Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13412 del 01/07/2020

Cassazione civile sez. lav., 01/07/2020, (ud. 18/02/2020, dep. 01/07/2020), n.13412

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 36240/2018 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BORGOGNONA 47,

presso lo studio dell’avvocato CARLO MIRABILE (STUDIO LEGALE

BRANCADORO MIRABILE), rappresentata e difesa dall’avvocato

MARIATERESA VITIELLO;

– ricorrente –

contro

D.C.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GLORIOSO

13, presso lo studio dell’avvocato ANDREA BUSSA, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato ROBERTO GIUSTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 879/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 23/10/2018 R.G.N. 604/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/02/2020 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato MARIATERESA VITIELLO;

udito l’Avvocato ANDREA BUSSA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Firenze, confermando la sentenza del Tribunale di Lucca, ha – con sentenza n. 879 depositata il 23.10.2018 – accolto la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa intimato da Poste Italiane s.p.a., in data 3.10.2015, a D.C.E., per aver posto in essere – in qualità di impiegata addetta al servizio Articolazione Servizi Innovativi (ASI) presso il CDM di (OMISSIS) e nel periodo giugno – luglio 2015 – irregolarità in 21 operazioni di vendita di servizi, omettendo di redigere la modulistica aziendale e di effettuare la rendicontazione sul sistema informativo aziendale e versando in ritardo o tramite il proprio superiore gerarchico i corrispettivi riscossi dai clienti (corrispettivi in un caso non riscossi e in altri 2 riscossi dal superiore sulla base della documentazione informale conservata dalla lavoratrice).

2. La Corte, circoscritta la valutazione alle infrazioni contestate e richiamate nella lettera di licenziamento, escludeva che i fatti contestati alla lavoratrice, pacificamente sussistenti, rientrassero nella previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) e c) del CCNL di settore, disposizioni relative alle ipotesi di licenziamento senza preavviso per “illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza della società o ad essa affidati…” e per “violazione dolosa di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o che abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi”, difettando l’intenzionalità di appropriarsi della documentazione aziendale e dei corrispettivi ricevuti dai clienti nonchè il forte pregiudizio e dovendosi, invece, ritenere integrata la previsione dell’art. 54, comma 3, lett. f), del CCNL concernente la sanzione conservativa della sospensione dal servizio e dalla retribuzione, con conseguente applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.

3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a sette motivi. La lavoratrice ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce nullità della sentenza (senza alcuna citazione, nemmeno nel contenuto del motivo, di norme di legge) avendo, la Corte distrettuale, trascurato il giudicato interno formatosi sul numero delle infrazioni oggetto di licenziamento, avendo – il Tribunale di Lucca – espresso un giudizio complessivo di negligenza della condotta tenuta dalla lavoratrice con conseguente irrilevanza (ai fini del requisito soggettivo) di ulteriori e protratte inadempienze.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia nullità della sentenza “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro” (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto irrilevanti le ulteriori irregolarità poste in essere dalla lavoratrice prima di giugno 2015 (“accertati nelle more della I fase del I grado e presentati al giudice in sede di reclamo”), trattandosi non di fatti nuovi e diversi bensì di inadempienze dello stesso tipo e tenore di quelle già contestaste alla dipendente.

3. Con il terzo motivo di ricorso si denunzia nullità della sentenza (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) avendo, la Corte distrettuale, ritenuto erroneamente che “a prescindere dalla condivisibilità dell’apprezzamento in termini di straordinaria gravità dell’accadimento… è comunque un fatto che una simile evenienza si sia nella fattispecie verificata una sola volta” e che “del tutto irrilevanti ai fini di causa le ulteriori violazioni che la reclamante assume commesse dalla lavoratrice prima del giugno 2015, in quanto mai contestate e affermate per la prima volta in sede di opposizione”, avendo dunque trascurato le ulteriori inadempienze poste in essere prima del giugno 2015 (e risalenti a sei mesi precedenti, per un totale di 150 casi).

4. Con il quarto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 54, comma 6, lett. c) del ccnl di settore (2011) (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte territoriale, errato nel ritenere quale elemento costitutivo della fattispecie il “forte preguidizio”, che è solamente eventuale (come si comprende dall’uso del verbo servile “potere”).

5. Con il quinto motivo si denunzia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro e manifesta contraddittorietà della motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5) avendo, la Corte territoriale, escluso la ricorrenza di un “forte pregiudizio” per poi ritenere applicabile una fattispecie contrattuale punita con sanzione conservativa (art. 54, comma 3, lett. f), che richiede, nei suoi elementi costitutivi, il pregiudizio.

6. Con il sesto motivo di ricorso si denunzia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte territoriale, escluso la ricorrenza di un profilo di dolo nonostante l’art. 54, comma 6, lett. a) del ccnl non faccia menzione di alcun elemento psicologico ai fini dell’integrazione della fattispecie.

7. Con il settimo motivo si denunzia violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte territoriale, errato nell’applicazione della tutela reintegratoria prevista dal novellato art. 18 della L. n. 300 del 1970 a fronte della elencazione meramente esemplificativa delle ipotesi di licenziamento effettuata dai contratti collettivi e della integrazione di un comportamento che, per la sua gravità, in ogni caso interrompa il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. La Corte territoriale ha trascurato la particolarità dei comportamenti, reiterati nel tempo, il notevole grado di affidamento riposto nella lavoratrice anche in considerazione della novità dei prodotti venduti alla clientela, il silenzio serbato dalla lavoratrice stessa sulle irregolarità risalenti nel tempo (ben oltre giugno 2015).

8. I primi tre motivi di ricorso – che possono trattarsi congiuntamente avendo ad oggetto le inadempienze poste in essere dalla lavoratrice prima del giugno 2015 – sono inammissibili e, per la parte residua, infondati.

Le censure sono prospettate con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto della lettera di licenziamento, delle lettere di contestazione degli addebiti disciplinari, del ricorso in opposizione L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).

Inoltre, le censure (anche ove si ritengano integrare gli archetipi legali dettati dall’art. 360 c.p.c., comma 1), non considerano che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (applicabile, ai sensi del cit. art. 54, comma 3, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata) rende denunciabile per cassazione solo il vizio di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, non essendo più, consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014). Nel caso di specie, nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, nè gli argomenti addotti a giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori, avendo, la Corte distrettuale, espressamente richiamato i principi di necessaria preliminare contestazione degli addebiti disciplinare nonchè di immutabilità della contestazione, rilevando, conseguentemente, che potevano costituire oggetto di giudizio solamente i fatti oggetto di contestazione disciplinare di cui alla lettera del 9.9.2015 richiamati nella lettera di licenziamento.

Inoltre, l’eccezione di violazione del giudicato (interno) prospettata dal ricorrente non appare fondata, dovendosi richiamare il principio, conforme all’insegnamento di questa Suprema Corte, secondo cui il giudicato interno può formarsi solo su di un capo autonomo di sentenza che risolva una questione avente una propria individualità ed autonomia, così da integrare una decisione del tutto indipendente e determinante ai fini dell’accertamento del diritto. Costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia non solo manca nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verte in tema di valutazione di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione (Cass. n. 23747 del 2008; Cass. n. 22863 del 2007; Cass. n. 27196 del 2006).

Nella specie, è del tutto evidente che il capo della sentenza – relativo alla sussistenza della negligenza degli episodi posti in essere dalla lavoratrice – sul quale si sarebbe formato il giudicato interno, non integra una decisione autonoma, ma piuttosto rappresenta un passaggio motivazionale della statuizione in concreto adottata. Ne consegue che la mancata specifica impugnazione del suddetto passaggio motivazionale non può certamente configurare una situazione di formazione di un giudicato interno e quindi non incide sull’ammissibilità del ricorso e ancor meno può essere configurata come causa della prospettata nullità della sentenza o di omessa pronuncia.

9. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso, che possono trattarsi congiuntamente per stretta connessione, non sono fondati.

L’art. 54, comma 6, lett. c), prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso in caso di “violazione dolosa di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o che abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi”.

La Corte distrettuale, considerate le allegazioni della società e tenendo conto di ogni aspetto concreto dei fatti, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della loro gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, ha escluso la ricorrenza di un forte pregiudizio per la società, anche di natura potenziale, rilevando che manca “nella specie il requisito del “forte pregiudizio alla società o a terzi” o del pericolo di un tale, qualificato, pregiudizio, che sarebbe stato onere di Poste allegare e dimostrare.” La Corte ha aggiunto che, da una parte, non era conseguito alcun danno effettivo alle condotte tenute dalla lavoratrice e, dall’altra, che la società non aveva evidenziato quale concreto pericolo “potesse comunque far seguito a irregolarità in ultima analisi idonee a determinare il ritardo nel completamento di alcune procedure di vendita di servizi” (pag. 7 della sentenza impugnata). Richiamato l’unico episodio nel quale vi era stato un reclamo di un cliente che non aveva rintracciato, sul sito informatico della società, le fatture delle operazioni compiute, la Corte ha concluso che restava “del tutto sfornita di prova anche solo l’astratta idoneità “fortemente” lesiva delle condotte de quibus”. Insomma, la Corte ha ritenuto ricorrente un danno per la società “quanto meno alla regolarità del servizio” ma – alla luce degli aspetti concreti afferenti alle irregolarità poste in essere – ha escluso che detto pregiudizio abbia assunto, sia in concreto sia potenzialmente, quel grado di intensità richiesto dalla clausola collettiva che prevede la sanzione espulsiva.

10. Il sesto motivo non è fondato.

L’art. 54, comma 6, lett. a) del ccnl settore Poste prevede la sanzione espulsiva in caso di “illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza della società o ad essa affidati…”.

La Corte distrettuale, valutando sia il profilo soggettivo che quello oggettivo, ha ritenuto di escludere la ricorrenza dei requisiti costitutivi della fattispecie, in particolare rilevando che – alla luce delle circostanze concrete che caratterizzavano la condotta della lavoratrice – non poteva ritenersi integrata una sottrazione di somme (i corrispettivi pagati dai clienti per i servizi) e di beni (la documentazione aziendale necessaria per completare le operazioni di vendita di servizi) posto che risultava che la lavoratrice aveva restituito esattamente le somme detenute presso di sè (prima di assentarsi per infortunio), aveva meticolosamente annotato su un brogliaccio tutte le operazioni da regolarizzare e i corrispettivi ricevuti, aveva fatto registrare le irregolarità più gravi pochi giorni prima dell’improvvisa interruzione del rapporto dimostrando l’attendibilità della prospettazione di una consueta regolarizzazione tardiva delle operazioni (resa impossibile per la sopravvenuta assenza).

11. Il settimo motivo non è fondato.

Giova richiamare i recenti arresti di questa Corte in materia di codice disciplinare dettato dai contratti collettivi e del rapporto con il sistema sanzionatorio novellato dalla L. n. 92 del 2012.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuZione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. n. 2013 del 2012 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. nn. 13574, 7948, 5095, 4060 del 2011).

In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass. 4060/2011 cit.).

Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 dei 2018; principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019; Cass. n. 14063 del 2019; v. anche Cass. n. 13865 del 2019), considerato altresì che la L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, art. 30, v. anche Cass. n. 25201 del 2016).

Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse “non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di unà sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).

In ordine ai criteri di interpretazione di un contratto collettivo ed alla previsione di una scala valoriale recepita dal contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dall’art. 1362 c.c., e ss., che sussiste il divieto di interpretazione analogica delle clausole contrattuali e che l’interpretazione estensiva è possibile solo ove risulti l'”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà, verifica che deve essere condotta con particolare severità in un contesto nel quale trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione (tutela reintegratoria nel testo della L. n. 300 del 1970, art. 18, come novellato dalla L. n. 92 del 2012) rispetto alla regola generale (tutela risarcitoria) deve essere interpretata restrittivamente. (Cass. n. 12365 del 2019 e ivi ampi riferimenti giurisprudenziali; conf. Cass. n. 31839 del 2019).

11.1. Tanto premesso, è conforme ai principi sopra richiamati l’operato della Corte distrettuale che ha accertato se sussisteva la nozione legale di giusta causa di licenziamento, anche alla luce delle fattispecie previste dal ccnl di settore e sulla base della scala valoriale ivi contenuta, e, pervenuta alla esclusione della ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, ha svolto – ai fini della scelta del sistema sanzionatorio da applicare – una disamina sulla ricorrenza delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4, per accedere alla tutela reintegratoria (dovendo, in assenza, applicare il regime generale costituito dalla c.d. tutela risarcitoria forte del comma 5).

12. In conclusione, il ricorso va respinto. Le spese di lite sono liquidate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

13. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1, quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 luglio 2020

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