Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13484 del 02/07/2020

Cassazione civile sez. trib., 02/07/2020, (ud. 05/11/2019, dep. 02/07/2020), n.13484

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 15253-2019 proposto da:

ENTE CAMBIANO SOCIETA’ COOPERATIVA PER AZIONI in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE. LIEGI 32, presso lo studio dell’avvocato CLARICH MARCELLO,

rappresentato e difeso dagli avvocati PISTOLESI FRANCESCO, MICCINESI

MARCO giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2245/2019 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 13/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/11/2019 dal Consigliere Dott. NAPOLITANO LUCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MATTEIS STANISLAO che ha concluso per il rigetto dei primi nove

motivi ricorso e assorbimento del 10;

udito per il ricorrente l’Avvocato MICCINESI che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato FIANDACA che ha chiesto il

rigetto.

Fatto

RILEVATO

Che:

1. L’Ente Cambiano Società Cooperativa per Azioni (già Banca di Credito Cooperativo di Cambiano Società Cooperativa per Azioni) versò all’erario la somma di Euro 54.208.740,00, pari al 20% del patrimonio netto al 31 dicembre 2015, esercitando così l’opzione di cui al D.L. 14 febbraio 2016, n. 18, art. 2, comma 3-bis, convertito con modificazioni dalla L. 8 aprile 2016, n. 49, della c.d. way out, ossia la possibilità per le banche di credito cooperativo aventi alla predetta data patrimonio netto superiore a duecento milioni di Euro, di conferire l’azienda bancaria ad una società per azioni, anche di nuova costituzione, autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria, modificando il proprio statuto in modo da escludere l’esercizio dell’attività bancaria e mantenendo nel contempo le clausole mutualistiche di cui all’art. 2514 c.c., assicurando ai soci servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la società per azioni conferitaria di formazione ed informazione sui temi del risparmio e di promozione dei programmi di assistenza.

L’Ente formulò quindi istanza di rimborso sia alla Direzione provinciale di Firenze sia alla Direzione Regionale dell’Agenzia delle Entrate, impugnando di seguito il silenzio – rifiuto formatosi su detta istanza dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Firenze, che rigettò il ricorso.

2. La Commissione tributaria regionale (CTR) della Toscana, con sentenza n. 2245/4/2018, depositata il 13 dicembre 2018, non notificata, respinse a sua volta l’appello proposto dall’Ente, condannandolo altresì al pagamento delle spese di lite.

3. Avverso la sentenza della CTR l’Ente Cambiano ha proposto ricorso per cassazione affidato a dieci motivi, con i quali sono prospettate, tra l’altro (primi tre motivi), diverse questioni afferenti la dedotta incompatibilità della suddetta disciplina normativa con il diritto primario e secondario dell’Unione Europea, con richiesta, in via gradata all’istanza di disapplicazione della normativa suddetta nella parte in cui subordina l’esercizio della succitata opzione al versamento dell’imposta sopra indicata, di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nonchè di sollevare questione di legittimità costituzionale (motivi da quattro ad otto), in relazione agli artt. 3,42,45,53 Cost., nonchè all’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo in tema di protezione della proprietà (quarto motivo), nonchè in relazione agli artt. 45,47 e 77 Cost. (quinto motivo), agli artt. 41 Cost. e 16 della Carta dei diritti 41 e 117 Cost. a presidio del principio della libera concorrenza (settimo e ottavo motivo).

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo l’ente ricorrente denuncia “violazione e/o falsa applicazione dei principi Europei di libera concorrenza e di salvaguardia del mercato, consacrati negli artt. 101,102,120 e 173 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea” (di seguito, ove non virgolettato, TFUE), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui la CTR ha ritenuto legittima l’imposizione in oggetto, sebbene la c.d. way out per le banche di credito cooperativo dotate d’ingente patrimonio che non avessero inteso prestare adesione a gruppo cooperativo bancario prevedesse il conferimento dell’azienda bancaria in società per azioni anche di nuova costituzione, permanendo, in capo alla conferente, pur a seguito delle conseguenti variazioni statutarie regolarmente approvate, la finalità mutualistica da svolgere anche attraverso il pacchetto azionario conseguito mediante l’anzidetto conferimento; con ciò, dunque, ledendo in primo luogo la normativa primaria unionale di cui in rubrica a tutela dei principi di libera concorrenza e salvaguardia del mercato.

2. Con il secondo motivo l’Ente Cambiano lamenta “violazione e/o falsa applicazione del principio di libera circolazione dei capitali, di cui all’art. 63 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, meglio specificato dalla Direttiva 2008/7/CE del 12 febbraio 2008, “concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali”, che recepisce la Direttiva 69/335/CEE del 17 luglio 1969, la quale afferma, salve le eccezioni di cui all’art. 6 (già art. 12 della Direttiva n. 69 cit.), non ricorrenti nella vicenda in oggetto, la neutralità degli atti di conferimento”, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Premesso che il legislatore Europeo ha fissato nel limite massimo dell’1% del valore reale dei beni di qualsiasi natura conferiti, dedotte le obbligazioni assunte e gli oneri sostenuti dalla società a causa di ciascun conferimento (artt. 3, par. 1, lett. a e c, 8, par. 3 e 11, par. 1, della Direttiva 2008/7/CE) la soglia entro la quale, al ricorrere di alcuni presupposti, le operazioni di conferimento, ove già tassate alla data del 1 gennaio 2006, avrebbero potuto continuare ad essere legittimamente sottoposte ad imposizione da parte degli Stati membri, il ricorrente rileva come tale limite sia stato violato dal D.L. n. 18 del 2016, art. 2, comma 3- ter, come modificato dalla legge di conversione n. 49/2016, che ha previsto il versamento, da parte della “banca di credito cooperativo conferente”, di “un importo pari al 20 per cento del patrimonio netto al 31 dicembre 2015, come risultante dal bilancio riferito a tale data, su cui il revisore contabile ha espresso un giudizio senza rilievi”; ciò, nella fattispecie in oggetto, avendo comportato un esborso pari all’ingentissima somma di Euro 54.208.740, laddove il valore complessivo dell’azienda bancaria oggetto di conferimento era stato stimato in Euro 277.991.902, senza che neppure potesse dirsi ricorrente alcuna delle ipotesi di deroga consentite dall’art. 6 della succitata Direttiva 2008/7/CE, in particolare dovendo escludersi che il tributo imposto potesse costituire diritto “di carattere remunerativo” secondo il suddetto art. 6 della menzionata Direttiva.

Il ricorrente, richiamando in proposito Corte di Giustizia CE 13 febbraio 1996, cause riunite C-197/94 e C-252/94, in riferimento all’allora vigente Direttiva 69/335/CEE, osserva ancora che a non diverse conclusioni in punto d’illegittimità dell’imposizione in oggetto sarebbe dovuta pervenire la CTR pur nell’affermazione, da parte del giudice tributario d’appello, della sua natura giuridica quale “imposta straordinaria sul patrimonio”, anzichè come imposta sui conferimenti, dovendo disapplicarsi la normativa nazionale che, in difetto dei presupposti legittimanti, ponga restrizioni di natura fiscale alla raccolta di capitali da parte della società, risolvendosi in una “”tassa di effetto equivalente” a quella vietata dall’ordinamento Europeo; ciò in quanto la normativa nazionale ha individuato esclusivamente nel conferimento dell’azienda bancaria nella nuova società per azioni conferitaria la causa dell’imposizione per evitare di dover sottostare al sacrificio della devoluzione dell’intero patrimonio ai fondi mutualistici.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “Violazione e/o falsa applicazione della Direttiva 2009/133/CEE del 19 ottobre 2009, “relativa al regime fiscale comune da applicare… ai conferimenti d’attivo… concernenti società di Stati membri diversi”” estesa dal (TUIR), D.P.R. n. 917 del 1986, art. 176, onde evitare “discriminazioni alla rovescia”, anche ai conferimenti d’azienda “domestici”, i quali devono essere sottoposti dagli ordinamenti nazionali ad un ordinario regime di neutralità fiscale, stante il rilievo meramente organizzativo di tali operazioni, salvo il caso, non ricorrente nella fattispecie, in cui, previo versamento di un’imposta sostitutiva, il contribuente, del tutto liberamente, si avvalga della possibilità di riallineare i valori fiscali dei cespiti conferiti con quelli contabili”.

Il ricorrente lamenta come nella fattispecie la decisione impugnata abbia erroneamente ritenuto la legittimità dell’imposizione straordinaria sul patrimonio, di entità peraltro assai elevata, in dipendenza di una scelta legittima e costituzionalmente tutelata in punto di forma e di organizzazione dell’attività economica, scelta da sempre considerata neutra, sul piano fiscale, salvo il caso, qui non ricorrente, in cui all’interessato si consenta di aggiornare i valori fiscali del compendio aziendale conferito, assoggettando ad imposizione le plusvalenze latenti.

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3,42,45,47 e 53 Cost., nonchè dell’art. 1 del Protocollo n. 1 Addizionale alla CEDU, in tema di “protezione della proprietà”, stante la palese arbitrarietà dell’imposizione controversa, che ha conculcato, in assenza di qualunque plausibile giustificazione, e in netta violazione del principio di non discriminazione, oltre che di proporzionalità, il patrimonio dell’ente cooperativo”, difettando qualsivoglia espressione di capacità contributiva.

Il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata abbia disatteso le questioni di legittimità costituzionale prospettate nel giudizio di merito in relazione ai succitati parametri, con affermazioni apodittiche, intimamente contraddittorie ed incompatibili col quadro richiamato dei valori costituzionali e convenzionali.

Ciò per un verso laddove la CTR ha escluso che possa ipotizzarsi la lesione del principio di eguaglianza, “risultando la disciplina l’effetto di scelte discrezionali e legittime del legislatore nella valutazione del bilanciamento con altri principi costituzionali quali la tutela del risparmio, anche in considerazione del regime di maggior favore fiscale del quale le cooperative avevano goduto”; per altro verso affermando che “alla valutazione giuridica” della Commissione “deve (…) restare estranea ogni considerazione circa le ricadute economiche del versamento”.

Il ricorrente lamenta al riguardo che la CTR abbia omesso di considerare che l’intrinseca irragionevolezza della disposizione, come conseguita alla modificazione apportata in sede di legge di conversione, era da cogliersi in relazione alla stessa ratio della riforma del sistema delle banche di credito cooperativo, rendendo peraltro lo Stato, in assenza dell’espressione di alcuna specifica ragione di solidarietà, beneficiario di un introito che non poteva giustificarsi in relazione al regime delle agevolazioni fiscali di cui aveva goduto l’allora banca di credito cooperativo, atteso che, a seguito del conferimento dell’azienda bancaria nella nuova società per azioni e delle conseguenti necessarie modifiche statutarie, permanevano le finalità mutualistiche prevalenti in relazione al godimento delle azioni percepite dalla conferitaria.

La pretesa volontarietà dell’adesione al meccanismo della c.d. way out non poteva poi, secondo il ricorrente, portare ad escludere che nella fattispecie si fosse in presenza di un vero e proprio fenomeno espropriativo, stante l’alternativa, in assenza del versamento dell’imposta, della perdita dell’intero patrimonio.

5. Con il quinto motivo il ricorrente censura ancora, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la sentenza impugnata, con riferimento alla prima parte della motivazione come riportata nel paragrafo precedente, con la quale la CTR ha disatteso le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione agli artt. 45 e 47 Cost., rilevando come la CTR abbia omesso di rilevare che il prelievo in oggetto ha, da un lato, depauperato le “riserve indivisibili” dell’Ente cooperativo, recando un evidente pregiudizio ai valori della cooperazione e della mutualità e, dall’altro, non ha tutelato il risparmio, risultandone indebolito il sistema del credito cooperativo; evidenziandosi, ancora, a giudizio del ricorrente, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale della disposizione in esame per contrasto con l’art. 77 Cost., anche alla stregua delle disposizioni a tutela del contribuente, di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, il cui art. 4, segnatamente, prevede che non si possa disporre con decreto legge l’istituzione di nuovi tributi.

6. Con il sesto motivo l’Ente ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 41 Cost. e 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), stante l’inspiegabile vulnus determinato dal tributo in contestazione allo svolgimento della libera iniziativa economica da parte dell’Ente cooperativo”.

Nel ribadire quanto già sopra osservato a confutazione della tesi esposta dalla CTR in punto di volontarietà dell’adesione a quanto previsto per l’esercizio della c.d. way out, il ricorrente sottolinea come parimenti erroneo debba intendersi l’assunto del giudice tributario d’appello laddove abbia inteso siffatto esercizio come quello proprio di un’opzione fiscale, in realtà insussistente, non essendovi alcuna imposta sostitutiva a regime ordinario, dovendosi piuttosto considerare l’opzione in questione come l’esercizio legittimo di una scelta imprenditoriale che non può essere limitata, ove non in contrasto con l’utilità sociale.

7. Con il settimo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per omessa pronuncia, ex art. 112 c.p.c., in relazione alla questione formulata in primo grado e riproposta in appello, relativa all’incompatibilità del tributo controverso, di cui al D.L. n. 18 del 2016, art. 2, comma 3-ter, convertito con modificazioni dalla L. n. 49/2016, con le norme costituzionali (artt. 41 e 117 Cost.) che presidiano la libera concorrenza, nulla avendo statuito al riguardo il collegio di seconde cure.

8. Con l’ottavo motivo analoga questione è riproposta direttamente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come violazione e/o falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 41 e 117 Cost. a tutela del principio di libera concorrenza, per l’ipotesi in cui si ritenga che la CTR abbia implicitamente rigettato la relativa eccezione d’illegittimità costituzionale.

9. Con il nono motivo, che può intendersi come riepilogativo di ciascuna delle questioni come prospettate nei precedenti motivi tanto in relazione alla normativa sovranazionale citata quanto agli invocati parametri costituzionali di riferimento addotti, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – per l’ipotesi che la CTR abbia inteso esprimere un apprezzamento di fatto circa i riflessi del prelievo in contestazione sul settore del credito cooperativo, nella parte in cui ha affermato che dovesse restare estranea alla propria valutazione giuridica ogni diversa considerazione circa le ricadute economiche del versamento – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè sulla capacità dell’Ente Cambiano Società Cooperativa per Azioni, già Banca di Credito Cooperativo di Cambiano Società per Azioni, di concedere credito, per il tramite della società per azioni conferitaria dell’azienda bancaria, la Banca Cambiano 1884 S.p.A.; fatto che, se correttamente apprezzato alla stregua delle precedenti considerazioni, volte a porre in rilievo il contrasto della disciplina del prelievo in questione tanto con i menzionati principi Europei di libera concorrenza e di salvaguardia del mercato, di cui agli artt. 101,102,120 e 173 TFUE, di libera circolazione dei capitali, di cui all’art. 63 del TFUE, del quale costituisce attuazione la Direttiva 2008/7/CE, e con la Direttiva 2009/133/CEE, quanto con gli artt. 3,41,42,43,45,53 e 117 Cost., reputando quindi le relative questioni di legittimità costituzionale proposte non manifestamente infondate, avrebbe condotto ad un esito diverso del giudizio.

10. Infine, con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 2, nella parte in cui la decisione impugnata ha condannato la società appellante al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 50.000,00, quantunque, per l’obiettiva complessità e gravità delle questioni giuridiche controverse, ricorressero senz’altro “gravi ed eccezionali ragioni” per disporre la compensazione delle spese del giudizio.

11. Tra le varie questioni sollevate con i suddetti motivi di ricorso ritiene la Corte di dover accogliere in primis alcuni dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati delle richiamate norme in quanto direttamente collidenti con alcuni parametri costituzionali, come di seguito esposti (tenuto anche conto che il contrasto con il diritto dell’Unione Europea viene ipotizzato rispetto a principi o disposizioni di carattere generale, ma non con norme Europee dotate di effetto diretto sulla fattispecie, cfr. Corte Cost. 14 dicembre 2017, n. 269).

Possono essere dunque trattati congiuntamente i motivi quarto, quinto, sesto ed ottavo con i quali in effetti l’ente ricorrente, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha disatteso, in via espressa o implicita, le sollevate questioni di legittimità costituzionale, le ripropone in questa sede, formulando, nell’ambito del quinto motivo, per la prima volta in sede di legittimità, un’ulteriore questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 77 Cost..

12. Giova anteporre una premessa comune utile alla disamina dei profili d’illegittimità costituzionale evocati dal ricorrente, che attiene alla ricostruzione della ratio sottesa alla riforma delle banche di credito cooperativo, al fine di verificare se la disciplina attuata, segnatamente a seguito delle modifiche apportate in sede di conversione all’originario decreto legge, risulti coerente con quelli che si pongono come i cardini della riforma stessa; donde l’opportunità di un più puntuale riferimento alla lettera delle disposizioni in esame quali conseguite rispetto all’originario decreto, nel contesto delle modifiche apportate alla disciplina base di riferimento contenuta nel D.Lgs. n. 1 settembre 1993, n. 385 (Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, di seguito TUB), anche in relazione alla normativa civilistica in tema di cooperative a mutualità prevalente.

Va sottolineato che la riforma delle banche di credito cooperativo tende al superamento delle criticità proprie della previgente disciplina di settore, afferenti alle debolezze strutturali derivanti sia dal modello di attività (particolarmente esposto all’andamento dell’economia del territorio di riferimento), sia dagli assetti organizzativi e dalle dimensioni ridotte della maggior parte delle banche di credito cooperativo.

Nel riaffermare l’importanza del ruolo della cooperazione di credito a sostegno dell’economia, la riforma ha inteso porre rimedio alle debolezze del modello di governance del credito cooperativo tali da ingenerare rilevanti difficoltà per il settore, rafforzando i patrimoni delle banche di credito cooperativo nella misura necessaria a risolvere eventuali situazioni di crisi, perseguendo l’obiettivo di porre il settore in grado di competere in un contesto Europeo caratterizzato da profondi mutamenti sul piano delle regole prudenziali, dell’attività di vigilanza e del livello di concorrenza.

12.1. Da siffatta angolazione non v’è dubbio che lo strumento principale – sì da costituire senz’altro l’opzione privilegiata dal legislatore – per il raggiungimento di detto obiettivo, è stato individuato (secondo quanto previsto dagli artt. 37-bis e 37-ter TUB, quali inseriti dal D.L. n. 18 del 2016, art. 1, comma 5, come convertito dalla L. n. 49 del 2016) nell’adesione delle Banche di credito cooperativo ad un Gruppo bancario cooperativo (di seguito, GBC) con al vertice una capogruppo (holding) in forma di società per azioni, con patrimonio minimo di un miliardo di Euro, partecipata a maggioranza dalle stesse Banche cooperative affiliate e dotata di poteri di direzione e coordinamento delle stesse.

Nel caso dell’adesione al GBC la Banca affiliata continua ad operare secondo il regime suo proprio, nessuna conseguenza verificandosi sul patrimonio della Banca che ha prestato la propria adesione al Gruppo.

12.2. Di contro, per le banche di credito cooperativo autorizzate alla data di entrata in vigore delle disposizioni emanate ai sensi dell’art. 37-bis TUB, che non avessero aderito al GBC, il D.L. n. 18 del 2016, art. 2, comma 3, quale convertito dalla L. n. 49 del 2016, ha stabilito che le stesse potessero assumere – di là dell’ipotesi di recesso o esclusione da un Gruppo bancario – come prima opzione, la delibera di trasformazione in società per azioni, dovendo altrimenti deliberare la propria liquidazione, nel termine indicato ai commi 1 e 2 del suddetto art. 2.

La conseguenza dell’esercizio dell’opzione di trasformazione in società per azioni è quella della devoluzione del patrimonio sociale ai fondi mutualistici, in virtù di quanto previsto dall’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 2 del decreto in esame come modificato in sede di conversione, per effetto del quale “Resta fermo quanto previsto dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 150-bis, comma 5, come modificato dal presente decreto”.

Sennonchè proprio la norma da ultimo richiamata ha subito la più rilevante modifica, in sede di legge di conversione, rispetto a quella già apportata dal D.L. n. 18 del 2016, andando ad incidere profondamente sulle modalità di esercizio di quella che è venuta a configurarsi come un’ulteriore opzione, ridisegnando i termini della c.d. way out.

12.3. Prima di soffermarsi su quest’ultima nel suo assetto definitivo, risulta utile premettere il testo dell’art. 150-bis TUB, comma 5, quale sostituito dal D.L. n. 18 del 2016, art. 1, comma 6, lett. b), ante legge di conversione, secondo il quale: “Nei casi di fusione e trasformazione previsti dall’art. 36, nonchè di cessione di rapporti giuridici in blocco e scissione da cui risulti una banca costituita in forma di società per azioni, restano fermi gli effetti di devoluzione del patrimonio stabiliti dalla L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 17. Tali effetti non si producono se la banca di credito cooperativo che effettua le operazioni di cui al periodo precedente ha un patrimonio netto superiore a duecento milioni di Euro. In tal caso, le riserve sono affrancate corrispondendo all’erario un’imposta straordinaria pari al venti per cento della loro consistenza”.

Nella previsione originaria di detta disposizione si era manifestata apprensione (cfr. audizione parlamentare del Capo del Dipartimento vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, nel corso dei lavori per la conversione in legge del citato D.L. n. 18 del 2016) sui rischi di demutualizzazione del settore, soprattutto in difetto di previsione di un termine per l’esercizio della relativa opzione, nonchè di un riferimento temporale per la valutazione del patrimonio netto della Banca di credito cooperativo che, nel deliberare la trasformazione in società per azioni, intendesse conseguire, dietro il versamento dell’imposta straordinaria pari al 20% della consistenza delle riserve, l’affrancamento delle stesse, evitando così l’effetto della devoluzione ai fondi mutualistici. La norma finiva con l’intervenire in un assetto normativo in cui la trasformazione di una banca di credito cooperativo in società per azioni era ammessa solo eccezionalmente (a seguito di fusioni con banche di altra natura autorizzate dalla Banca d’Italia nell’interesse dei creditori e per ragioni di stabilità, secondo l’art. 36 TUB nella formulazione applicabile ratione temporis), non essendo ammesse su base meramente volontaria nè la trasformazione in S.p.A. nè il passaggio alle cooperative a mutualità non prevalente, e comportando, in ogni caso, tutte le operazioni trasformanti l’obbligo di devolvere l’intero patrimonio ai Fondi mutualistici per la cooperazione ai sensi della L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 17.

12.4. Detta ultima disposizione, riconosciuta costituzionalmente legittima quale norma d’interpretazione autentica da Corte Cost. 23 maggio 2008, n. 170, aveva previsto che allo stesso obbligo di devoluzione di cui al D.Lgs., art. 26. Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, ratificato, con modificazioni, dalla L. 2 aprile 1951, n. 302, art. 11, comma 5, della L. 31 gennaio 1992, n. 59, dovessero intendersi soggette le stesse società cooperative e loro consorzi nei casi di fusione e trasformazione (ove non vietati dalla normativa vigente) in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato art. 26, nonchè in caso di decadenza dai benefici fiscali.

La Corte costituzionale aveva, in particolare, chiarito che la ratio del succitato L. n. 388 del 2000, art. 17, è quella di “garantire che i benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo svolgimento di un’attività priva di tale carattere e, comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito”.

Ulteriori dubbi erano stati espressi sulla ragionevolezza dell’entità del prelievo finalizzato all’affrancamento delle riserve, se rapportato all’incidenza del complesso delle agevolazioni fiscali godute che avevano contribuito alla formazione del patrimonio della banca di credito cooperativo che avesse optato per la trasformazione in società per azioni.

13. Le modifiche apportate in sede di conversione hanno ridisegnato le modalità di esercizio della c.d. way out.

L’ultimo periodo dell’art. 150-bis TUB come sopra trascritto è stato soppresso dalla legge di conversione, che, per quanto qui rileva, ha aggiunto al decreto, art. 2, commi 3-bis, 3-ter e 3-quater, che di seguito si riportano:

“3-bis. In deroga a quanto previsto dal D.Lgs. 10 settembre 1993, n. 385, art. 150-bis, comma 5, la devoluzione non si produce per le banche di credito cooperativo che, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, presentino alla Banca d’Italia, ai sensi del D.Lgs. n. 385 del 1993, articolo 58, istanza, anche congiunta, di conferimento delle rispettive aziende bancarie ad una medesima società per azioni, anche di nuova costituzione, autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria, purchè la banca istante o, in caso di istanza congiunta, almeno una delle banche istanti possieda, alla data del 31 dicembre 2015, un patrimonio netto superiore a duecento milioni di Euro, come risultante dal bilancio riferito a tale data, su cui il revisore contabile ha espresso un giudizio senza rilievi.

3-ter. All’atto del conferimento, la banca di credito cooperativo conferente versa al bilancio dello Stato un importo pari al 20 per cento del patrimonio netto al 31 dicembre 2015, come risultante dal bilancio riferito a tale data, su cui il revisore contabile ha espresso un giudizio senza rilievi.

3-quater. A seguito del conferimento, la banca di credito cooperativo conferente, che mantiene le riserve indivisibili al netto del versamento di cui al comma 3-ter, modifica il proprio oggetto sociale per escludere l’esercizio dell’attività bancaria e si obbliga a mantenere le clausole mutualistiche di cui all’art. 2514 c.c., nonchè ad assicurare ai soci servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la società per azioni conferitaria, di formazione e informazione sui temi del risparmio e di promozione di programmi di assistenza. Non spetta ai soci il diritto di recesso previsto dall’art. 2437 c.c., comma 1, lett. a). In caso di inosservanza degli obblighi previsti dal presente comma e dai commi 3-bis e 3-ter, il patrimonio della conferente o, a seconda dei casi, della banca di credito cooperativo è devoluto ai sensi della L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 17. In caso di mancato ottenimento delle autorizzazioni indicate al comma 3-bis entro il termine stabilito dal comma 1, la banca di credito cooperativo può chiedere l’adesione a un gruppo cooperativo già costituito entro i successivi novanta giorni. In caso di diniego dell’adesione si applica il comma 3”.

14. Dato atto che non rilevano ai fini della presente decisione le ulteriori modifiche apportate al D.L. n. 18 del 2016, art. 2, quale convertito, con modificazioni, dalla L. n. 49 del 2016, art. 11, comma 1, D.L. 25 luglio 2018, n, 91, convertito, a sua volta, con modificazioni, dalla L. 21 settembre 2018, n. 108, questa Corte deve dunque verificare entro quali limiti le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 3-ter e 3-quater, quest’ultimo limitatamente all’inciso “al netto del versamento di cui al comma 3-ter, nonchè al successivo riferimento al predetto “3-ter”, sollevate dalla ricorrente in relazione ai parametri invocati, siano non manifestamente infondate e rilevanti ai fini della decisione.

15. In primo luogo va rilevato che non osta all’esame della questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 77 Cost. il fatto che sia stata sollevata per la prima volta in sede di legittimità, ben potendo essa essere rilevata (cfr. legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, art. 1) e conseguentemente sollevata (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, comma 3) anche d’ufficio.

Ritiene la Corte peraltro che essa sia manifestamente infondata, alla stregua della giurisprudenza della Corte costituzionale riguardo al rispetto dei requisiti di necessità e d’urgenza con riferimento all’istituzione di nuovi tributi. Particolare rilievo, al riguardo, di recente, assume Corte Cost. 21 marzo 2018, n. 99, in sede di sindacato di legittimità costituzionale del D.L. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2015, n. 33 (c.d. riforma delle banche popolari), che ha escluso il profilo d’illegittimità costituzionale posto in relazione ai requisiti di cui alla decretazione d’urgenza, richiamando proprio analogo precedente (Corte Cost. 20 luglio 2016, n. 287) ed osservando, in relazione all’anzidetta normativa, che essa “non presenta una portata così ampia da caratterizzarsi come una vera e propria riforma del sistema bancario”, poichè “per quanto essa incida significativamente su un particolare tipo di azienda di credito, resta pur sempre un intervento settoriale e specifico, non assimilabile dunque a un atto definibile come riforma di sistema”.

Analoghe considerazioni, invero, possono essere svolte, mutatis mutandis, con riferimento alla disciplina in esame (si veda anche, in tema di rispetto dei requisiti di necessità e d’urgenza riguardo all’istituzione con decreto-legge di nuovi tributi, Corte Cost. 11 febbraio 2015, n. 10), dovendosi, peraltro, ribadire, in ragione del richiamo di parte ricorrente al principio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 4, che le norme del c.d. Statuto del contribuente non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria (essendone, invero, ammessa la modifica o la deroga, purchè espressa e non a opera di leggi speciali), con la conseguenza che una previsione legislativa che si ponga in contrasto con esse non è suscettibile di disapplicazione, nè può essere per ciò solo oggetto di questione di legittimità costituzionale, non potendo le disposizioni dello Statuto fungere direttamente da norme parametro di costituzionalità (cfr., tra le altre, Cass. sez. 5, ord. 20 giugno 2018, n. 16227; Cass. sez. 5, ord. 6 settembre 2017, n. 20812; Cass. sez. 5, 9 dicembre 2009, n. 25722).

16. Ugualmente deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale posta, nell’ambito del quarto motivo, dall’ente ricorrente in relazione all’art. 42 Cost., anche con riferimento all’art. 1 del Protocollo n. 1 Addizionale alla CEDU, in tema di protezione della proprietà.

Prima ancora che possa entrarsi nella valutazione dell’entità dell’imposizione come di fatto implicante un sacrificio della proprietà di natura espropriativa, al di fuori dei limiti in cui ciò sia consentito ai sensi dell’art. 42 Cost., comma 3, deve convenirsi con la sentenza impugnata laddove ha osservato che la volontarietà dell’adesione (alla terza opzione consentita) e del conseguente esborso comporta che non possa attribuirsi al prelievo la paventata natura espropriativa; non altrettanto è a dirsi, invece, in virtù delle considerazioni di seguito espresse, quanto alla ritenuta manifesta infondatezza della questione posta in relazione all’art. 41 Cost., che va esaminata contestualmente agli altri parametri invocati, ritenendosi superflua, nell’ambito dell’ottavo motivo, l’indicazione dell’art. 117 Cost., comma 2, lett. e), riguardo alla prospettata lesione del principio della tutela della concorrenza (si veda infra, par. 20).

17. Ritiene la Corte che possa condividersi la natura, affermata da parte della CTR, del prelievo in oggetto come imposta sul patrimonio netto dell’impresa, ma che ciò solo non sia sufficiente ad escludere i paventati dubbi di legittimità costituzionale della disciplina in esame con riferimento agli artt. 3,41,45,47 e 53 Cost..

Deve escludersi, infatti, che il prelievo colpisca il conferimento dell’azienda bancaria da parte della Banca di credito cooperativo nella società per azioni di nuova costituzione, operazione di cui, già in virtù della disciplina nazionale di riferimento (art. 176 TUIR), è previsto lo svolgimento in regime di neutralità fiscale.

L’elemento essenziale, già evidenziato dalla CTR, che impedisce l’attribuzione al tributo in esame della suddetta natura di imposta sul patrimonio netto dell’impresa, è da cogliere in relazione all’individuazione della base imponibile, rappresentata da una percentuale (pari al 20%) del patrimonio netto, ad una data specifica (31 dicembre 2015), sganciata da quella della cessione dell’azienda bancaria.

18. Tuttavia, non sembra potersi ritenere, come sostenuto dalla difesa erariale, che l’imposizione possa ragionevolmente spiegarsi nella scelta di devoluzione dell’azienda bancaria nella società per azioni di nuova costituzione, per essere l’imposizione stessa bilanciata perchè calibrata sulla detassazione degli utili di cui ha fruito la Banca di credito cooperativo, attraverso, quindi, un prelievo sul patrimonio netto in ragione della rilevante consistenza quale specifico indice di capacità contributiva (essendosi formato il patrimonio della Banca anche grazie alle agevolazioni fiscali godute D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, ex art. 14, in relazione alla normativa settoriale di riferimento).

Tale ricostruzione poteva ritenersi in linea con la configurazione del prelievo secondo l’originaria formulazione del D.L. n. 18 del 2016, in cui, come si è innanzi rilevato (par. 12.3.), il relativo versamento si poneva quale strumento per l’affrancamento delle riserve che avrebbero dovuto essere altrimenti devolute ai Fondi mutualistici, venendo, in quel caso, a cessare del tutto, per effetto della volontaria trasformazione in società per azioni, l’ente di credito cooperativo e dunque la finalità di mutualità prevalente.

Ciò non solo si poneva in linea con quanto osservato dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 170/2008, ma, come si è visto, da altro versante poteva invece suscitare dubbi sulla congruità del prelievo se parametrato all’entità delle agevolazioni usufruite, in conseguenza dell’uscita della Banca dal settore delle cooperative a mutualità prevalente, una volta assunta la veste lucrativa della società per azioni.

18.1. Detta situazione può ritenersi rovesciata nell’assetto definitivo della riforma quanto a quella che si è definita come terza opzione, in cui l’ente cooperativo persiste, ma, a seguito del conferimento dell’azienda bancaria in società per azioni di nuova costituzione, muta il proprio oggetto sociale, continuando a perseguire la propria prevalente finalità mutualistica attraverso il pacchetto azionario partecipato nella società per azioni di nuova costituzione per effetto del conferimento in essa dell’azienda bancaria, con i relativi limiti nella distribuzione degli utili.

19. Occorre dunque verificare in primo luogo se l’aver conservato il prelievo sul patrimonio netto dell’Ente, pur essendo venuti meno, a seguito della conversione in legge dell’originario decreto, i presupposti a cui era stato riferito, sia coerente con la ratio della riforma di settore come sopra delineata sotto il profilo della ragionevolezza della scelta legislativa, in relazione al parametro di cui all’art. 3 Cost., da valutare congiuntamente all’art. 53 Cost. (nel senso che la capacità contributiva deve essere informata a criteri di progressività, in quanto specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in spirito di solidarietà politica, economica e sociale cfr., tra le altre, Corte Cost. 11 ottobre 2012, n. 223; Corte Cost. ord. 17 luglio 2001, n. 258).

Si è detto che l’opzione dell’adesione della Banca di credito cooperativo a GBC con la nascita di una holding, in forma di società per azioni, partecipata a maggioranza dalle stesse banche di credito cooperativo, è stata finalizzata a porre rimedio all’incapacità della maggior parte delle banche di credito cooperativo, per limiti strutturali prima ancora che organizzativi, di fare affidamento sulla tradizionale risorsa, propria del settore, dell’autofinanziamento per le esigenze di patrimonializzazione.

Di qui la previsione, che si pone come primo pilastro della riforma, della scelta dell’adesione al GBC destinata a favorire la permanenza sul mercato, in regime di libera concorrenza, secondo uno dei principi fondanti dell’Unione Europea, delle banche più esposte in ragione di modesti requisiti patrimoniali, cui peraltro fa da sponda, come secondo pilastro, il perseguimento dell’obiettivo del consolidamento dell’intera struttura di credito cooperativo.

19.1. In relazione a tale ultimo profilo l’assoggettamento della banca di credito cooperativo di grande rilevanza patrimoniale – che voglia percorrere la diversa strada (ritenuta legittima dalla stessa riforma) della c.d. way out – al versamento del tributo nella misura stabilita, in difetto dell’originario presupposto di cui alla formulazione del decreto ante legge di conversione, sembra porsi in evidente contrasto con i suddetti parametri costituzionali, atteso che l’ente, attraverso il conferimento dell’azienda bancaria nella società per azioni di nuova costituzione, pur trasformatosi, continua ad operare nel settore della mutualità prevalente attraverso il possesso delle azioni nella società conferitaria partecipata, secondo un modus operandi già riconosciuto dall’ordinamento.

19.2. Ritiene dunque la Corte che l’eccezione di legittimità costituzionale delle denunciate disposizioni di legge risulti non manifestamente infondata in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., dubitandosi della ragionevolezza dell’imposizione con riferimento alla stessa ratio della normativa di riforma di settore delle banche di credito cooperativo in difetto di uno specifico indice di capacità contributiva che giustifichi, peraltro, la destinazione del prelievo alla fiscalità generale e dovendosi, al riguardo, ricordare come la Corte costituzionale abbia chiarito che la “possibilità di imposizioni differenziate deve pur sempre ancorarsi a una adeguata giustificazione obiettiva, la quale deve essere coerentemente proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella struttura dell’imposta” (cfr. la già citata Corte Cost. n. 10/2015, in tema di c.d. Robin Tax) – giustificazione che, come si è detto, nella fattispecie pare oggettivamente mancare -.

19.3. Neppure il carattere straordinario del prelievo nell’ambito di una disciplina di carattere transitorio, pertanto, in difetto di alcuna esplicitazione di specifiche esigenze di natura solidaristica che possa legittimarne l’attribuzione alla fiscalità generale, appare sufficiente a riconoscerne la legittimità sotto il profilo della ragionevolezza della scelta del legislatore – ponendosi questa in oggettivo contrasto con la stessa esigenza di consolidamento della struttura del credito cooperativo e colpendo un ente che pur a seguito delle modifiche statutarie, conserva la sua natura di cooperativa a mutualità prevalente cui, anche a livello Europeo, viene tradizionalmente riconosciuta una ridotta capacità contributiva (cfr. CGUE 8 settembre 2011, cause riunite C-78/08 e C-80/08) -.

In proposito occorre ancora rilevare che il precedente di questa Corte (Cass. sez. 5, 12 agosto 2004, n. 15637; in senso conforme anche Cass. sez. 5, 10 dicembre 2009, n. 25872), citato dalla CTR quanto alla legittimità dell’imposta sul patrimonio netto delle imprese istituita dal D.L. 30 settembre 1992, n. 394, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 novembre 1992, n. 461, successivamente abolita dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 36 con effetto dal primo gennaio 1998, non pare pertinente nella fattispecie in esame, sia per la diversità dei presupposti delle relative imposizioni, sia per la considerazione che in quella sede se ne è valutata unicamente la compatibilità col diritto secondario dell’Unione, la Direttiva del Consiglio n. 69/335/CEE (modificata nella Direttiva 10 giugno 1985, n. 85/303/CEE) in conformità alla giurisprudenza di riferimento della Corte di giustizia, e non invece, come nella specie, una diretta collisione della norma con parametri costituzionali.

20. Ritiene la Corte che ugualmente debba affermarsi la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme in oggetto posta dall’ente ricorrente in relazione agli artt. 41,45 e 47 Cost..

In primo luogo, quanto al principio di libertà dell’iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost., comma 1 è noto che la formazione (attraverso le sue diverse tappe) dell’ordinamento sovranazionale dell’odierna Unione Europea, successivamente all’entrata in vigore nel 1948 della Costituzione repubblicana, ha portato ad un’interpretazione evolutiva di detta disposizione, sicchè, indipendentemente anche dall’espresso riferimento in Costituzione al principio della tutela della libera concorrenza oggi contenuto, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione operata dalla L. Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, nell’art. 117, comma 2, lett. e), norma essenzialmente riferita al riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni, si è evidenziato nel citato art. 41 Cost., cui fa oggi riscontro l’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea quanto al riconoscimento della libertà d’impresa, il fondamento costituzionale del principio di tutela della concorrenza e del mercato, che costituisce architrave del diritto dell’Unione Europea (si vedano, in particolare, l’art. 3 TFUE, comma 3, e gli artt. 101, 102, 120 e 173 del suddetto Trattato), può dirsi univocamente riconosciuto nell’art. 41 Cost., dovendosi rilevare il ruolo fondamentale della clausola generale del rispetto del limite dell’utilità sociale, in ragione della sua elasticità, nel quadro del relativo bilanciamento d’interessi, del limite della tutela del principio di concorrenza.

20.1. Le più recenti decisioni della Corte costituzionale hanno posto in luce che la nozione interna di concorrenza riflette quella posta dall’ordinamento comunitario (così Corte Cost. 22 luglio 2010, n. 270, par. 8, nel richiamare le precedenti decisioni n. 45 del 12 febbraio 2010, n. 430 del 14 dicembre 2007 e n. 12 del 13 gennaio 2004), ponendosi quindi per l’interprete il problema della concreta valutazione del summenzionato bilanciamento dell’ambito di tutela del suddetto principio con riferimento ad altri valori la cui tutela abbia rilievo costituzionale.

Ritiene questa Corte che, alla stregua di quanto sopra esposto in ordine alla stessa linea ispiratrice della riforma delle banche di credito cooperativo, tesa ad assicurare l’effettivo sviluppo della concorrenza sul mercato unico Europeo nel quadro comunque del consolidamento dell’intera struttura del credito cooperativo, nella fattispecie in esame detto bilanciamento trovi la sua chiave di lettura nel riconoscimento, a livello costituzionale, da parte dell’art. 45 Cost., comma 1, della funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, dovendo convenirsi con quanto opportunamente rilevato in dottrina, secondo cui sono di utilità sociale quei beni che non solo sono ritenuti tali dal legislatore ma che godono anche e soprattutto di diretta protezione e garanzia in Costituzione.

20.2. Orbene, avendo perso il prelievo, nella stesura delle disposizioni in esame quale seguita alla conversione in legge dell’originario decreto, la funzione di affrancamento, in vista della mera trasformazione dell’ente in società per azioni, delle riserve altrimenti da devolvere ordinariamente ai fondi mutualistici, il permanere dell’imposizione, pur a seguito del conferimento dell’azienda bancaria in società per azioni di nuova costituzione, restando pur sempre l’ente conferente, anche a seguito delle modifiche statutarie approvate, caratterizzato dall’appartenenza al mondo della cooperazione a mutualità prevalente, sembra porsi in diretto contrasto con lo stesso riconoscimento costituzionale della funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.

In relazione a tale angolazione il dubbio della conformità delle disposizioni in esame agli invocati parametri di cui agli artt. 41 e 45 Cost. si alimenta ancor più se si rileva che ad essere colpita dall’imposizione è proprio quella banca dotata di caratteristiche di rilievo patrimoniali tali da assicurare di per sè il rispetto di quei requisiti strutturali tali da garantirne la capacità competitiva sul relativo settore di mercato senza perdere nel contempo lo specifico collegamento col territorio di riferimento, a prescindere quindi dall’adesione al GBC pure ipotizzata dal legislatore come la via maestra della riforma del settore del credito cooperativo.

Non pare, infine, condivisibile l’affermazione del giudice tributario d’appello laddove ha affermato che alla propria valutazione giuridica “deve peraltro restare estranea ogni diversa considerazione circa le ricadute economiche del versamento, che (…) è frutto della volontaria e insindacabile adesione al modulo di riforma alternativo”.

Detta affermazione appare, infatti, per un verso, frutto di un fraintendimento, atteso che qui la libertà dell’adesione non è quella (tipicamente opzionale e, come tale, manifestazione di volontà negoziale, irretrattabile se non nei casi di errore essenziale e riconoscibile) della scelta di un’imposta sostitutiva a regime ordinario, ma è quella della scelta di un modulo organizzativo in luogo di un altro, che appartiene all’ambito della libertà d’iniziativa economica privata che gode di tutela costituzionale ove, come nel caso di specie, non solo non si ponga in contrasto con l’utilità sociale, ma si ponga essa stessa come espressione di un’attività della quale, pur a seguito delle modifiche statutarie intervenute per effetto del conferimento dell’azienda bancaria nella società per azioni di nuova costituzione, permane il riferimento alla funzione sociale costituzionalmente riconosciuta alla cooperazione a carattere di mutualità, senza fini di speculazione privata.

20.3. Resta ipotizzabile, pertanto, un vulnus al principio della concorrenza anche in relazione alla capacità di erogare credito da parte dell’azienda di nuova formazione, restando le riserve indivisibili, secondo il disposto dell’art. 2545-ter c.c., a differenza di quanto previsto nell’originaria formulazione della norma a fronte della trasformazione dell’originaria banca di credito cooperativo in società per azioni, avente quindi veste lucrativa, dovendosi ancora osservare che il prelievo come disciplinato dalla norma in esame sembra ancora porsi in contrasto con il principio della tutela del risparmio, di cui all’art. 47 Cost., comma 1, secondo cui la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme.

Se è vero, infatti, che detto principio non impedisce al legislatore ordinario “di emanare (…) norme (…) volte a disciplinare il gettito delle entrate”, esso “incontra il limite della vera e propria contraddizione o compromissione di detto principio” (cfr. Corte Cost. 4 maggio 1995, n. 143), contraddizione che pare insita nella previsione del tributo al quale è stata subordinata l’adesione ad un modulo imprenditoriale piuttosto che ad un altro nel quadro del medesimo settore del credito cooperativo, generalmente interessato da quelle analoghe “esigenze di rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione”, perseguite dalla riforma delle banche popolari, in virtù delle quali la Corte costituzionale, nella già citata sentenza n. 99/2018, ha riconosciuto la legittimità costituzionale del D.L. n. 33 del 2015, art. 1, convertito con modificazioni, nella L. n. 33/2015, con riferimento, in deroga alle norme ordinarie, della limitazione del diritto del socio in caso di recesso al rimborso delle azioni.

21. In conclusione, pertanto, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, deve dichiararsi non manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale del D.L. n. 18 del 2016, art. 2, comma 3-ter, quale modificato dalla legge di conversione L. n. 49 del 2016, per effetto del quale, “all’atto del conferimento, la banca di credito cooperativo versa al bilancio dello Stato un importo pari al 20 per cento del patrimonio netto al 31 dicembre 2015, come risultante dal bilancio riferito a tale data, su cui il revisore contabile ha espresso un giudizio senza rilievo”, e dell’art. 2-quater primo periodo, limitatamente alle parole “al netto del versamento di cui al comma 3-ter, e del terzo periodo del medesimo comma, limitatamente alle parole “e 3-ter”, in relazione agli artt. 3,41,45,47 e 53 Cost..

22. La rilevanza della questione, sempre in relazione al menzionato L. n. 87 del 1953, art. 23, ai fini della decisione della presente controversia, è in re ipsa, atteso che l’eventuale declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’imposta di cui alle menzionate disposizioni normative comporterebbe il riconoscimento della fondatezza della domanda di rimborso di quanto versato dall’ente ricorrente e dunque l’accoglimento del ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR della Toscana che ha, invece, disatteso le relative questioni come proposte nel giudizio di merito.

23. Infine, stante la lettera della norma con la quale si stabilisce, in modo del tutto chiaro (e non polisenso nel suo contenuto precettivo), l’obbligo del versamento dell’importo sopraindicato alle condizioni dalla stessa norma previste (e ricorrenti nella specie), va risolta con esito negativo la pure necessaria verifica di praticabilità di una esegesi costituzionalmente orientata della normativa denunciata (non potendo invero residuare alcuna diversa interpretazione che non sia quella relativa alla affermazione o alla negazione in radice del suddetto obbligo del versamento, secondo i citati dubbi di costituzionalità).

24. Deve di conseguenza disporsi, ai sensi della L. n. 87 del 1953, art. 23, l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e la sospensione del giudizio in corso, in uno alle comunicazioni di rito, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, visti l’art. 134 Cost. e L. n. 87 del 1953, art. 23, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 18 del 2016, art. 2, commi 3-bis e 3-ter, quale convertito, con modificazioni, dalla L. n. 49 del 2016, nei termini di cui in motivazione, per contrasto con gli artt. 3, 41, 45, 47 e 53 Cost.. Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso.

Dispone, inoltre, che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri, alle parti e alla Procura generale della Corte di cassazione, e comunicata al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2020

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