Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13467 del 03/06/2010

Cassazione civile sez. I, 03/06/2010, (ud. 20/04/2010, dep. 03/06/2010), n.13467

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – rel. Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.B.E. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA ANAPO 29, presso l’avvocato DI GRAVIO DARIO,

che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO SBORDONI NUOVA CERAMICA S.P.A., in persona del Curatore

avv. R.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FONTANELLA

BORGHESE 60, presso l’avvocato RESTA FIORENZA, che lo rappresenta e

difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 547/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 07/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2010 dal Consigliere Dott. MARIA ROSARIA CULTRERA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato DOMENICO TALARICO, con delega,

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato CARLO ALFREDO ROTILI, con

delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità o

rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 12 luglio 1993 il curatore del fallimento della società Sbordoni Nuova Ceramica s.p.a. ha citato innanzi al Tribunale di Roma S.B.E. per sentirlo condannare alla reintegrazione del patrimonio della società fallita nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, ovvero nella diversa somma risultante in causa, per aver amministrato la società in qualità di presidente del consiglio d’amministrazione dal 2 giugno 1989 al 23 novembre 1989 incorrendo nella serie di addebiti contestati:

1.- aver attinto ai conti della società per eseguire mediante assegni pagamenti ad essa non riferibili, di cui L. 80.000.000 in favore della società M.S., L. 5.500.000 oltre analoga somma in favore di terzi e senza contropartita, l’importo della parcella dell’Avv. Di Gravio, L. 2.000.000 in favore di C.A.I.R.F., L. 50.000.000 in favore priva di qualsiasi relazione con la società; 2.- aver ordinato mobili e suppellettili per la propria abitazione tentandone l’addebito a carico della società;

3.- aver trattenuto abusivamente l’autovettura della società;

4.- aver evaso i tributi cui era tenuta la società esponendola alle conseguenti sanzioni;

5.- aver tenuto contabilità irregolare.

Disposto in istruttoria in via cautelare il sequestro conservativo dei beni del convenuto chiesto dall’attore, il Tribunale, con sentenza del 1999, ha accolto parzialmente la domanda condannando lo S. al pagamento in favore di controparte della somma di L. 152.500.000 oltre rivalutazione ed interessi.

La decisione, impugnata dal soccombente innanzi alla Corte d’appello di Roma, ha ricevuto conferma con la sentenza n. 547 depositata il 7 febbraio 2005.

Avverso questa decisione S.B.E. ha proposto ricorso per cassazione in base a tre motivi resistiti dal curatore fallimentare intimato con controricorso ulteriormente illustrato con memoria difensiva depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo censura l’impugnata sentenza che avrebbe escluso il denunciato vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il primo giudice, per aver provveduto alla liquidazione del danno tenendo conto degli specifici comportamenti lesivi attribuiti al convenuto ancorchè nella richiesta formulata nella domanda originaria, e ribadita nelle conclusioni finali, l’attore avesse commisurato l’entità del pregiudizio invocato alla differenza tra attivo e passivo fallimentare. Il ricorrente assume a sostegno che le ulteriori nuove conclusioni erano inammissibili ed il giudice d’appello, non ritenendo utilizzabile tale criterio, non avrebbe potuto esaminare i singoli fatti attribuiti allo S. individuando di conseguenza il danno ascrivibile.

Il resistente replica alla censura rilevandone l’inammissibilità perchè tesa a nuova indagine di merito.

Il motivo è privo di pregio.

La Corte di merito ha escluso il vizio di ultrapetizione ascritto al primo giudice in ordine alla determinazione del quantum debeatur, osservando che in sede di precisazione delle conclusioni l’attore aveva richiamato le richieste formulate nell’atto introduttivo, che indicavano la misura del danno non solo nella differenza tra attivo e passivo, ma anche nella diversa somma risultante in causa, ed il Tribunale aveva pronunciato condanna determinando il quantum in relazione a specifici comportamenti lesivi. Siffatta interpretazione del contenuto delle conclusioni della parte attrice, insindacabile nel merito, è giuridicamente corretta. La curatela attrice, che pur ha confermato nelle sue conclusioni il criterio originariamente dedotto, si è rimessa comunque nel contempo alla valutazione che il giudicante avrebbe potuto trarre dall’espletata istruttoria, adottando formula che, agli effetti dell’art. 112 c.p.c., non può essere considerata come meramente di stile, in quanto, “lungi dall’avere un contenuto meramente formale, manifesta la ragionevole incertezza della parte sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi e ha lo scopo di consentire al giudice di provvedere alla giusta liquidazione del danno senza essere vincolato all’ammontare della somma richiesta nelle specificamente (cfr. Cass. n. 2134/2006).

Il motivo non espone alcun argomento critico che induca a rimeditare sul principio richiamato e non merita perciò accoglimento.

Col secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione dell’art. 116 c.p.c., artt. 652 e 654 c.p.p., artt. 2043 e 2697 c.c. e correlato vizio di motivazione, si duole del fatto che il giudice civile abbia risolto la controversia in senso difforme rispetto al giudicato penale, nonostante l’oggettiva identità dei fatti esaminati nelle rispettive sedi. Richiama a conforto numerosi enunciati circa la rilevanza del giudicato penale in sede civile.

Il resistente replica al motivo deducendone inammissibilità ovvero infondatezza e rilevando la mancanza di sovrapposizione dei fatti storici esaminati nelle due sedi.

Il motivo è inammissibile.

La decisione impugnata ha escluso la rilevanza in sede civile del giudicato formatosi in ordine alla sentenza di proscioglimento del convenuto dai reati ascrittigli, sia perchè la curatela non si era costituita parte civile nei confronti del predetto, sia perchè il proscioglimento dello S. era basato sull’incertezza circa la prova dell’elemento soggettivo del reato ascrittogli, previsto dalla L. Fall., art. 216, e risultava perciò inconferente in sede civile.

Di tali due rationes decidendi, fondanti congiuntamente l’approdo, il ricorrente non ha tenuto conto. Ha infatti invocato l’efficacia vincolante nel giudizio civile del giudicato penale solo per quanto concerne l’accertamento dei fatti materiali, che asserisce identici.

Non ha invece esposto alcun argomento di critica circa l’attribuita decisiva rilevanza alla mancata partecipazione del curatore fallimentare al processo penale. Tale omessa impugnazione comporta il corollario dell’inammissibilità della censura.

Col terzo motivo infine il ricorrente denuncia violazione e l’art. 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. e lamenta erronea equiparazione dell’emissione degli assegni bancari all’incasso delle somme portate dagli stessi titoli. A mò d’esempio, rileva che l’avv. Di Gravio, in favore del quale, per fatti estranei alla società, egli emise un assegno di cui si è occupato il giudice penale, non lo riscosse.

Conclude asserendo che il danno segue al pagamento effettivo e, sempre con riguardo al caso riferito, riporta il testo di una lettera del menzionato professionista che riferisce di prestazioni riferibili alla società e da atto della restituzione del titolo perchè non onorato.

Il resistente deduce infondatezza del mezzo.

Il motivo è inammissibile.

La decisione impugnata sostiene che il danno derivato alla società dall’emissione della maggior parte degli assegni spiccati sul conto corrente bancario ad essa intestato risulta provato per tabulas – pagamenti ricevuti dal Consorzio Agrario Interprovinciale di Roma e Frosinone, dalla s.r.l. MS-. Per i restanti titoli era onere dell’appellante provare che non erano stati portati all’incasso. Non vi era infine la prova che l’Avv. Di Gravio non avesse riscosso la somma indicata nell’assegno emesso in suo favore, in quanto la missiva da cui emergerebbe la circostanza non era stata rinvenuta in atti. Il motivo non coglie il senso di tale ratio decidendi, avverso la quale non muove alcuna effettiva critica. La Corte territoriale non ha infatti confuso l’emissione degli assegni con il loro pagamento, ma ha solo più semplicemente rilevato che l’onere di provare le somme da essi portate non erano state pagate effettivamente, onere gravante sul convenuto, era rimasto irrisolto.

Il mezzo in esame non confuta la correttezza in jure di tale percorso logico, risultante del tutto immune da vizi giuridici. Argomenta piuttosto in fatto che l’Avv. Di Gravio non incassò l’assegno, e ciò riferendo irritualmente il testo di missiva, che non si obietta sia stata invece prodotta in sede di merito, come sarebbe stato necessario a smentita di quanto si afferma in sentenza, ma che si allega solo in questo giudizio, ove il richiamo al contesto storico dei fatti, laddove non sia già sottoposto al giudice di merito, non è ammissibile.

Tutto ciò premesso, il ricorso deve essere respinto con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che si liquidano in Euro 5.200,00.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento in favore dei resistenti delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 5.200,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2010

 

 

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