Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13493 del 02/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 02/07/2020, (ud. 19/11/2019, dep. 02/07/2020), n.13493

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14726/2012 R.G. proposto da

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato.

– ricorrente –

contro

CURATELA FALLIMENTARE DELLA (OMISSIS) SRL

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione n. 40, n. 47/40/11, pronunciata il 17/02/2011,

depositata il 26/04/2011.

Al quale è stato riunito il ricorso iscritto al n. 24718/2012 R.G.

proposto da

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello. Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato.

– ricorrente –

contro

CURATELA FALLIMENTARE DELLA (OMISSIS) SRL

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione n. 50, n. 110/50/11, pronunciata il 27/05/2011,

depositata il 2/09/2011.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 novembre

2019 dal Consigliere Riccardo Guida.

Fatto

RILEVATO

che:

(ricorso RG n. 14726/2012)

l’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione, sulla base di tre motivi, nei confronti della Curatela del fallimento di (OMISSIS) Srl, rimasta intimata, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, con la sentenza n. 47/40/11 – in controversia riguardante l’impugnazione dell’atto d’irrogazione delle sanzioni, relative al 2003, connesse ad un avviso di accertamento (vedi infra) che: (a) recuperava a tassazione IRPEG, un maggiore reddito imponibile (Euro 613.434,00); (b) recuperava a tassazione IRAP un maggiore valore della produzione lorda (Euro 6.159.406,00); (c) assoggettava all’IVA (al 20%) acquisti per Euro 574.228,00; (d) individuava ritenute eseguite e non versate, per compensi da lavoro dipendente, per un ammontare di Euro 232.465,29 – ha confermato la sentenza della CTP di Brescia (n. 15/02/2008), favorevole alla contribuente;

la commissione regionale ha così motivato: “rilevato che l’atto di irrogazione sanzioni trova la propria ragione giustificatrice nell’accertamento del mancato versamento delle ritenute e che pertanto deve contenere le indicazioni dell’imponibile, delle aliquote applicate e delle ritenute calcolate, ritiene (la CTR) la sentenza di primo grado non meritevole di censura alcuna sul punto. Per quanto rileva le altre doglianze dell’appellante, per altro riassorbite da quanto deciso sul precedente punto, si osserva che le sanzioni sono conseguenti a violazioni annullate anche dalla CTP di Brescia con sentenza n. 206/2/2007.” (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata);

(ricorso RG n. 24718/2012)

l’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione, sulla base di due motivi, nei confronti della Curatela del fallimento di (OMISSIS) Srl, rimasta intimata, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, con la sentenza n. 110/50/11, nella controversia riguardante l’impugnazione del predetto avviso di accertamento, per l’annualità 2003, ha accolto parzialmente l’appello dell’ufficio, ha rigettato l’appello incidentale della società e, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato legittime le riprese fiscali per “gasolio scheda carburante” e per “gasolio colonnina” e ha confermato nel resto la sentenza di primo grado, mandando all’ufficio per il ricalcolo delle imposte e delle conseguenti sanzioni;

il giudice d’appello, per quanto ancora rileva, con riferimento all’omesso versamento delle ritenute di Euro 232.465,00 sulle somme corrisposte per: (a) rimborsi spese non documentate (Euro 405.901,00); (b) spese di vitto e alloggio (Euro 455.097,67), ha ritenuto infondato il motivo d’appello dell’ufficio avverso la parziale pronuncia (da parte del primo giudice) di nullità dell’accertamento per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in base a questa considerazione: “Infatti, con riferimento all’importo di Euro 405.901,00, a parte la mancanza della espressa indicazione dell’importo delle ritenute non operate e non versate ad esso relative (che deve ritenersi nella misura di Euro 110.317,18 per effetto della operazione di sottrazione, dall’importo complessivo di Euro 232.465,39 relativo alle ritenute con operate e non versate, dell’importo di Euro 122.148,21, relativo alle spese di vitto e alloggio per Euro 455.097,67), come correttamente rilevano i primi giudici non è indicato come queste ritenute siano state calcolate, il rinvio all’allegato 34 al p.v.c. non essendo sufficiente per la quantificazione inequivoca dell’importo a fronte del preciso dettato dell’art. 42 cit..” (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata);

con riferimento all’annullamento del disconoscimento, ai fini dell’IRPEG e dell’IRAP, di “spese per vitto e alloggi dipendenti”, per Euro 222.384,50, poggiante sull’assenza di documentazione idonea (la nota integrativa del dipendente) al fine di valutare l’inerenza della spesa alla concreta attività dell’impresa, il giudice d’appello ha respinto il motivo di gravame dell’ufficio evidenziando che non si trattava di rimborsi spese ai dipendenti, bensì di fatture ricevute direttamente dalla società e pagate ai propri fornitori, per l’acquisto di tickets restaurant, per la somministrazione di pasti a prezzo fisso, per l’acquisto di acqua minerale, per pernottamenti presso pensioni e alberghi, la cui esistenza, competenza, e inerenza non erano in contestazione (come desumibile dal contenuto del processo verbale di constatazione redatto dai verificatori), laddove l’esistenza della nota riepilogativa non era necessaria, ai fini della deducibilità del costo, trattandosi di un mero riepilogo di costi già documentati;

inoltre, sempre in punto di “ritenute di imposta a titolo di acconto”, già esaminate con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 42 cit., la commissione regionale ha premesso che, secondo la difesa erariale, la decisione di primo grado era errata, in mancanza della prova dell’applicazione, per il rimborso delle spese, del “sistema misto”, ed ostandovi la dichiarazione del legale rappresentante di (OMISSIS) di avere adottato il “sistema forfetario”, rispetto al quale – quanto alle spese di viaggio e trasporto – l’assenza di nota integrativa e, quanto alle spese di vitto e alloggio, la stessa normativa, impediscono di considerarle rimborsi, con la conseguente loro qualificazione come reddito del dipendente, dal che discende, a carico della società, l’obbligo di ritenuta e di versamento;

il giudice d’appello ha reputato erronea detta dichiarazione del legale rappresentante della società e ha affermato che, in base alle emergente contabili, risultava l’adozione del “sistema misto”; infatti, secondo la CTR: “la società corrispondeva l’indennità giornaliera di trasferta nella misura ridotta di Euro 15,49, quindi con riduzione di 2/3 rispetto al tetto massimo di Euro 46,48, oltre al rimborso delle spese di viaggio a titolo di indennità chilometrica e di spese di vitto e alloggio (che, se documentate dal dipendente, non costituiscono reddito); e la società precisava che anche l’importo di Euro 222.384,50 era relativo a costi sostenuti dalla stessa, come attestato dalle relative fatture, mentre il residuo importo concerneva spese di vitto e alloggio, attestato dai dipendenti. Correttamente quindi i

primi giudici, rilevato che l’importo di Euro 222.384,50 concerneva costi fatturati direttamente dalla società e da questa pagati direttamente ai

fornitori, hanno escluso l’obbligo della ritenuta in quanto detto importo non poteva essere considerato reddito del dipendente. Quanto poi all’importo di Euro 232.713,17 (corrispondente a quella parte dell’importo di Euro 455.097,67 relativa a spese di vitto e alloggio attestate da ciascun dipendente con apposita nota riepilogativa, v. foglio 15 del p.v.c.), il fatto che si trattasse di costo attestato dai dipendenti, come riscontrato dai verificatori, esclude che questo costituisse reddito per il dipendente e richiedesse quindi il versamento della ritenuta da parte della società.” (cfr. pagg. 8, 9 della sentenza impugnata);

la commissione tributaria, inoltre, ha negato la sussistenza di un riscontro probatorio sul criterio di calcolo delle ritenute eseguito dall’ufficio (che aveva diviso i dipendenti in trasferta in due gruppi, uno con aliquota marginale sul reddito del 23%, pari al 36% dei dipendenti, e l’altro con aliquota marginale del 29/0, pari al 64% dei dipendenti), giudicandolo contraddittorio e privo di coerenza logica, in quanto poggiante sulla presunzione che tutti i dipendenti fossero andati in trasferta e anche sulla presunzione che la ripartizione dei costi per le trasferte fosse uguale in percentuale alla suddivisione dei dipendenti per la stessa uguale classe di aliquota marginale, mentre il calcolo doveva essere effettuato per ogni singolo dipendente che fosse andato in trasferta;

Considerato che:

a. preliminarmente va disposta la riunione, ai sensi dell’art. 274 c.p.c. comma 1, del ricorso con RG n. 24718/2012 al ricorso con RG n. 14726/2012, trattandosi di procedimenti relativi a cause connesse, in quanto scaturite dallo stesso accertamento fiscale, con la precisazione che occorre trattare prima il ricorso con RG n. 24718/2012, che riguarda l’impugnazione dell’avviso di accertamento, e poi il ricorso con RG n. 14726/2012, che riguarda l’impugnazione del correlato atto d’irrogazione delle sanzioni;

(ricorso RG n. 24718/2012)

1. con il primo motivo del ricorso, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, l’Agenzia censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha condiviso la decisione della CTP di Brescia, che aveva ravvisato la nullità dell’avviso di accertamento per omessa indicazione delle aliquote e degli altri elementi in base ai quali l’ufficio aveva determinato le maggiori imposte, per avere trascurato che, essendo ignota la quota parte degli emolumenti non dichiarati percepita da ciascun dipendente, si era applicata la presunzione semplice (suscettibile di prova contraria) che ciascun dipendente avesse percepito una frazione uguale dei maggiori emolumenti e, conseguentemente, era stata calcolata l’aliquota media sulla base delle aliquote marginali scontate da tutti i dipendenti della società, indicando l’entità di tali aliquote (“il 36% ad aliquota del 23% e il restante 64% ad aliquota del 29%, in quanto si è verificato, dal Mod. 770/04, che i dipendenti rientrano in due scaglioni di reddito con le percentuali e le aliquote di cui sopra.”; cfr. pag. 10 del ricorso per cassazione);

l’Agenzia, in sostanza, addebita alla CTR di avere confuso l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di motivazione di una certa determinazione con la correttezza, nel merito, del ragionamento su cui si reggeva la medesima determinazione;

1.1. il motivo è fondato;

la sentenza impugnata, la quale ha condiviso la statuizione del giudice di primo grado che, in breve, aveva affermato la parziale nullità dell’avviso di accertamento in difetto dell’indicazione dei criteri di calcolo delle ritenute sugli emolumenti (non dichiarati) corrisposti dalla società ai lavoratori, è viziata in quanto nell’atto impositivo (trascritto in parte qua a pag. 9 del ricorso per cassazione) sono stati esplicitati il criterio di calcolo delle ritenute e le aliquote applicate, pari al 23% e al 29%, in relazione, rispettivamente, al 36% e al 64% dell’importo complessivo (Euro 405.901,00) del “fuori busta” corrisposto ai lavoratori;

il che rende l’atto legittimo sul piano formale, ferma restando, ovviamente, la possibilità del sindacato (che, però, attiene ad un diverso piano di critica dell’atto impositivo) circa la correttezza del medesimo criterio di calcolo, poggiante, come sopra accennato, su un ragionamento presuntivo, determinato dalla constatazione, da parte degli accertatori, che era ignoto quali e quanti fossero i lavoratori che, effettivamente, avevano percepito gli emolumenti “fuori busta”;

2. con il secondo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 48, nel testo ratione temporis vigente, l’Agenzia premette che la commissione regionale ha rigettato l’appello dell’ufficio, in relazione alla ripresa, per complessivi Euro 232.465,39, delle ritenute a titolo di acconto, in quanto: (a) le emergenze contabili deponevano per l’adozione del “sistema misto”; (b) era priva di rilievo decisivo l’erronea dichiarazione resa dal legale rappresentante della società, durante la verifica fiscale, di avere utilizzato il “sistema forfetario” di rimborso, che prevede la non imponibilità delle indennità di trasferta sino a un tetto massimo di Euro 46,48, per le trasferte in Italia e, in ogni caso, dei rimborsi analitici delle spese di viaggio e trasporto purchè opportunamente documentate;

assume che, nel caso di specie, i “rimborsi spese non documentate”, per Euro 405.901,00, corrisposti ai dipendenti, avrebbero dovuto essere considerati come compensi erogati “fuori busta” e, pertanto, concorrenti alla formazione del reddito del dipendente, con obbligo per il datore di lavoro di operare e versare le relative ritenute;

sottolinea che ad analoga soluzione si doveva giungere anche facendo applicazione del “sistema forfetario”, con riferimento alle “spese di vitto e alloggio”, erogate per un ammontare di Euro 455.097,67, non potendosi ritenere detassabile, per il dipendente, l’importo corrisposto; e questo anche con riferimento a quella parte di spese (Euro 222.384,50) che la società aveva affermato di avere sostenuto direttamente, dovendosi anch’esse considerare compensi “fuori busta”;

censura, quindi, la decisione impugnata per avere ritenuto rilevante, ai fini della qualificazione di tali rimborsi spesa, il fatto che la società, anzichè rifondere il dipendente delle spese dal medesimo sostenute, avesse pagato direttamente il terzo fornitore;

sotto altro aspetto, l’Agenzia evidenzia che si perviene alla stessa soluzione anche laddove si reputi che la società avesse adottato il “sistema misto” (in base al quale il datore di lavoro corrisponde al dipendente, in trasferta fuori dal territorio comunale, oltre ad un’indennità forfetaria, anche un rimborso analitico a piè di lista delle spese documentate di vitto e alloggio, con previsione di una certa franchigia non imponibile), in luogo di quello forfetario, in quanto il dipendente, per ottenere il rimborso delle spese sostenute, deve presentare al datore di lavoro un rendiconto riepilogativo, in mancanza del quale detto rimborso non è deducibile e concorre alla formazione del reddito del dipendente;

quanto all’annullamento della ripresa di costi indeducibili per Euro 222.384,50, relativi a spese di viaggio, l’Agenzia ribadisce che l’assenza di una nota riepilogativa del dipendente impediva di verificare l’inerenza del costo e, quindi, la sua deducibilità, anche in presenza di fatture emesse dai fornitori direttamente nei confronti di (OMISSIS) Srl;

2.1. il motivo è fondato;

ai sensi dell’art. 48, comma 5, t.u.i.r., nella formulazione vigente ratione temporis: “Le indennità percepite per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale concorrono a formare il reddito per la parte eccedente Euro 46,48 (lire 90.000) al giorno, elevate a Euro 77,47 (lire 150.000) per le trasferte all’estero, al netto delle spese di viaggio e di trasporto; in caso di rimborso delle spese di alloggio, ovvero di quelle di vitto, o di alloggio o vitto fornito gratuitamente, il limite è ridotto di un terzo. Il limite è ridotto di due terzi in caso di rimborso sia delle spese di alloggio sia di quelle di vitto. In caso di rimborso analitico per le spese per trasferte o missioni fuori del territorio comunale non concorrono a formare il reddito i rimborsi di spese documentate relative al vitto, all’alloggio, al viaggio e al trasporto, nonchè i rimborsi di altre spese, anche non documentabili, eventualmente sostenute dal dipendente sempre in occasione di dette trasferte o missioni, fino all’importo massimo giornaliero di Euro 15,49 (lire 30.000), elevate a Euro 25,82 (lire 50.000) per le trasferte all’estero. Le indennità o i rimborsi di spese per le trasferte nell’ambito del territorio comunale, tranne i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore, concorrono a formare il reddito.”;

in tale cornice normativa, la documentazione della spesa (tramite fatture, scontrini, note spese, etc.) è un requisito fondamentale e imprescindibile per la deduzione (ai fini IRPEG/IRES, IRAP) e per la detrazione (ai fini IVA) delle spese di viaggio, vitto e alloggio, da parte della società, in occasione delle trasferte dei dipendenti, nell’ambito del territorio comunale, o al di fuori di esso (e anche all’estero), nonchè per la detassazione (rispetto al reddito di lavoro dipendente) dei relativi rimborsi percepiti dal dipendente, nel rispetto della disciplina di ciascuno dei sistemi alternativi di rimborsi: (a) rimborso spese a piè di lista (analitico); (b) rimborso forfetario; (c) rimborso misto;

infatti, come ha sostenuto l’Agenzia, la non documentabilità della spesa (per trasferte, vitto, alloggio, viaggio e trasporto) preclude la possibilità di un trattamento fiscale della spesa che – come si è appena visto – è soggetto a specifiche disposizioni normative, in relazione al tipo di spesa e al sistema di rimborso concretamente utilizzato dal datore di lavoro;

la commissione regionale, discostandosi da tale principio giuridico, del tutto coerente con il dato normativo (art. 48, cit.), ha errato: per un verso, nel considerare superflua la documentazione della spesa, ai fini della sua detassazione; per altro verso, nell’escludere l’obbligo di ritenuta in capo alla società, valorizzando la circostanza che il relativo esborso non poteva essere qualificato come reddito di lavoro dipendente (soggetto a tassazione in capo al lavoratore e, prima ancora, a ritenuta a carico del datore di lavoro) poichè la società aveva sostenuto direttamente la spesa, anzichè rimborsare il dipendente;

questa valutazione, infatti, omette di considerare che, di regola, tutte le somme percepite dal lavoratore concorrono a formare il reddito tassabile, fatta eccezione per la (rigorosa) disciplina (vedi l’art. 48 cit.), dei c.d. fringe benefits (indennità accessorie) sopra descritti, la cui applicazione (anche a causa della presenza di franchigie) richiede un dettagliato riscontro documentale;

3. ne consegue che, accolti il primo e il secondo motivo del ricorso, la sentenza è cassata, con rinvio alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità;

(ricorso RG n. 14726/2012)

4. con il primo motivo del ricorso, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, l’Agenzia premette che la decisione di primo grado aveva accolto la questione pregiudiziale, sollevata dalla contribuente, di nullità dell’avviso di accertamento (da cui erano scaturite le sanzioni) per violazione dell’art. 42 cit., in quanto l’avviso non recava l’indicazione delle aliquote in base alle quali l’ufficio aveva determinato le maggiori imposte dovute;

censura la sentenza della CTR – se la si debba interpretare, secondo il suo significato letterale, nel senso che la mancanza, nel provvedimento d’irrogazione delle sanzioni, dell’indicazione dell’imponibile, delle aliquote applicate e della ritenuta calcolata, comporti la nullità del medesimo atto per violazione dell’art. 42 cit., che è applicabile esclusivamente agli avvisi di accertamento e non agli atti di irrogazione delle sanzioni;

sotto altro aspetto, nel caso in cui si debba ritenere che la CTR abbia inteso decidere la questione pregiudiziale della legittimità dell’avviso di accertamento presupposto e abbia escluso detta legittimità fondandosi sul contenuto dell’art. 42, l’Agenzia ascrive alla sentenza impugnata di avere trascurato che le riprese IRPEG, IRAP e il rilievo (molto circoscritto) in materia di IVA, riguardano imposte che prevedono un’aliquota proporzionale e fissa, sicchè la contribuente era in grado di risalire, attraverso un semplice calcolo, all’aliquota applicata;

5. con il secondo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, in combinato disposto con l’art. 112 c.p.c., l’Agenzia premette che, nell’atto d’appello, aveva contestato da diversi punti di vista, la decisione di primo grado che, oltre ad affermare la nullità dell’avviso per vizi formali, aveva ritenuto infondata nel merito la pretesa erariale;

rileva che la CTR aveva reputato assorbite le questioni di merito proposte dall’ufficio con l’atto d’appello in quanto l’atto impositivo, recante la pretesa erariale, era stato annullato da una pronuncia di primo grado;

addebita alla sentenza impugnata di non avere determinato l’esatta entità della pretesa tributaria, a prescindere dalla sussistenza o meno del contestato vizio formale dell’avviso, in violazione del principio di diritto per il quale, poichè il processo tributario è un processo di “impugnazione/merito”, volto non solo all’eliminazione dell’atto impugnato, ma anche alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva della dichiarazione del contribuente e dell’accertamento fiscale, il giudice che ritenga invalido l’avviso di accertamento, per motivi di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare il merito della pretesa tributaria e, compiendo una motivata valutazione sostitutiva, ricondurla alla corretta misura (entro i limiti della domanda);

6. con il terzo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 39 e 49, l’Agenzia censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha affermato che le sanzioni conseguivano a violazioni oggetto d’annullamento in altro giudizio, per non avere compiuto un’autonoma valutazione della questione pregiudiziale relativa alla legittimità o meno dell’avviso di accertamento da cui scaturivano le sanzioni;

7. i tre motivi, da esaminare congiuntamente per connessione, sono fondati, il che comporta la cassazione della sentenza impugnata;

la Commissione regionale ha operato un mero rinvio alla decisione non definitiva – del giudice di primo grado, con la quale era stato annullato l’avviso di accertamento per vizio di motivazione, mentre, a seguito dell’accoglimento del ricorso (con RG n. 24718/2012) dell’Agenzia avverso detto atto impositivo, da cui è scaturito il provvedimento sanzionatorio oggetto di questo giudizio, sono rimesse al giudice del rinvio la valutazione della fondatezza o meno dell’avviso e la decisione della questione, dipendente, circa l’applicazione delle relative sanzioni.

P.Q.M.

la Corte accoglie entrambi i ricorsi, cassa le sentenze impugnate, rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 19 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020

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