/07/2016), n.13509

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19611/2014 proposto da:

I.N.P.G.I. – ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA DEI GIORNALISTI

ITALIANI “GIOVANNI AMENDOLA” (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato PAOLO

BOER, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

IL MESSAGGERO S.P.A., P.I. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

LUNGOTEVERE MICHELANGELO 9, presso lo srud10 dell’avvocato PATRIZIA

MITTIGA ZANDRI, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3872/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/08/2013 r.g.n. 2444/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/02/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato BOER PAOLO;

udito l’Avvocato MITTIGA ZANDRI PATRIZIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’I.N.P.G.I. appellava la sentenza, con la quale il giudice del lavoro di Roma in accoglimento dell’opposizione proposta da IL MESSAGGERO S.p.a. aveva revocato il Decreto Ingiuntivo n. 1928 del 2003 a favore dello stesso Istituto per l’importo complessivo di 846.098,00 Euro a titolo di contributi previdenziali omessi e relative sanzioni. L’appellante, nel riportarsi alle sue precedenti difese, eccezioni e richieste, aveva dedotto l’erroneità della sentenza impugnata per aver omesso di valutare le risultanze del verbale ispettivo e per aver errato nella valutazione delle acquisite testimonianze.

Acquisiti il conteggio alternativo e copia conforme di alcune sentenze, intervenute in altri giudizi, ma relative a talune delle posizioni dei giornalisti per i quali si assumevano gli omessi versamenti in questione, la Corte di Appello di Roma con sentenza n. 3872 del 18 aprile – sei agosto 2013, in parziale riforma della gravata pronuncia di primo grado, per il resto confermata, compensando interamente le spese per entrambi i gradi del giudizio, condannava la società appellata, già opponente in prime cure, al pagamento in favore dell’INPGI della somma di 139.396,37 Euro, pari all’ammontare dell’obbligo contributivo (sanzioni incluse), non soddisfatto limitatamente ai periodi considerati per i soli giornalisti S., C., A., CA., c., G., M., P. e Q., nei confronti dei quali, sebbene in relazione a distinti inquadramenti e profili inerenti a ciascuno di loro, potevano dirsi provati gli estremi della subordinazione, a seconda delle varie categorie contemplate dagli artt. 1, 2 e 12 del c.c.n.l. peri giornalisti (redattori, collaboratori fissi e corrispondenti locali), ad ogni modo esclusa per i titolari di rubriche fisse non d’informazioni, ma di opinioni. Veniva poi escluso l’interesse ad agire, relativamente alla posizione contributiva per la giornalista PE.An.Pa. (riguardo al periodo gennaio 2001 –

giugno 2002), per la quale era intervenuta la sentenza del giudice del lavoro di Ascoli Piceno in data 10 gennaio – 4 maggio 2012, che aveva accertato la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con mansioni di redattore alle dipendenze della società appellata dal gennaio 1992 al 30 novembre 2005, con diritto dell’INPGI al versamento dei contributi assicurativi di legge, e per cui l’Istituto, sebbene invitato a fornire chiarimenti al riguardo, non vi aveva provveduto.

Parimenti, per il giornalista AL.Ro. (periodo luglio 1997-

giugno 2002), con sentenza non definitiva del Tribunale di Teramo, emessa all’esito del giudizio instaurato dal predetto contro la S.p.A. Il Messaggero, era stata dichiarata l’esistenza tra le parti del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa dal 1 aprile 1996 al 30 settembre 2007. Tale decisione aveva accolto la domanda dello stesso Al., il quale aveva sostenuto la natura autonoma delle prestazioni rese a favore della società e sul punto nulla era stata specificamente dedotto in senso contrario dall’Istituto.

Avverso la sentenza della corte Capitolina l’INPGI proponeva ricorso per la sua parziale cassazione (limitatamente alle disattese sue pretese creditorie) con atto notificato in data primo, quattro 5 agosto 2000 affidato a sei motivi:

I) violazione falsa applicazione artt. 1 e 2 il contratto collettivo nazionale di lavoro giornalisti, artt. 2094, 1362 c.c. e segg. (in relazione all’interpretazione del contratto di lavoro giornalistico), D.P.R. n. 153 del 1961, art. 2, nonchè artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, n. 3, circa la posizione di B.G., tenuto conto delle dichiarazioni rese dal teste D., il quale aveva fornito elementi coincidenti con la declaratoria del c.c.n.l.

di categoria, avuto riguardo alla subordinazione attenuata nella sua specifica accezione giornalistica, donde la sussistenza dell’obbligo contributivo, quanto meno con riferimento alla figura del collaboratore fisso ex art. 2 c.n.l.g. (e non a quella del redattore ex art. 1 dello stesso contratto collettivo);

2) violazione e falsa applicazione artt. 2 e 8 contratto collettivo nazionale di lavoro giomalistico 10 gennaio 1959, reso obbligatorio erga omnes dal D.P.R. n. 153 del 1961, in violazione degli artt. 2094 e 2095 c.c., nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., art. 1362 c.c., in relazione all’articolo due e all’art. 8 del contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico 10 gennaio 59, reso obbligatorio erga omnes dal D.P.R. n. 153 del 1961. In sintesi, dovendo ritenersi ricondotti nella categoria dei cosiddetti collaboratori fissi, come disciplinati dall’art. 2 del contratto collettivo nazionale di lavoro giornalistico anche coloro che si occupano in maniera stabile di tenere una c.d. rubrica fissa, quindi coloro che hanno un incarico di trattare in via continuativa un argomento o un settore dell’informazione, ancorchè impegnati altre attività lavorative;

3) violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 12 del contratto collettivo nazionale di lavoro giornalisti 10 gennaio 1959, reso obbligatorio erga omnes D.P.R. n. 153 del 1961, art. 2094 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, relativamente alla figura del cosiddetto corrispondente, risultando al riguardo la sentenza impugnata meritevole di censura per non aver fatto corretta applicazione del combinato disposto delle succitate norme, in particolare per non aver dato risalto al differente atteggiarsi dei rapporti nella categoria unica dei corrispondenti, laddove invece lo stesso art. 5 individuava differenti gradi e livelli di apporto anche in relazione a tale figura professionale;

4) violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 421 c.p.c., anche in relazione agli artt. 2697, 2094 c.c. e segg., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla portata della valenza probatoria del cosiddetto verbale ispettivo. La Corte di Appello, infatti, aveva assolutamente sottovalutato la portata dell’orientamento giurisprudenziale citato, formatosi in materia, che attribuisce attendibilità privilegiata al verbale ispettivo, prodotto giudizio, e nella specie corredato di ben 79 dichiarazioni, violando così l’art. 2967, in tema di riparto dell’onere probatorio, nonchè i menzionati artt. 115 e 116, afferenti alla valutazione della prova e alla individuazione delle fonti del convincimento del giudice, e l’art. 421 c.c., con obbligo per il giudice del gravame d’integrare le prove testimoniali escutendo ulteriori testi; per cui il giudicante avrebbe dovuto dar seguito alle istanze dell’INPGI e ad integrazione istruttoria (però senza precisare in alcun modo dove e quando tali istanze sarebbero state formalizzate, nonchè il loro contenuto);

5) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 414, 421, 437, 210, 213 e 134 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Il collegio giudicante non aveva in particolare considerato quando dedotto a pag. 30 del ricorso d’appello in via istruttoria, poichè su alcune posizioni l’istruttoria era stata sommaria (per alcune posizioni è stato sentito un solo teste, per altre nessuno), si chiede ammettersi prova per testi sui capitoli di prova di cui alla memoria difensiva in primo grado, con i testi ivi indicati e non escussi. Si ripropongono tutte le istanze, le domande, eccezioni ed argomentazioni e deduzioni istruttorie avanzate negli scritti difensivi di primo grado nonchè a verbale, che di conseguenza no devono considerarsi abbandonate e/o assorbite.

Infatti, il giudice violando e mal interpretando il disposto delle anzidette disposizioni, o comunque omettendo ogni motivazione (sempre su di un punto rilevante decisivo afferente all’accertamento della natura subordinata), idonea ad esplicitare le ragioni del mancato esercizio, aveva mancato nella controversia, trattata secondo il rito del lavoro, di esercitare in se al disposto di citati artt. 421 e 437 il potere di ufficio, non meramente discrezionale, ma intendersi come potere – dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati dal materiale istruttorio ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, nei sensi indicati da Cass. 20 maggio 2000 n. 6592, contemperando il principio dispositivo con le esigenze di ricerca della verità materiale, non potendosi quindi fare meccanica applicazione della regola formale fondata sull’onere della prova…;

6) violazione e falsa applicazione art. 100 c.p.c., anche con riferimento all’art. 39 cit. codice, relativamente alla posizione della giornalista PE.Pa., per cui la Corte di Appello, in base alla sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno, aveva ritenuto sostanzialmente la carenza di interesse da parte dell’Istituto, ma erroneamente, in quanto, essendo il contenzioso della lavoratrice presso il Tribunale non ancora definito, permaneva sempre l’interesse dell’ente a coltivare l’azione, esperita nel giudizio prima ancora dell’altro, successivamente instaurato, sicchè operava inoltre il principio della prevenzione, secondo cui il giudice successivamente adito in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara la litispendenza, ordinando la cancellazione della causa.

Ha resistito al ricorso dell’INPGI la S.p.A. IL MESSAGGERO come da controricorso di cui alla relata di notifica in data 10-12 settembre 2014.

Le parti, peraltro anche comparse alla pubblica udienza del 23/02/2016, hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso dell’INPGI è soltanto in parte fondato, di modo che va l’impugnata sentenza va cassata per quanto di ragione, alla stregua delle seguenti considerazioni.

Preliminarmente, ad ogni modo, i suddetti primi cinque motivi, possono essere esaminati congiuntamente, tenuto conto delle connesse questioni che il riguardano.

Inoltre, ancora in via preliminare, deve rilevarsi che la sentenza de qua risale al 18 aprile – sei agosto 2013, sicchè, indipendentemente altresì dal riferimenti fatti da parte ricorrente alle varie ipotesi di vizi denunciabili, contemplati dall’art. 360 c.p.c., non sono comunque ammesse censure di sorta circa le motivazioni poste a base della pronuncia, se non negli stretti limiti consentiti dal vigente art. 360, comma 1, n. 5) citato, cioè per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, norma che, per espressa previsione dell’art. 54, comma 3, D.L. cit., “si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, avvenuta il 12 agosto 2012.

V., quindi, Cass. sa. un. civ. n. 8053 del 7/4/2014, secondo cui la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale, che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere al confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto,d irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. In senso analogo, v. Cass. civ. sez. 6-1, n. 19677 del 1/10/2015.

V., altresì, Cass. 1 civ. n. 5133 del 5/3/2014: l’omesso esame del fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 – afferisce, nella prospettiva della novella che mira a ridurre drasticamente l’area del sindacato di legittimità intorno ai “fatti”, a dati materiali, ad episodi fenomenici rilevanti ed alle loro ricadute in termini di diritto, aventi portata idonea a determinare direttamente l’esito del giudizio.

Cass. lav. n. 21439 del 21/10/2015: nel giudizio di cassazione è precluso l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori, tanto più a seguito della modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, operata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. con modif. in L. n. 134 del 2012, che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle parti.

Cass. Sez. 6-3, n. 13928 del 06/07/2015: nel vigore del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non è più configurabile il vizio di contraddittoria motivazione della sentenza, atteso che la norma suddetta attribuisce rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, non potendo neppure ritenersi che il vizio di contraddittoria motivazione sopravviva come ipotesi di nullità della sentenza ai sensi del n. 4) del medesimo art. 360 c.p.c..

Cass. sez. 6-5, n. 16300 del 16/07/2014: ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve escludersi la sindacabilità in sede di legittimità della correttezza logica della motivazione di idoneità probatoria di una determinata risultanza processuale, non avendo più autonoma rilevanza il vizio di contraddittorietà della motivazione.

Cass. sez. 6-3, n. 12928 del 09/06/2014: dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili).

Pertanto, le censure, più che altro di merito ed attinenti ai fatti per quanto accertati nel primi due gradi di giudizio, non possono di certo integrare, alla luce della succitata giurisprudenza, le limitate condizioni contemplate dal vigente testo dell’art. 360, n. 5 cit., le quali come visto con prevedono più il vizio riferito alla omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.

D’altro canto, anche in base alla previgente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, era consolidato il principio, secondo cui il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, non può essere inteso a far valere la impugnata venga della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'”iter” formativo dl tale convincimento, rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360, comma 1, n. 5), cit.: in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero dl una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità (cosa, tra le altre, Cass. lav. n. 3881 del 22/02/2006; in senso analogo v. anche Casa. 1 civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti.

Parimenti, secondo Cass. 3 civ. n. 3928 del 31/03/2000, il vizio di omessa o insufficiente motivazione sussiste unicamente quando le argomentazioni del giudice non consentano di ripercorrere l’iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno un insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l’esame di punti decisivi della controversia.

Diversamente, quando il ricorrente si limiti a fornire una diversa ricostruzione dei fatti, contrastante con quella accertata nella sentenza impugnata, ovvero il convincimento e l’apprezzamento del giudice dl merito risultante difforme da quello auspicato si chiede un riesame del merito inammissibile in sede di legittimità).

Pertanto, non sono ammissibili in questa sede di legittimità le diverse ricostruzioni dei fatti prospettatati dal ricorrente, attesa l’ampia e particolareggiata motivazione fornita dei giudici di merito, posta a sostegno della decisione in base alle acquisite risultanze istruttorie.

Ed invero, la pronuncia impugnata pur dava atto del principio di diritto, secondo cui, in ordine alle circostanze apprese da terzi, i rapporti ispettivi redatti dai funzionali degli istituti previdenziali, sebbene non fidefacenti sotto il profilo probatorio fino a querela di falso, per la loro natura hanno un’attendibilità che può essere infirmata solo da prova contraria (qualora li rapporto sia in grado di esprimere ogni elemento da cui trae origine, e in particolare siano allegati i verbali, che costituiscono la fonte della conoscenza riferita dall’ispettore nel rapporto e possono essere acquisiti anche con l’esercizio dei poteri ex art. 421 c.p.c., si da consentire al giudice e alle parti il controllo e la valutazione del loro contenuto – citando Casti. lav. n. 14965 del 20/06 – 06/09/2012). Tuttavia, al contempo in proposito la Corte capitolina osservava che in primo grado era stata assunta un’ampia ed articolata prova testimoniale, che non soltanto aveva fornito elementi rilevanti e decisivi, ma che aveva pure smentito – salvo che per alcune posizioni – le conclusioni cui erano giunti gli ispettori INPGI e sulle quali detto Istituto aveva però insistito.

Quindi, la Corte distrettuale, dopo aver richiamato precedenti giurisprudenziali di legittimità relativamente all’attività giornalistica, nonchè le previsioni della contrattazione collettiva di settore, ha esaminato distintamente le singole posizioni dei vari lavoratori interessati, escludendo, per quanto qui ancora interessa, rapporti di tipo subordinato con conseguenti obblighi contributivi, in base alle dichiarazioni rese dai testi escussi (per B. G., durante il periodo gennaio 2001 – giugno 2002, motivando più che sufficientemente e del tutto ragionevolmente le sue valutazioni In base a quanto riferito da F., capo servizio della redazione di Teramo, e da D., giornalista dipendente de Il Messaggero; con riferimento alla posizione di AB. V., anch’egli per lo stesso arco temporale, per cui tra l’altro il teste Co., capo servizio della redazione di (OMISSIS), il predetto non si recava quasi mai in redazione e veniva compensato quindi a pezzo, come collaboratore esterno; per AL. R. – luglio 1997 – giugno 2002 – in base a quanto accertato in altro giudizio con sentenza, circa la sussistenza soltanto di una collaborazione autonoma, coordinata e continuativa, da aprile 1996 sino al settembre 2007, laddove era stato anche appurato che costui era titolare di un’agenzia di notizie e di comunicati stampa, la quale offriva servizi alla redazione di (OMISSIS); per E. G. – periodo gennaio 2001 – giugno 2002 – alla luce la deposizione del teste T., secondo cui il predetto e L.R. venivano compensati a pezzo, ossia di volta in volta, senza alcun obbligo di tenersi a disposizione, poichè il giornale lo contattava all’occorrenza per mandarlo da qualche parte, sempre che fosse disponibile; parimenti, per la suddetta L., in relazione al medesimo arco temporale, in base a quanto riferito dal T., secondo il quale la stessa e p. collaboravano con la cronaca di (OMISSIS), proponendo dei pezzi la mattina, che quindi trasmettevano se ottenevano l’OK. Peraltro, la L. non aveva un argomento fisso di cui si occupava ed era una insegnante in pensione, che dl recente porto un agriturismo. Era lei a proporre gli argomenti ed all’occorrenza le veniva chiesto di seguire I particolari… il suo impegno era variabile avendo ella una serie di altri impegni; per FE.Gi., marzo 1999 – giugno 2002, esclusa la rilevanza delle menzionate sentenze, siccome riferite all’accertamento di rapporto di lavoro con altra e diversa società, doveva pure escludersi, in base alle insufficienti e non univoche dichiarazioni del teste D.L., la sussistenza di una collaborazione fissa, essendo stato piuttosto dimostrato il solo conferimento di volta in volta di singoli incarichi; per GI.Pl. – periodo gennaio 2001 – giugno 2002, nessun teste aveva riferito in ordine alla posizione di costui, mentre nel questionario datato 27.2.2001, fornito dagli ispettori INPGI, il medesimo alla domanda, se tra una collaborazione e l’altra le sue energie fossero comunque a disposizione dell’Azienda, aveva risposto negativamente, sostanzialmente in conformità alle dichiarazioni rese in sede ispettiva da PA.Gi., redattore ordinario de Il MESSAGGERO, laddove agli ispettori ME.Pa. si era limitata a dire che il GI. curava una rubrica settimanale di teatro, senza però fornire altre precisazioni, di modo che il solo affidamento della non meglio indicata rubrica non era sufficiente, mancando il vincolo di dipendenza, ad integrare lo schema di cui all’art. 2 cnlg; per AN.Al. – periodo gennaio 2001 – giugno 2002 – e O.S., luglio 1997 – giugno 2002, le tesi dell’INPGI non trovavano adeguato riscontro nella deposizione del teste MA., caporedattore sport, secondo il quale costoro venivano pagati a pezzo, in base all’incarico di volta in volta conferito o da loro proposto, collaborando altresì gli stessi pure con altre testate;

per D.R.M. – gennaio 2001 – giugno 2002 – la dedotta collaborazione fissa non trovava riscontro nelle dichiarazioni del teste GR., direttore del giornale dal 1999 al 2002, ed in sede ispettiva da g.e.; m.e., periodo gennaio 1998 – giugno 2002, in base a quanto dichiarato dal teste Q.;

Z.F., luglio 1997 – giugno 2002, già dipendente del giornale, poi collocato in pensione, in forza di quanto riferito dal teste c., vice direttore vicario, secondo cui lo Z. era un libero professionista, storica firma del settore musicale).

Inoltre, sono state congiuntamente esaminate, come richiesto pure dall’INPGI, le posizioni dei più noti giornalisti (pubblicisti o professionisti, il tutto come precisato in sentenza a fianco di ciascun nominativo, con l’indicazione altresì del rispettivi periodi) B.B., + ALTRI OMESSI . Per costoro l’INPGI ha preteso che si fosse trattato di collaborazioni fisse ex art. 2 c.n.l.g. sulla base della mera circostanza, consistita nell’aver ciascuno di loro curato una rubrica settimanale (il tutto come specificamente indicato nella sentenza de qua). Al riguardo, per contro, la Corte capitolina ha escluso il vincolo dipendenza, caratterizzante la fattispecie di cui al citato art. 2, che non poteva essere trascurato. Mancava, infatti, la prova della responsabilità del servizio, intesa come impegno del giornalista di trattare con continuità di prestazioni uno specifico settore, ponendo a disposizione le energie lavorative, con conseguente affidamento dell’impresa giornalistica, che si assicura in tal modo la copertura di una determinata area informativa, facendo affidamento, per il perseguimento dei suoi obiettivi editoriali, sulla piena disponibilità del lavoratore, anche nell’intervallo tra una prestazione e l’altra. Tali condizioni, però, non ricorrevano nella specie per i suddetti B. ed altri, nè erano state dimostrate dall’Istituto, che riteneva invece sufficiente la mera titolarità di una rubrica, peraltro non d’informazione, ma di opinione, cioè di commento. Nè l’INPGI aveva considerato che trattavasi di personaggi, i quali svolgevano con stabilità altra qualificata attività di lavoro, così come ancora una volta pure precisato sul punto nella sentenza de qua, sicchè era difficile Immaginare costoro a disposizione della spa MESSAGGERO, tent’è che nulla in proposito era stato acquisito. Anzi, il teste c. aveva puntualmente chiarito non soltanto l’assoluta autonomia e libertà con la quale i predetti operavano, ma anche le ragioni “delle rispettive collaborazioni in virtù della loro “competenza professionale e non per stabili esigenze della redazione”.

Infine, la Corte territoriale ha esaminato la posizione dei corrispondenti, ex art. 12 c.n.l.g., per cui ha ritenuto sempre e comunque necessario che il giornalista si tenga stabilmente a disposizione dell’editore, per eseguirne le istruzioni, anche negli intervalli tra una prestazione e l’altra, rilevando invece in senso contrario il fatto che le prestazioni siano singolarmente convenute in base ad una successione di incarichi con retribuzione commisurata singola prestazione. Per contro, l’Istituto sia in sede Ispettiva che giudiziaria aveva finito per privilegiare esclusivamente l’attività d’informazione dalle zone per ciascuno indicate, senza però fornire la prova, tranne che per alcune posizioni, della sussistenza del vicolo della subordinazione. Di conseguenza, la prestazione ex citato art. 12, di corrispondente, con conseguente obbligo contributivo, veniva motivatamente esclusa dalla Corte di merito per ca.

t. (periodo gennaio 2001 – giugno 2002, in base alle dichiarazioni del teste p.), per R.S. (gennaio 2001 – giugno 2002, in virtù di quanto riferito dal teste T.), I.S. (gennaio 2001 – giugno 2002, teste D.N. A., all’epoca addetto alla redazione di (OMISSIS), secondo il quale tra l’altro nella zona di (OMISSIS) operavano mediamente cinque o sei collaboratori tra i quali lo I., sicchè la copertura informativa di detto territorio non era affidata a costui, nè esclusivamente, nè prevalentemente), nonchè per CI. C., + ALTRI OMESSI (periodo gennaio 2001 – giugno 2002, in base alla deposizione del teste Q., caposervizio in cronaca di Roma, di guisa che l’assenza di un vincolo di dipendenza, desumibile chiaramente dall’assoluta libertà di non rendersi disponibili, escludeva la sussistenza di u rapporto dl lavoro subordinato).

Orbene, premesso che nelle anzidette motivazioni non si ravvisano errori o omissioni di sorta, rilevanti in base alla vigente formulazione del citato art. 360, comma 1, n. 5, i fatti di causa devono ritenersi come sopra acclarati, in base alla prudenti e congrue argomentazioni svolte dal giudice di merito, di guisa che nemmeno è dato ravvisare le asserite violazioni di legge o di contrattazione collettiva, dedotte da parte ricorrente, però sulla scorta di motivi in effetti attinenti a circostanze fattuali, diversamente prospettate, come tali insuscettibili di censure in questa sede di legittimità, sicchè neanche rilevano le aspettative sulle quali essenzialmente si fondano gli anzidetti primi cinque motivi d’impugnazione. Tra questi, del resto, non a caso l’Istituto si duole del mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio (cfr.

4 e 5, invero come sopra visto neanche meglio precisati), da parte dei giudici di merito, con l’intento perciò di rivedere e di rimettere in discussione le anzidette acquisite risultanze probatorie, in base alle quali, nell’ambito della sua discrezionale propria sfera di competenza, la Corte distrettuale ha quindi del tutto correttamente deciso in base agli elementi ritenuti utili ai fini della decisione (cfr. del resto sul punto anche Cass. lav. n. 9076 del 19/04/2006, secondo cui per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, valido oltre che per il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5 anche per quello previsto dal n. 3 della stessa disposizione normativa, il ricorrente che denunzia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, non può limitarsi a specificare soltanto la singola norma di cui, appunto, si denunzia la violazione, ma deve indicare gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti dl operatività di detta violazione. Siffatto onere sussiste anche allorquando il ricorrente lamenti che il giudice del gravame non abbia – pur in presenza di una sua istanza al riguardo esercitato il suo potere-dovere istruttorio ex artt. 421 e 437 c.p.c., ed ancora quando affermi che una data circostanza debba reputarsi sottratta al “thema decidendum”, perchè non contestata, con la conseguenza che, in tale ipotesi, il ricorrente medesimo è tenuto ad indicare le modalità e la ritualità della sua istanza istruttoria nonchè ad evidenziare la tempestività della censura mossa in ordine all’inerzia o al mancato accoglimento da parte del giudice delle sue richieste.

Per altro verso, va ricordato – cfr. tra le altre Cass. lav. n. 3601 del 20/02/2006 – che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, essendo sufficiente, al fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti che il convincimento nell’accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso.

V. d’altro canto, quanto al merito, Cass. lav. n. 11065 del 20/05/2014, secondo cui per la configurabilità della qualifica di “collaboratore fisso”, art. 2 del c.c.n.l. lavoro giornalistico reso efficace “erga canne” con D.P.R. 16 gennaio 1961, n. 153 – la “responsabilità di un servizio” va intesa come l’impegno del giornalista di trattare, con continuità di prestazioni, uno specifico settore o specifici argomenti d’informazione, onde deve ritenersi tale colui che mette a disposizione le proprie energie lavorative, per fornire con continuità al lettori della testata un flusso di notizie in una specifica e predeterminata area dell’informazione, attraverso la redazione sistematica di articoli o con la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell’impresa giornalistica, che si assicura così la “copertura” di detta area informativa, rientrante nei propri piani editoriali e nella propria autonoma gestione delle notizie da far conoscere, contando, per il perseguimento di tali obiettivi, sulla piena disponibilità del lavoratore, anche nell’intervallo tra una prestazione e l’altra.

Conformi Cass. n. 7931 del 2000 e n. 4797 del 2004, i cui principi non risultano del resto affatto violati dalla sentenza di cui l’Istituto chiede la cassazione.

Cass. lav. n. 833 del 20/01/2001. ai fini della integrazione della qualifica di redattore e della sua distinzione dalle altre figure di giornalisti, è imprescindibile il requisito della quotidianità della prestazione in contrapposizione alla semplice sua continuità, caratterizzante la figura del collaboratore fisso; nei confronti di quest’ultimo il requisito della responsabilità del servizio deve essere inteso come l’impegno del giornalista di trattare con continuità di prestazioni uno specifico settore o specifici argomenti di informazioni; deve, quindi, ritenersi collaboratore fisso colui che mette a disposizione le proprie energie lavorative per fornire con continuità ai lettori della testata un flusso di notizie in una specifica e predeterminata area dell’informazione, attraverso la redazione sistematica di articoli o con la tenuta di rubriche, con conseguente affidamento dell’Impresa giornalistica, che si assicura così la copertura di detta area informativa, contando per il perseguimento degli obiettivi editoriali sulla disponibilità del lavoratore anche nell’intervallo tra una prestazione e l’altra.

Cass. lav. n. 13945 del 21/10/2000: con riferimento all’attività giornalistica, ciò che rileva particolarmente al fini dell’individuazione del vincolo della subordinazione – che è attenuato in considerazione della natura squisitamente intellettuale delle prestazioni lavorative, caratterizzate da creatività e autonomia – è l’inserimento continuativo e organico delle prestazioni stesse nell’organizzazione dell’impresa, la cui sussistenza va esclusa quando siano convenute singole, ancorchè continuative, prestazioni in una successione di incarichi professionali e la remunerazione sia commisurata alla prestazione singolarmente convenuta. Cass. lav. n. 3229 del 28/04/1988: il rapporto di lavoro giornalistico del collaboratore fisso non quotidiano ha carattere subordinato ove sussistano gli elementi rivelatori della subordinazione assunti dalla disciplina collettiva di categoria a specificazione della generale nozione di subordinazione ex art. 2094 c.c., i quali, ai sensi dell’art. 2 del conto-atto collettivo del 1959, reso efficace erga omnes con D.P.R. n. 153 del 1961, sono costituiti dalla continuità della prestazione, che implica un’attività lavorativa non occasionale rivolta ad assicurare le esigenze formative ed informative di uno specifico settore, dalla responsabilità di un servizio, che implica la sistematica compilazione di articoli su specifici argomenti o rubriche, dal vincolo di dipendenza, il quale implica che l’impegno del collaboratore fisso non quotidiano di porre a disposizione la propria opera non venga meno fra una prestazione e l’altra. Cass. lav. n. 2656 dei 28/04/1984: la prestazione dell’opera giornalistica fuori dell’ambito di uno specifico settore o di specifici argomenti o della compilazione di rubriche comporta, ai sensi della disciplina collettiva in materia, soltanto l’esclusione della figura del collaboratore fisso, dal quale il corrispondente, che è un giornalista operante in una località diversa da quella ove ha sede la redazione del giornale, si distingue per il fatto di non avere un campo di attività specializzato, fornendo, in relazione agli avvenimenti della zona assegnatagli, notizie e servizi interessanti le materie più disparate).

A ciò aggiungasi l’ulteriore considerazione che il vizio di motivazione, in quanto tale, nel caso di specie, alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 cit., come già detto qui ratione temporis applicabile, non è più ammesso, se non nei limiti rigorosi ora richiesti, di modo che, a parte le Indispensabili precisazioni ed allegazioni di cui agli artt. 366 e 369 c.p.c, occorre altresì la sussistenza del requisito della dedsività del fatto che si assume omesso, nel senso cioè che l’elemento pretermesso porti necessariamente ad esito diverso rispetto alla decisione impugnata, condizione che anch’essa nel caso in esame non puì dirsi affatto ritualmente allegata, stante attesa soprattutto la genericità delle deduzioni sul punto, circa l’asserito omesso svolgimento di ulteriore istruttoria, segnatamente con riferimento alla prova testimoniale, laddove per altro verso vige la regola generale del divieto in appello di nuovi mezzi ex art. 437 c.p.c. (…, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa).

Inconferenti, altresì, appaiono le censure di parte ricorrente in ordine alla pretesa violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., visto che, come si evince dalle menzionate argomentazioni, la Corte di merito, nell’ambito delle sue precipue attribuzioni, ha complessivamente valutato sia le risultanze della prova testimoniale sia gli elementi emergenti dall’accertamento ispettivo, selezionando quindi insindacabilmente il materiale ritenuto più convincente ai fini della propria decisione.

Del resto, pare anche che parte ricorrente non consideri il principio dell’acquisizione probatoria. Ed invero (cfr. tra le altre Cass. 5 civ. n. 739 del 19/01/2010), il principio relativo all’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato del relativo onere, senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo, poichè nel vigente ordinamento processuale, anche tributario, vale il principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro (parfinenti, secondo Cass. 3 civ. n. 25028 del 10/10/2008, nel vigente ordinamento processuale opera il principio dell’acquisizione delle prove, in forza del quale il giudice è libero di formare il suo convincimento sulla base di tutte le risultanze istruttorie, quale che sia la parte ad iniziativa della quale sia avvenuto il loro ingresso nel giudizio, con l’unico limite, riguardo alla configurabilità di domande implicitamente subordinate, che vi sia la necessita di svolgere, in relazione ad esse, indagini su diversi temi di fatto non introdotti ritualmente in giudizio.

Cass. lav. n. 15162 del 09/06/2008: il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c., deve essere contemperato con il principio di acquisizione, desumibile da alcune disposizioni del codice di rito – quale ad esempio l’art. 245 c.p.c., comma 2 – ed avente fondamento nella costituzionalizzazione dei principio del giusto processo, in base al quale le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si siano formate, concorrono tutte alla formazione del convincimento del giudice. Ne deriva che la soccombenza dell’attore consegue alla inottemperanza dell’onere probatorio a suo carico soltanto nell’ipotesi in cui le risultanze istruttorie, comunque acquisite al processo, non siano sufficienti per provare i fatti che costituiscono il fondamento del diritto che si intende far valere in giudizio. Conforme Cass. n. 2285/2006.

V. ancora Cass. n civ. n. 3564 dei 25/03/1995, secondo cui per il principio c.d. dell’acquisizione della prova, ogni emergenza Istruttoria, una volta inclusa nell’incarto processuale, può legittimamente essere utilizzata dal giudice, indipendentemente dalla sua provenienza e dagli obiettivi che la parte deducente si era prefissi con la sua deduzione. Conformi: Cass. nn. 2247 del 1979, 2302 del 1980, n. 1123 del 1987, nonchè Cass. 5 civ. n. 15312 del 29/11/2000, secondo la quale nel sistema processualcivilistico vigente opera il principio cosiddetto dell’acquisizione della prova – applicabile anche al contenzioso tributario – in forza del quale ogni emergenza istruttoria, una volta raccolta, è legittimamente utilizzabile dal giudice indipendentemente dalla sua provenienza). Pertanto, i primi cinque motivi del ricorso, vanno disattesi nei sensi anzidetto, mentre diversamente deve dirsi con riferimento al 6, per il quale sono giustificate le doglianze dell’Istituto. Infatti, appare erroneo il difetto d’interesse ritenuto dalla Corte capitolina circa la posizione di Pe.Pa., soltanto perchè In base a sentenza di primo grado, non definitiva, comunque non risultata coperta da alcun giudicato, era stato accertato un rapporto di lavoro subordinato della suddetta giornalista alle dipendenze del MESSAGGERO spa, circa le mansioni di redattore da costei disimpegnate a far luogo dal novembre 1992 sino al 30 novembre 2005. Ed invero, a parte la mancata prova del passaggio in giudicato di tele pronuncia, la stessa si è limitate ad un mero accertamento, però senza alcuna espressa condanna a favore dell’INPGI in ordine alle connesse presumibili omesse contribuzioni, se non una mera declaratoria in proposito. Inoltre, si legge nella sentenza de qua che l’Istituto appellante veniva, inopinatamente, invitato a fornire chiarimenti sul punto e specificamente sul persistere della richiesta avanzata in questa sede, sicchè in mancanza di tele chiarimento la Corte distrettuale desumeva allo stato il diletto d’interesse ad agire dell’Istituto, che già lo abilitava ad agire alla riscossione, dei contributi, ma senza considerare che il titolo ivi menzionato, a parta la sua genericità, mancando di ogni quantificazione in proposito, non poteva dirsi definitivo, donde pure la possibilità di riforma in caso di accoglimento della relativa impugnazione. Per contro, il giudizio qui pendente non soltanto risulta essere stato precedentemente introdotto, ma riguarda altresì una pretesa creditoria specificamente quantificate (il cui ammontare peraltro non sembra essere stato neanche contestato), laddove quello definito in primo grado con la sentenza n. 2/2012, pronunciate dal giudice del lavoro di Ascoli Piceno, veniva introdotto su domanda della lavoratrice direttamente interessata e concluso soltanto mediante mera pronuncia di accertamento in favore dell’attrice, con conseguente obbligo contributivo della società convenuta in favore dell’INPGI (“diritto dell’INPGI al versamento dei contributi assicurativi di legge derivanti dal rapporto di lavoro così come accertato”). In tale contesto, pertanto, non poteva negarsi l’interesse dell’INPGI ad agire, relativamente alla posizione della Pe., tanto più che la pretesa creditoria di cui è causa in questo processo nemmeno si pone in termini di assoluta incompatibilità con l’accertamento di cui alla sentenza ascolana in dato 10 gennaio – 4 maggio 2012, attesa appunto la rilevato genericità di quest’ultima (come visto per di più senza alcuna espressa condanna al riguardo, per cui in pratica nemmeno poteva valere come idoneo titolo da porre in esecuzione), sicchè, in difetto di spontaneo adempimento in proposito da parte dell’obbligata, nulla vietava, nè vieta, all’Istituto di agire separatamente per ottenere la rispettiva condanna, ancorchè riferita ad un periodo più ristretto rispetto a quello considerato nell’altro giudizio. Dunque, nemmeno è possibile ipotizzare una violazione del divieto di bis in idem, tanto più poi attesa la precarietà dell’altro provvedimento giudiziario, non ancora coperto da giudicato. Alla stregua delle precedenti considerazioni, pertanto, appare fondato il 6 motivo, segnatamente circa la dedotta violazione dell’art. 100 c.p.c., atteso che nella specie erroneamente veniva escluso l’interesse ad agire e, quindi, ad impugnare la contraria decisione di primo grado in merito al diritto azionato, da parte dell’Istituto allora appellante. Di conseguenza, la sentenza n. 3872/13 va cassata sul punto, con conseguente rinvio al giudice di merito, occorrendo ulteriori appositi accertamenti in proposito, mancando idonei e completi dati, allo stato qui non disponibili, affinchè si pronunci al riguardo, uniformandosi ex art. 384 c.p.c., nei sensi di quanto sopra statuito, nonchè all’esito per il definitivo regolamento delle spese di lite, ivi comprese quelle relative a questo giudizio di legittimità. Visto, infine, che il ricorso viene in parte accolto, non ricorrono gli estremi di legge per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

la Corte accoglie il sesto motivo e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche pene spese, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2016

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