Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13498 del 29/05/2013


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 13498 Anno 2013
Presidente: LA TERZA MAURA
Relatore: MAROTTA CATERINA

ORDINANZA
sul ricorso 1969-2012 proposto da:
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA
SOCIALE 80078750587, in persona del Presidente e legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
DELLA FREZZA 17, presso l’AVVOCATURA CENTRALE
DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati
ANTONIETTA CORETTI, VINCENZO TRIOLO, EMANUELE
DE ROSE EMANUELE, VINCENZO STUMPO giusta mandato in
calce al ricorso;

– ricorrente contro
MURRO VITTORIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
CARLO POMA 2, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE SANTE
ASSENNATO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato
GIOVANNI GAETANO PONZONE giusta procura speciale in
calce al controricorso;

3129
Al

Data pubblicazione: 29/05/2013

- controricorrente avverso la sentenza n. 6291/2010 della CORTE D’APPELLO di
BARI del 14/12/2010, depositata il

01/ 2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

MAROTTA;
udito l’Avvocato ANTONIETTA CORE I II difensore del ricorrente
che si riporta agli scritti.
E’ presente il P.G. in persona del Dott. COSTANTINO FUCCI
che si riporta alla relazione.
1 – Considerato che è stata depositata relazione del seguente
contenuto:
“Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Bari, Vittoria
Murro, operaia agricola a tempo determinato, conveniva in giudizio
l’I.N.P.S., chiedendo la riliquidazione dell’indennità di disoccupazione
agricola per l’anno 1998. La ricorrente, premesso che il suddetto
trattamento di disoccupazione le era stato corrisposto dall’Ente
previdenziale sulla base del salario medio convenzionale congelato
all’anno 1995, sosteneva che lo stesso dovesse essere invece calcolato,
ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 146 del 1997, sui minimi retributivi
previsti dalla contrattazione collettiva provinciale, con conseguente
diritto alle differenze tra quanto spettante e quanto percepito. L’adito
Tribunale rigettava la domanda. A seguito dell’appello proposto dalla
parte privata, la Corte di appello di Bari, con sentenza n. 6292/2010,
accoglieva la domanda includendo includendo nella base di calcolo per
la liquidazione dell’indennità di disoccupazione anche le somme
corrisposte a titolo di quota di T.F.R.

Ric. 2012 n. 01969 sez. ML – ud. 11-04-2013
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dell’11/04/2013 dal Consigliere Rela tore Dott. CATERINA

Per la cassazione della pronuncia della Corte territoriale ricorre
l’I.N.P.S., affidandosi a tre motivi.
Resiste l’intimata Murro con controricorso.
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di tardività del ricorso
formulata dalla resistente Vittoria Murro.

– con la quale è stata dichiarata l’illegittimità del combinato disposto
degli artt. 149 cod. proc. civ. e 4, terzo comma, della legge 20
novembre 1982, n. 890 “nella parte in cui prevede che la notificazione
si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte
del destinatario, anziché a quella, antecedente, della consegna dell’atto
all’ufficiale giudiziario”, deve ritenersi già operante nel diritto positivo,
senza bisogno di un nuovo intervento da parte del giudice delle leggi,
un principio generale secondo il quale – qualunque sia la modalità di
trasmissione – la notifica di un atto processuale, almeno quando essa
debba compiersi entro un determinato termine, si intende perfezionata,
per il notificante, al momento dell’affidamento dell’atto all’ufficiale
giudiziario che funge da tramite necessario nel relativo procedimento
vincolato, senza quindi che possa influire negativamente per la parte il
mancato perfezionamento della medesima notifica, ove non a lei
imputabile” – cfr. Cass. Sez. U, 26 luglio 2004 n. 13970 -.
Orbene, nella specie, si rileva dal timbro apposto (con contestuale
sottoscrizione) sul ricorso per cassazione l’avvenuta consegna dello
stesso all’ufficiale giudiziario in data 3 gennaio 2012 e dunque entro il
termine lungo per impugnare la sentenza (cfr. Cass. 30 luglio 2009 n.
17754).
Tanto precisato si osserva che con il primo motivo di ricorso
l’Istituto ricorrente denunzia violazione dell’art. 47 d.P.R. n. 639/70,
eccependo la decadenza.
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A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002

Con il secondo e terzo motivo di ricorso l’I.N.P.S. lamenta
violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 18, del D.L. n.
98/2011 convertito in legge n. 11/2011 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.)
nonché violazione degli artt. 44, 49 e 53 del C.C.N.L. per gli operai
agricoli e florovivaisti del 10 luglio 1998 in relazione all’art. 6, comma

n. 318, conv. nella legge 29 luglio 1996, n. 402, nonché in relazione agli
artt. 1362 e segg., 2120 cod. civ. ed all’art. 4, commi 10 e 11, della legge
29 maggio 1982 n. 297 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.) censurando la
sentenza per avere incluso, nella retribuzione da prendere a base per la
liquidazione dell’indennità di disoccupazione agricola, anche la voce
denominata quota di T.F.R, voce che – contrariamente a quanto
affermato la Corte territoriale – ha natura di retribuzione differita.
Il primo motivo è manifestamente infondato, non ravvisandosi la
decadenza in caso di riliquidazione della prestazione previdenziale,
secondo il principio affermato dalla sentenza delle Sez. U, n. 12720 del
29/05/2009: «La decadenza di cui all’art. 47 del d.P.R 30 aprile 1970,
n. 639 – come interpretato dall’art. 6 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103,
convertito, con modificazioni, nella legge I giugno 1991, n. 166 – non
può trovare applicazione in tutti quei casi in cui la domanda giudiziale
sia rivolta ad ottenere non già il riconoscimento del diritto alla
prestazione previdenziale in sé considerata, ma solo l’adeguamento di
detta prestazione già riconosciuta in un importo inferiore a quello
dovuto, come avviene nei casi in cui l’Istituto previdenziale sia incorso
in errori di calcolo o in errate interpretazioni della normativa legale o
ne abbia disconosciuto una componente, nei quali casi la pretesa non
soggiace ad altro limite che non sia quello della ordinaria prescrizione
decennale».

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4, lett. a) del d.lgs. n. 314 del 1997 ed all’art. 3 del D.L. 14 giugno 1996,

Nello stesso senso da ultimo è stato affermato (cfr. Cass. n. 6959
del 08/05/2012 e successive conformi) che: «In tema di decadenza
delle azioni giudiziarie volte ad ottenere la riliquidazione di una
prestazione parzialmente riconosciuta, la novella dell’art. 38 lett. d) del
d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in 1. 111 del 2011 – che prevede

aprile 1970 n. 639, anche alle azioni aventi ad oggetto l’adempimento
di prestazioni riconosciute solo in parte o il pagamento di accessori del
credito -, detta una disciplina innovativa con efficacia retroattiva
limitata ai giudizi pendenti in primo grado alla data di entrata in vigore
delle nuove disposizioni, con la conseguenza che, ove la nuova
disciplina non trovi applicazione, come nel caso di giudizi pendenti in
appello alla data predetta, vale il generale principio dell’inapplicabilità
del termine decadenziale».
E’, invece, manifestamente fondato il terzo motivo (con
assorbimento del secondo) alla stregua della recente giurisprudenza di
questa S.C. secondo cui, ai fini della liquidazione delle prestazioni
temporanee in agricoltura, la nozione di retribuzione – definita dalla
contrattazione collettiva provinciale, da porre a confronto con il salario
medio convenzionale d.lgs. 16 aprile 1997, n. 146, ex art. 4 – non è
comprensiva del trattamento di fine rapporto. Ne consegue che la voce
denominata quota di T.F.R. dai contratti collettivi vigenti a partire da
quello del 27.11.1991, evidenziata nei prospetti paga ma non erogata se
non alla fine del rapporto di lavoro, va esclusa dal computo della
indennità di disoccupazione, in considerazione della volontà espressa
dalle parti stipulanti, che è vietato disattendere in forza della
disposizione di cui al d.l. 14 giugno 1996, n. 318, art. 3, convertito nella
legge 29 luglio 1996, n. 402, a norma della quale, agli effetti
previdenziali, la retribuzione dovuta in base agli accordi collettivi, non
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l’applicazione del termine decadenziale di cui all’art. 47 del d.P.R. 30

può essere individuata in difformità rispetto a quanto definito negli
accordi stessi. Dovendo escludersi che detta voce abbia natura diversa
rispetto a quella indicata dalle parti stipulanti, non è ravvisabile alcuna
illegittima alterazione degli istituti legali da parte dell’autonomia
collettiva (cfr. Cass. n. 200 del 5 gennaio 2011, id n. 11152 del 20

e numerose altre conformi). Recentemente, peraltro, il significato della
norma di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 146 del 1997, individuato dalla
giurisprudenza sopra citata, è stato esplicitato anche dal legislatore, che
al d.l. n. 98 del 2011, art. 18, comma 18, conv. nella legge n. 111 dello
stesso anno, ha specificato che «il d.lgs. 16 aprile 1997, n. 146, art. 4 e il
d.l. 10 gennaio 2006, n. 2, art. 1, comma 5 conv. con modificazioni
dalla legge 11 marzo 2006, n. 81, si interpretano nel senso che la
retribuzione utile per il calcolo delle prestazioni temporanee in favore
degli operai agricoli a tempo determinato non è comprensiva della
voce del trattamento di fine rapporto comunque denominato dalla
contrattazione collettiva».
Per tutto quanto sopra considerato, si propone raccoglimento del
terzo motivo di ricorso con ordinanza, ai sensi dell’art. 375 cod. proc.
civ., n. 5″.
2 – Rileva preliminarmente la Corte che la controricorrente — ha
eccepito preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per avere
omesso l’Istituto di dichiarare il valore della causa come previsto dal
D.L. 6 luglio 2011, n. 38, art. 38 convertito dalla L. 15 luglio 2011, n.
111, art. 152 cod. proc. civ..
Orbene, oltre a sottolinearsi che l’Istituto nelle conclusioni ha
dichiarato ai “sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 37 (…) che il valore
della causa è inferiore ad Euro 1.100,00” (si tratta, all’evidenza, di una
dichiarazione formulata ai sensi dell’art. 38 del D.L. citato, per evidente
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maggio 2011, n. 17832 del 30 agosto 2011, n. 7118 del 10 maggio 2012

errore materiale indicato nelle conclusioni del ricorso come art. 37),
l’eccezione di inammissibilità deve essere disattesa.
La previsione normativa alla quale la controricorrente fa
riferimento (art. 152 disp. att. cod. proc. civ. in particolare penultimo
ed ultimo periodo), infatti, non pone oneri processuali a carico

dalla ratio complessiva dell’art. 152 citato.
Occorre ricordare, infatti, che oggetto principale di tale norma è il
beneficio dell’esonero dalle spese giudiziali in favore del lavoratore
soccombente nei giudizi promossi per ottenere prestazioni
previdenziali o assistenziali. Si tratta di una norma che, sin dalla sua
iniziale previsione, in deroga al generale principio della soccombenza,
svincola, esclusivamente a vantaggio del lavoratore, il rischio del costo
del processo, nel rapporto con la controparte pubblica, cioè con “gli
istituti di assistenza e previdenza”, dalla causalità che è alla base di
detto principio generale.
La previsione di tale beneficio rinviene la sua ratio, desumibile
anche dalle sentenze n 85 del 1979 e n. 207 del 1994 della Corte
costituzionale, nell’evitare che il timore della soccombenza sulle spese
impedisca l’esercizio di diritti garantiti dalla Costituzione, fermo il
limite della manifesta infondatezza e temerarietà della lite (cfr., Cass. n.
9207 del 2012).
Tale ratio è rimasta inalterata anche in seguito alla sostituzione applicabile ai procedimenti incardinati successivamente al 2 ottobre
2003 (Cass. 1 marzo 2004, n. 4165) – introdotta dal d.l. 30 settembre
2003, n. 269, art. 42, comma 11, convertito con modificazioni, dalla 1.
24 novembre 2003, n. 326, nonché in seguito all’aggiunta del
penultimo periodo, disposta – con decorrenza dal 4 luglio 2009 – dalla
1. 18 giugno 2009, n. 69, art. 52.
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dell’Ente previdenziale, come si evince, peraltro dal tenore letterale e

È poi intervenuto l’art. 38, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. nella
legge n. 111 del 2011 che ha aggiunto un ulteriore periodo al citato art.
152, stabilendo la sanzione di inammissibilità.
In particolare, per effetto della sostituzione introdotta dal d.l. 269
del 2003, è stato posto a carico della parte ricorrente nei giudizi per

conclusioni dell’atto introduttivo – un’apposita dichiarazione sostitutiva
di certificazione attestante il possesso delle condizioni reddituali
previste dalla norma stessa per ottenere l’esenzione dal pagamento
delle spese processuali.
Alla luce della osservazioni svolte, si può rilevare come il
penultimo periodo dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., invocato dalla
resistente, risponda all’esigenza di non vanificare la ratio di fondo della
disposizione, nel momento in cui si è passati dall’esonero totale delle
spese di giudizio (salvo pretesa temeraria o infondata) ad un esonero
correlato al reddito.
La peculiarità dell’oggetto del giudizio – prestazioni previdenziali
assistenziali assume, quindi, rilievo, nel governo delle spese di lite,
traducendosi in un tetto alla liquidazione giudiziale, che dovrà tenere
come punto di riferimento il valore della prestazione dedotta in
giudizio.
Il legislatore, in proposito, con la modifica del 2011, ha
espressamente chiarito che “a tal fine la parte ricorrente, a pena di
inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore
della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle
conclusioni dell’atto introduttivo”.
È evidente, allora, che con l’espressione “parte ricorrente”, in
ragione del tenore complessivo della norma, si intenda fare riferimento
alla parte che ha promosso il giudizio per ottenere la prestazione
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prestazioni previdenziali o assistenziali l’onere di effettuare fin dalle

previdenziale e assistenziale e non all’Ente, quale l’I.N.P.S. evocato in
giudizio con il ricorso introduttivo.
3 – Per il resto questa Corte ritiene che le osservazioni in fatto e le
considerazioni e conclusioni in diritto svolte dal relatore siano del tutto
condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di

375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo,
soluzione non contrastata da parte ricorrente – che non ha depositato
memoria – e condivisa dal Procuratore generale, che ha aderito alla
relazione.
4 – Conseguentemente, il ricorso va accolto e la sentenza cassata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, ex art. 384,
comma 2, cod. proc. civ., la causa può decidersi nel merito, rigettando
la domanda di inclusione della quota di T.F.R nella base di calcolo della
indennità di disoccupazione agricola.
5 – L’esito complessivo del giudizio e la relativa novità della tesi
propugnata dalla sentenza impugnata consigliano la compensazione
delle spese dell’intero processo.

P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e,
decidendo nel merito, rigetta la domanda quanto alla inclusione della
quota di T.F.R nella base di calcolo dell’indennità di disoccupazione
agricola. Compensa le spese dell’intero processo.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, 1’11 aprile 2013.

legittimità in materia. Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art.

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