Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13437 del 01/07/2020

Cassazione civile sez. VI, 01/07/2020, (ud. 23/01/2020, dep. 01/07/2020), n.13437

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Anna Maria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30464-2018 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LEONE IV 99,

presso lo studio dell’avvocato BRUNO SPAGNA MUSSO, rappresentato e

difeso dall’avvocato MICHELE GELSOMINO;

– ricorrente –

contro

V.M.A., V.F., nella qualità di eredi di

S.C., S.P. in proprio e nella qualità di

Procuratore Generale dei figli S.L. e S.R.

e quale erede di S.V., S.M., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso lo studio

dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentati e difesi dall’avvocato

PASQUALE DI MALO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3515/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 13/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 23/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GRASSO

GIUSEPPE.

Fatto

FATTO E DIRITTO

ritenuto che la Corte d’appello di Napoli, in accoglimento dell’impugnazione proposta da S.M., S.P., S.L. e S.R., nonchè di V.M.A., riformata la sentenza di primo grado, rigettò la domanda con al quale C.A. aveva chiesto essere dichiarato proprietario per usucapione d’un immobile, condannando l’appellato al rilascio del bene;

ritenuto che ai fini di una più compiuta conoscenza della vicenda, per quel che qui assume ancora utilità, va ricordato che:

– il C. aveva citato in giudizio S.V., S.C., S.A., S.M. e S.P., perchè venisse dichiarato l’acquisto per usucapione di una porzione immobiliare collegata ad altra condotta in locazione e adibita a studio professionale (entrambe le unità erano di proprietà di S.V., nato il (OMISSIS) e deceduto il (OMISSIS)), porzione goduta in pieno possesso, unitamente a un garage, avendo versato al proprietario la complessiva somma di Lire 115.000.000, pur non essendosi poi fatto luogo all’atto di trasferimento;

– la Corte napoletana, pur negato che i S. avessero tempestivamente contestato la corrispondenza agli originali delle ricevute prodotte in fotocopia dal C., precisa che le firme apposte sui documenti in parola erano state formalmente e tempestivamente disconosciute, in quanto provenienti da terzi e “riconducibili solo genericamente alla “Amministrazione Immobiliare S. V.””, in quanto tali, a essi si sarebbe potuto assegnare semplice valore indiziario;

– esclude che l’appellato abbia provato di aver utilmente posseduto il bene, dovendosi riconoscere nell’allegata traditio mero effetto obbligatorio (come se fosse intercorso un contratto preliminare) e, di conseguenza una relazione con la res di mera detenzione, sia pure qualificata;

– scrutinate, poi, le risultanze probatorie (pag. 17 e segg.) esclude univocità delle stesse nel senso auspicato dall’appellato;

ritenuto che avverso la statuizione d’appello ricorre l’appellato, illustrando tre motivi di censura, ulteriormente illustrati da memoria, e che la controparte resiste con controricorso;

ritenuto che con i tre esposti motivi, tra loro osmotici, il ricorrente denunzia violazione degli artt. 115,116 e 132 c.p.c., e dell’art. 2697, c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, assumendo che:

– “manca una corretta valutazione da parte della Corte territoriale della sussistenza di detto animus possidendi nel senso di compimento di tutte le attività idonee comportanti un ius excludendi alios”, nel mentre il Tribunale, sulla base dei documenti e della prova testimoniale, aveva correttamente deciso;

– la sentenza si era lasciata “fuorviare dalla non pertinente questione dell’attendibilità e veridicità delle ricevute”, senza tener conto del carico probatorio del della parte convenuta, che avrebbe dovuto dimostrare che la disponibilità del bene era stata ceduta solo sulla base di un titolo personale;

– la decisione si presentava affetta da un grave vizio motivazionale, tale da essere ridotta a mera apparenza, “illogico” e “incomprensibile” costrutto;

considerato che le critiche sopra sunteggiate risultano manifestamente infondate per una convergente pluralità di autonome ragioni:

a) il ricorso, in primo luogo, invoca un improprio accertamento di merito da parte di questa Corte sulla base, peraltro, di una congetturata situazione di fatto non conoscibile in questa sede (difetto di specificità per mancanza di autosufficienza) e neppure sufficientemente esplicitata;

b) nella sostanza, peraltro neppure efficacemente dissimulata, l’insieme delle doglianze investe inammissibilmente l’apprezzamento delle prove effettuato dal giudice del merito, in questa sede non sindacabile, neppure attraverso l’escamotage dell’evocazione dell’art. 116 c.p.c., in quanto, come noto, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299);

c) del pari, la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., non ha pregio: non è dubbio che, nella fattispecie, escluso che fra le parti fosse stato stipulato un valido titolo traslativo e, peraltro, neppure un contratto preliminare, il quale, come il primo, riguardando beni immobili, avrebbe richiesto la forma scritta, sarebbe stato onere del ricorrente, il quale rivendica di aver utilmente posseduto al fine di cui all’art. 1158 c.c., dimostrare l’autonomia del proprio dominio, ad immagine della signoria piena del proprietario, se del caso provando di aver fatto luogo a uno degli atti di cui all’art. 1141 c.c., comma 2, essendo rimasto dimostrato di aver iniziato l’esercizio del potere sotto forma di detenzione (art. 11540 c.c., comma 1) e che si fosse trattato di detenzione, sia pure qualificata, lo si ricava dalla stessa narrazione del C., che assume di aver avuto la disponibilità dei beni dopo aver versato la somma che si è detto, situazione che, nella più favorevole delle ipotesi, lo avrebbe posto in una condizione assimilabile a quella del promissario acquirente, a cui venga concesso anticipatamente l’uso del bene;

d) le sommarie e largamente generiche critiche mosse alla valutazione delle emergenze probatorie, sotto l’usbergo dell’apparenza motivazionale risultano manifestamente infondate: la sentenza ha compiutamente dato conto del vaglio probatorio (pagg. 17-20);

e) il ricorrente propone censura della motivazione, in spregio al contenuto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, siccome novellato nel 2012, il quale consente il ricorso solo in presenza di omissione della motivazione su un punto controverso e decisivo (dovendosi assimilare alla vera e propria omissione le ipotesi di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione) – S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, ord., n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914), omissione che qui non si rileva affatto, siccome si trae inequivocamente da quanto sopra riportato, che fa escludere la ipotesi di una giustificazione motivazionale meramente apparente;

f) infine, è utile osservare che la denunzia di violazioni di legge non determina, per ciò stesso, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente;

considerato che, di conseguenza, siccome affermato dalle S.U. (sent. n. 7155, 21/3/2017, Rv. 643549), lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgersi relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, impone, come si desume in modo univoco dalla lettera della legge, una declaratoria d’inammissibilità, che può rilevare ai fini dell’art. 334 c.p.c., comma 2, sebbene sia fondata, alla stregua dell’art. 348-bis c.p.c. e dell’art. 606 c.p.p., su ragioni di merito, atteso che la funzione di filtro della disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti”;

considerato che le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi, in favore dei controricorrenti siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate;

considerato che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto;

PQM

dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei resistenti, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2020

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