Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13503 del 20/05/2019

Cassazione civile sez. II, 20/05/2019, (ud. 17/01/2019, dep. 20/05/2019), n.13503

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12318-2014 proposto da:

CONDOMINIO VIA (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

GALLIA 2 F, presso lo studio dell’avvocato CESARE BERTI,

rappresentato e difeso dall’avvocato GABRIELLA PALMISANO giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.J., G.S., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIA S. PELLICO 2, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA CRIMI,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato SERGIO CAMERINO

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

M.C., M.V.A., elettivamente

domiciliati in ROMA alla VIA GALLIA 2, scala F, int. 2, presso lo

studio dell’avvocato Cesare Berti che unitamente all’avvocato Paolo

Marensi, li rappresenta e difende in virtù di procura in calce al

controricorso;

– ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 1013/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 11/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/01/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il PM nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale ed incidentale;

uditi l’Avvocato Gabriella Palmisano per il ricorrente principale,

l’Avvocato Giuseppe Crimi per delega dell’Avvocato Francesca Crimi

per i ricorrenti incidentali.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Milano con la sentenza n. 489/2010 rigettava l’impugnativa della delibera condominiale del 4 marzo 2009, promossa da C.J. e G.S. nei confronti del condominio in (OMISSIS), relativa al punto 4 dell’ordine del giorno con il quale era stata disattesa dall’assemblea l’autorizzazione agli opponenti a realizzare quattro abbaini in corrispondenza della loro proprietà, sita all’ultimo piano del fabbricato.

A tal fine osservava che le opere per le quali era richiesta l’autorizzazione erano da reputarsi illegittime in quanto in contrasto con il disposto di cui all’art. 6 del regolamento condominale contrattuale, che poneva il divieto assoluto di realizzare interventi che potessero pregiudicare la simmetria e stabilità del tetto dell’edificio, non potendo nemmeno invocarsi la previsione di cui all’art. 1102 c.c., in quanto la creazione in corrispondenza degli abbaini di alcuni balconi si sarebbe tradotta in un danno per gli altri condomini, che avrebbero visto in tal modo ridotta la privacy delle loro abitazioni, stante anche la possibilità per eventuali malintenzionati di fruire delle nuove opere per accedere alla proprietà condominiali.

Avverso tale sentenza, emessa all’esito di un giudizio che aveva visto intervenire a sostegno della posizione del condominio anche i condomini M.C. e M.V.A., proponevano appello le originarie parti attrici.

La Corte d’Appello di Miano nella resistenza degli appellati con la sentenza n. 1013 dell’11 marzo 2014, in riforma della decisione gravata, annullava la delibera condominiale impugnata, accertando il diritto degli attori a realizzare sul tetto dell’edificio condominiale i quattro abbaini di cui al progetto versato in atti, con la condanna degli appellati, in solido tra loro, anche al rimborso delle spese del doppio grado. Disatteso il primo motivo, con il quale gli appellanti lamentavano che la sentenza non rispettasse i requisiti posti dall’art. 132 c.p.c., trattandosi peraltro di pronuncia emessa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., nonchè l’ultimo motivo che investiva il capo della sentenza di prime cure che aveva ritenuto tardiva, e come tale inammissibile la domanda degli attori di risarcimento del danno derivante dalle infiltrazioni provenienti dal tetto, la Corte distrettuale reputava invece fondata la censura che investiva la corretta applicazione della previsione regolamentare.

A tal fine, rilevava che la modifica che gli attori intendevano realizzare concerneva una parte comune (tetto) a loro spese, e senza che dalla stessa derivasse un pregiudizio agli altri condomini.

Richiamati i precedenti di legittimità che avevano ritenuto consentito al singolo condomino realizzare degli abbaini con balconi a favore del proprietario del piano sottostante il tetto di copertura dell’edificio condominiale, osservava che non era stato dedotto lo stravolgimento, per effetto delle opere da compiere, della destinazione naturale del tetto, palesandosi irrilevanti le doglianze quanto alla riduzione della privacy ovvero al rischio di intrusioni da parte di malintenzionati, non potendosi ritenere che la funzione di copertura del tetto fosse collegata alla protezione dagli sguardi dei vicini ovvero alla protezione da intrusioni di eventuali malintenzionati.

Una volta escluso che l’opera contrastasse con le previsioni codicistiche, quanto alla disposizione di cui all’art. 6 del regolamento condominiale, la sentenza evidenziava che il tenore letterale dello stesso non permetteva di ritenere che avesse contenuto derogatorio rispetto alle norme del codice civile, introducendo quindi delle più severe limitazioni al diritto del singolo condomino di effettuare delle aperture sul tetto condominiale.

Infatti, il divieto assoluto di eseguire “varianti all’immobile che possano alterarne l’estetica, la simmetria e la stabilità” va inteso nel senso di vietare quelle innovazioni che pregiudicano il diritto dei condomini al regolare godimento delle parti comuni, intese nel senso più generale del diritto al decoro architettonico ed all’utilizzo del tetto come copertura dello stabile.

Nel caso di specie, il progetto predisposto dagli appellanti non arrecava alcun stravolgimento alla destinazione del tetto nel suo complesso nè violava la stabilità e la simmetria, stante anche il rilascio delle prescritte autorizzazioni amministrative. Per effetto dell’accoglimento dell’appello, poneva le spese di lite e per il doppio grado a carico degli appellati in solido, come liquidate in motivazione.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il Condominio in (OMISSIS) sulla base di cinque motivi.

Resistono con controricorso C.J. e G.S..

M.C. e M.V.A. hanno a loro volta proposto ricorso incidentale affidato a quattro motivi. In prossimità dell’udienza camerale del 9 ottobre 2018 tutte le parti hanno depositato memorie.

Il Collegio all’esito di tale udienza ha ritenuto per la rilevanza delle questioni trattate di dover rimettere la causa alla pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss..

Si sostiene che sarebbe erronea l’interpretazione che la Corte d’Appello ha offerto dell’art. 6 del regolamento condominiale contrattuale il quale andava letto unitariamente alla previsione di cui all’art. 4 dello stesso regolamento, deponendo nel senso che con il medesimo si era inteso vietare qualsivoglia modifica, in quanto l’espressione “alterare l’estetica” non poteva che essere intesa come volta a vietare qualsivoglia modifica dello status quo ante.

A favore di tale tesi deponeva anche la richiesta degli stessi attori di essere autorizzati dall’assemblea del condominio, richiesta che non si giustifica se non con la detta lettura restrittiva della norma regolamentare.

Di analogo tenore è poi anche il primo motivo del ricorso incidentale dei M. che del pari lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e ss., dovendosi rettamente intendere il senso della disposizione di cui al citato art. 6 come volta a vietare ogni modifica al bene condominiale, trattandosi dell’imposizione di una serie di servitù reciproche, in senso ben più restrittivo di quanto invece consentito dal codice civile con gli artt. 1120 e 1122 c.c..

2. I motivi, che possono essere congiuntamente trattati per la loro connessione, sono infondati.

Deve premettersi che costituisce orientamento assolutamente consolidato nella giurisprudenza della Corte quello secondo cui (cfr. da ultimo Cassazione civile, sez. II, 08/01/2016, n. 138) non è censurabile in Cassazione l’interpretazione del regolamento di condominio compiuta dai giudici di merito salvo che per violazione dei canoni ermeneutici o per vizi di motivazione (conf. Cassazione civile, sez. II, 23/05/2012, n. 8174; Cassazione civile, sez. II, 04/04/2011, n. 7633).

Inoltre, e proprio in relazione all’interpretazione del regolamento condominiale di origine contrattuale, si è ribadito che (cfr. Cassazione civile, sez. II, 19/10/2012, n. 18052) ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicchè le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato.

Una volta ribadita la necessità di fare applicazione delle regole legali di interpretazione in materia di contratti anche al caso in esame, va altresì ricordato che costituisce principio di diritto del tutto consolidato presso questa Corte di legittimità, quello secondo il quale, con riguardo all’interpretazione del contenuto di una convenzione negoziale adottata dal giudice di merito, l’invocato sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati appunto a quel giudice, ma deve appuntarsi esclusivamente sul (mancato) rispetto dei canoni normativi di interpretazione dettati dal legislatore all’art. 1362 c.c. e ss., e sulla (in) coerenza e (il)logicità della motivazione addotta (cosi, tra le tante, Cass., Sez. 3, 10 febbraio 2015, n. 2465): l’indagine ermeneutica, è, in fatto, riservata esclusivamente al giudice di merito, e può essere censurata in sede di legittimità solo per inadeguatezza della motivazione o per violazione delle relative regole di interpretazione, con la conseguenza che non può trovare ingresso la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto esaminati dal giudice a quo.

Orbene, pur a fronte di tali doverose premesse, reputa il Collegio che l’interpretazione che della clausola regolamentare di cui sopra è stata offerta dalla Corte distrettuale, non possa essere sindacata, attesa la non implausuibilità della conclusione alla quale sono pervenuti i giudici di merito, e risolvendosi le deduzioni di parte ricorrente nella sollecitazione a pervenire ad una diversa ed alternativa soluzione ermeneutica, che però non si palesa essere l’unica possibile.

Ed, infatti, è pacifico che (cfr. Cass. n. 19229/2014) il regolamento condominiale di origine contrattuale può imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare, sia in relazione ai limiti alle possibilità di apportare modificazioni alla cosa comune. Ma in tal caso, peraltro, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sè, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela. Si è, infatti, ribadito che la compressione di facoltà normalmente inerenti allo status di condomino deve risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze (cfr. Cass. n. 20237/09 non massimata, C:ass. n. 16832/09 non massimata, Cass. n. 9564/97, Cass. n. 1560/95; Cass. n. 11126/94; Cass. n. 23/04 e Cass. n. 10523/03).

Ciò implica che nella ricerca della comune intenzione, o come nella fattispecie, nell’individuazione della regola dettata dal regolamento contrattuale, non possa prescindersi dall’univocità delle espressioni letterali utilizzate, dovendosi in linea di principio rifuggire da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto attiene all’ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, ma ancor più per quanto concerne la corretta individuazione dei beni effettivamente assoggettati alla limitazione.

In tal senso vale richiamare appunto quanto precisato da Cass. n. 1748/2013, richiamata anche dalla difesa delle parti, che ha ribadito che le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall’unico originario proprietario dell’edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini, ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condomini – possono derogare od integrare la disciplina legale, consentendo l’autonomia privata di stipulare convenzioni che pongano nell’interesse comune limitazioni ai diritti dei condomini, sia relativamente alle parti condominiali, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle porzioni di loro esclusiva proprietà. Ne consegue che il regolamento di condominio può legittimamente dare del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 c.c., estendendo il divieto di innovazioni sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica, all’aspetto generale dell’edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva (conf. Cass., 6 ottobre 1999, n. 11121; ma anche Cass.” 29 aprile 2005, n. 8883; Cass., 14 dicembre 2007, n. 26468).

Nella vicenda in esame non può però ritenersi che sia implausibile la diversa soluzione alla quale è pervenuta la Corte distrettuale.

In primo luogo, dal tenore della clausola di cui all’art. 6 del regolamento contrattuale, come riportata a pag. 5 del ricorso, si ricava che risulta assente ogni riferimento ad un determinato aspetto generale del fabbricato collocato cronologicamente ad una certa data, essendosi fatto generico riferimento all’esigenza di non alterare l’estetica, la simmetria o la stabilità dell’edificio, di tal che non appare sostenibile, come invece vorrebbero i ricorrenti, che la previsione abbia inteso fornire una disciplina pattizia più rigorosa di quella invece dettata dall’art. 1120 c.c., il cui testo risulta evidentemente assonante con la disposizione di cui all’art. 6.

Peraltro conforta l‘esegesi del giudice di appello, nel senso che la nozione di alterazione dell’estetica vada intesa in senso peggiorativo e non come volta a reprimere qualsivoglia modifica dell’aspetto dell’immobile, anche la lettura dell’art. 4 dello stesso regolamento (e ciò proprio in attuazione del criterio di interpretazione sistematica suggerito dai ricorrenti ex art. 1363 c.c.), il quale, nel contemplare i divieti a carico dei condomini, alla lett. d) prevede il divieto di “in genere eseguire opere che possano compromettere la stabilità o alterare l’estetica del fabbricato o comunque arrecare danni”.

Il riferimento all’alterazione dell’estetica, come operato in tale previsione, inserito in altre espressioni, quali la compromissione della stabilità o comunque la causazione di danni, rende non insostenibile la tesi alla quale ha appunto acceduto il giudice di appello, secondo cui in tal caso l’alterazione doveva presentarsi, come peraltro richiesto anche dalle norme codicistiche, quale peggiorativa dell’estetica e del decoro del fabbricato, situazioni queste che la sentenza gravata, con giudizio in fatto ha evidentemente escluso che ricorressero a seguito degli interventi che gli attori miravano a compiere sul tetto del fabbricato.

3. Il secondo motivo del ricorso principale lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1120 c.c. e ss.. Lamenta il condominio l’erroneità della decisione impugnata laddove ha reputato che la realizzazione di abbaini e balconi in corrispondenza di una porzione del tetto dell’edificio costituisca una legittima estrinsecazione del diritto di uso della cosa comune ex art. 1102 c.c., sostenendosi che si tratta di interventi comunque idonei ad incidere negativamente sul decoro architettonico del fabbricato.

Analogo contenuto presenta il quarto motivo del ricorso incidentale degli interventori M., nel quale si aggiunge che la soluzione della controversia dovrebbe avvenire sulla base della previsione di cui all’art. 1120 c.c..

Inoltre, anche nell’ottica dell’applicazione dell’art. 1102 c.c., i giudici di appello avrebbero trascurato il futuro utilizzo del tetto da parte degli altri condomini, uso che risulterebbe irrimediabilmente compromesso ove fosse consentito agli attori di realizzare il loro progetto.

4. I due motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono del pari infondati.

Ed, invero, richiamata la giurisprudenza di questa Corte che ha recentemente precisato gli ambiti di applicazione degli artt. 1102 e 1120 c.c., affermando che (cfr. Cass. n. 20712/2017) in tema di condominio negli edifici, le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c., si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (conf. Cass. n. 18052/2012; Cass. n. 240/1997), non risulta censurabile la riconduzione della fattispecie dedotta in giudizio nell’ambito applicativo dell’art. 1102 c.c..

Con specifico riferimento alla creazione di abbaini già in passato questa Corte, come puntualmente ricordato nella motivazione della sentenza appellata, era pervenuta alla conclusione secondo cui (cfr. Cass. n. 17099/2006) il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune, può aprire su esso abbaini (nella specie dotati di balconi) e finestre – non incompatibili con la sua destinazione naturale per dare aria e luce alla sua proprietà, purchè le opere siano a regola d’arte e non pregiudichino la funzione di copertura propria del tetto, nè ledano i diritti degli altri condomini sul medesimo (conf. Cass. n. 1498/1998).

In tale direzione, reputa il Collegio di dover dare continuità a quanto poi affermato da Cass. n. 14107/2012, a mente della quale il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di coperturà e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene (conf. Cass. n. 2500/2013).

Nel caso di specie deve ritenersi che la sentenza gravata abbia effettuato anche tale accertamento in fatto, come tale insindacabile in questa sede, verificando come le opere realizzande non comprometterebbero la destinazione naturale della copertura del tetto (cfr. pag. 5), nè pregiudicherebbero il decoro architettonico (cfr. pag. 6, ove si segnala che l’intervento richiesto prevedrebbe la creazione di quattro abbaini – di cui due già preesistenti – ma senza che risulti violata la stabilità e la simmetria dell’edificio), verificando altresì come tali modifiche non siano tali da precludere, come richiesto da Cass. n. 2500/2013, la reale possibilità di farne uso, anche concorrente da parte degli altri potenziali condomini-utenti, osservando in relazione ai pregiudizi in concreto dedotti in sede di merito (limitazione della privacy e pericolo di intrusioni da parte di malintenzionati), come nella fattispecie il tetto assolvesse essenzialmente alla funzione di copertura dell’edificio, che non veniva ad essere pregiudicata. In tal senso deve essere rilevato che i principi dettati da Cass. n. 14107/2012 sono stati ribaditi dalla successiva e più recente giurisprudenza di questa Corte che con la pronuncia n. 4256/2018, ha ribadito che l’accertamento circa l’inidoneità delle modifiche ad incidere sulla consistenza del bene, e quindi senza influire sulla funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, costituisce apprezzamento in fatto riservato al giudice di merito e, come tale, non censurabile in sede di legittimità per violazione dell’art. 1102 c.c., ma soltanto nei limiti di cui all’art. 360 c.c., comma 1, n. 5.

In termini analoghi si veda anche Cass. n. 16260/2017, che in relazione ad un’ipotesi di trasformazione di una finestra in porta finestra, esistente nell’appartamento di proprietà esclusiva di una condomina, in maniera da poter accedere al lastrico solare, con l’installazione su quest’ultimo di una ringhiera ed il posizionamento di attrezzatura da giardino, ha affermato che la corretta esegesi dell’art. 1102 c.c. depone nel senso che la stessa è intesa ad assicurare al singolo partecipante, quanto all’esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa, sicchè legittima quest’ultimo, entro i limiti ora ricordati, a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità, non potendosi intendere la nozione di “uso paritetico” in termini di assoluta identità di utilizzazione della “res”, poichè una lettura in tal senso della norma “de qua”, in una dimensione spaziale o temporale, comporterebbe il sostanziale divieto, per ciascun condomino, di fare, della cosa comune, qualsiasi uso particolare a proprio vantaggio.

Pertanto, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non possano fare un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che, in una materia in cui è prevista la massima espansione dell’uso, il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali, pertanto, costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano volere accrescere il pari uso cui hanno diritto.

In termini si veda anche Cass. n. 6253/2017 che ha affermato che il condomino che abbia in uso esclusivo il lastrico di copertura dell’edificio e che sia proprietario dell’appartamento sottostante ad esso può, ove siano rispettati i limiti ex art. 1102 c.c., collegare l’uno e l’altro mediante il taglio delle travi e la realizzazione di un’apertura nel solaio, con sovrastante bussola, non potendosi ritenere, salvo inibire qualsiasi intervento sulla cosa comune, che l’esecuzione di tali opere, necessarie alla realizzazione del collegamento, di per sè violi detti limiti e dovendosi, invece, verificare se da esse derivi un’alterazione della cosa comune che ne impedisca l’uso, come ad esempio, una diminuzione della funzione di copertura o della sicurezza statica del solaio.

Nel caso di specie, non risulta dedotto in sede di merito che vi fosse una preesistente possibilità di uso comune del tetto che esulasse dall’assolvimento della funzione di copertura per l’intero fabbricato, sicchè la Corte d’Appello ha compiuto quella valutazione di merito circa la compatibilità dell’attività svolta dai controricorrenti con i limiti dettati dall’art. 1102 c.c..

Nè appare deducibile in questa sede che la creazione degli abbaini in questione precluderebbe non ben precisate utilizzazioni future del tetto (quali appoggio di antenne o di pannelli solari ed altre, ad oggi, inimmaginabili utilità), e ciò oltre che per la genericità dell’allegazione, anche per la sua essenziale novità, implicando la verifica circa la compatibilità della modifica con il diverso uso dedotto in ricorso, accertamenti in fatto, preclusi in sede di legittimità, quali il riscontro delle effettive dimensioni del tetto, della sua conformazione architettonica, onde verificare se, pur in presenza delle modifiche sollecitate in citazione, residui la possibilità per gli altri condomini di avvalersi delle diverse utilità suscettibili di essere offerte dal bene comune in questione.

5. Quanto esposto in occasione della disamina dei motivi che precedono fornisce contezza anche dell’infondatezza del terzo motivo del ricorso principale, con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1120 e 1136 c.c., laddove si è escluso che fosse necessario per gli interventi richiesti dagli attori una delibera assembleare adottata con la maggioranza dell’art. 1136 c.c., comma 5, nonchè del secondo motivo del ricorso incidentale che invece deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1137 c.c., in quanto la decisione di accoglimento dell’impugnativa della delibera avrebbe comportato un sindacato circa il corretto esercizio del potere discrezionale dell’assemblea, che è invece precluso all’autorità giudiziaria.

L’avere ricondotto la vicenda di causa all’ambito di applicazione dell’art. 1102 c.c., esclude la necessità che l’esercizio del diritto del condomino all’uso della cosa comune, che avvenga nei limiti segnati dalla norma in esame, debba essere previamente autorizzato da parte dell’assemblea, così che l’eventuale delibera che intervenga a negare l’esercizio di tale diritto, lungi dal costituire espressione di una valutazione di opportunità o di convenienza da parte dell’assemblea, si pone in realtà in contrasto con un diritto appartenente al singolo condomino, risultando pertanto contraria a legge.

6. Il quarto motivo del ricorso principale lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 11,comma 3, e dell’art. 42 Cost., ed art. 1 c.p.c., laddove la sentenza di appello ha ritenuto che non vi fosse stravolgimento della destinazione del tetto nè violazione della stabilità e della simmetria dell’edificio “atteso il rilascio delle prescritte autorizzazioni amministrative in sede di elaborazione del progetto”.

Oltre ad evidenziarsi il fatto che tali provvedimenti non risultano essere stati prodotti, l’errore commesso dalla sentenza gravata sarebbe quello di avere ritenuto che le autorizzazioni amministrative potessero esplicare efficacia anche nei rapporti tra privati, laddove la loro portata è limitata ai soli rapporti tra privato e pubblica amministrazione, restando impregiudicata comunque la diversa valutazione della vicenda soggetta ad autorizzazione nei rapporti interprivatistici. Di analogo tenore è il contenuto del terzo motivo del ricorso incidentale dei M..

7. I motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

La corretta esegesi della decisione gravata consente di escludere che la valutazione del giudice di merito circa il rispetto dei limiti segnati dall’art. 1102 c.c., si fondi sul rilascio dei provvedimenti amministrativi di cui ai motivi in esame, ma va ritenuto che piuttosto si basi sulla verifica proprio delle condizioni dettate dalla norma, essendo il riferimento alla valutazione favorevole anche della P.A. solo rafforzativo di un giudizio in fatto circa l’inidoneità delle opere da realizzare a determinare un’alterazione (come visto, in negativo) dell’estetica e della stabilità dell’immobile, e ciò sul presupposto non certo connotato da irrazionalità che risponde anche all’interesse della P.A. lo sviluppo armonico dell’attività edilizia, che deve preservare il preesistente decoro architettonico.

8. Il quinto motivo del ricorso principale lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in quanto, sebbene la sentenza di primo grado fosse stata solo parzialmente riformata, le spese di lite sono state poste integralmente a carico degli appellati.

Si deduce che la Corte d’Appello aveva “respinto quattro motivi su quattro (conformemente alla sentenza del Primo Giudice) ma ha condannato integralmente gli appellati (vittoriosi per due motivi su quattro in primo grado anche in appello) alla totalità delle spese di primo e di secondo grado”.

Si aggiunge poi che la Corte d’Appello aveva anche accolto un’eccezione di nullità della notifica dell’appello imponendone la rinnovazione.

Il motivo, in disparte la sua imprecisione, laddove prima riferisce di un rigetto di tutti e quattro i motivi di appello proposti dagli attori, salvo poi, conformemente a quanto si ricava dal tenore della sentenza, precisare che in realtà solo due dei motivi proposti erano stati disattesi (nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., e valutazione di inammissibilità della domanda risarcitoria da infiltrazioni), mira nella sostanza a contestare il corretto esercizio da parte del giudice di merito del giudizio di soccombenza all’esito del giudizio di gravame.

E’, infatti, evidente che all’esito dell’appello il condominio ed i condomini M. siano risultati soccombenti rispetto alla domanda attorea (e ciò è reso palese anche dal fatto che ove non sussistesse tale soccombenza vi sarebbe anche carenza di interesse a proporre ricorso avverso la decisione di appello), essendosi accertata la legittimità ex art. 1102 c.c., delle opere che i controricorrenti intendevano realizzare.

Va a tal fine ricordato che (cfr. ex multis Cass. n. 1703/2013) che in tema di liquidazione delle spese giudiziali, nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, dovendo essere valutato l’oggetto della lite nel suo complesso.

Tale principio che appare suscettibile di estensione anche all’ipotesi qui prospettata di accoglimento solo parziale di alcuni dei motivi di appello proposti, induce a ritenere che sia incensurabile la valutazione compiuta in sentenza circa la prevalente soccombenza degli appellati (e ciò malgrado alcune delle censure proposte con l’atto di appello non abbiano avuto esito fausto), così che la doglianza investe, a ben vedere, il mancato esercizio del potere discrezionale del giudice di merito di avvalersi del potere di compensazione di cui all’art. 92 c.p.c., che tuttavia non è suscettibile di censura in sede di legittimità.

9. Il ricorso deve quindi essere rigettato, e le spese seguono la soccombenza, come liquidate in dispositivo.

Tuttavia, tenuto conto delle questioni giuridiche trattate, che solo nella giurisprudenza più recente di questa Corte hanno ricevuto una rivalutazione, deve escludersi che ricorrano i presupposti per l’accoglimento della richiesta dei controricorrenti di condanna delle controparti ex art. 96 c.p.c..

10. Poichè il ricorso principale ed incidentale sono stati proposti successivamente al 30 gennaio 2013 e sono rigettati, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le loro impugnazioni.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale ed incidentale e condanna il ricorrente principale ed i ricorrenti incidentali, in solido tra loro, al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali del contributo unificato dovuto per i rispettivi ricorsi a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2019

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