Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13411 del 29/05/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 13411 Anno 2013
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: ARIENZO ROSA

SENTENZA
sul ricorso 17180-2008 proposto da:
POSTE

ITALIANE

S.P.A.,

in persona del

legale

rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA,
PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato
STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS, rappresentata e difesa
dall’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, giusta delega in
2013

atti;
– ricorrente –

1207

contro
ie

– PRISCO ROBERTO PASQUALE, elettivamente domiciliato
in ROMA, VIA GIOVANNI BETTOLO 4, presso lo studio

Data pubblicazione: 29/05/2013

dell’avvocato BROCHIERO MAGRONE FABRIZIO, che lo
rappresenta e difende giusta delega in atti;
– PATERNOSTRO ROBERTO, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’avvocato
• FONTANA GIUSEPPE, che lo rappresenta e difende

in atti;
– controricorrenti nonchè contro

MAGGIONI RAFFAELLA;
– intimata –

avverso la sentenza n. 543/2007 della CORTE D’APPELLO
di MILANO, depositata il 18/06/2007 r.g.n. 1872/05 +
altre;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 04/04/2013 dal Consigliere Dott. ROSA
ARIENZO;
udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega TRIFIRO’
SALVATORE;
udito l’Avvocato FABIO FONZO per delega GIUSEPPE
FONTANA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

unitamente all’avvocato MANGIA ENRICA, giusta delega

SVOIAIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 18.6.2007 la Corte di Appello di Milano confermava le decisioni di primo
grado appellate dalla società Poste Italiane, con le quali era stata accertata la nullità del
termine apposto ai contratti a tempo determinato stipulati con Prisco Roberto, Maggioni
Raffaella e Paternostro Roberto, con condanna della datrice di lavoro alla riammissione in
servizio dei predetti ed al pagamento delle retribuzioni da ciascuno di essi maturate dalla

Con riferimento alla Maggioni osservava la Corte del merito che, nell’assumere la predetta
con contratto del 22.4.1999 con richiamo all’art. 8 del c.c.n.l. del 26.11.1994, la società
aveva operato al di fuori dello strumento .derogatorio consentito dalla contrattazione
collettiva autorizzata dalla I. 56/87 che prevedeva una delega in bianco per l’individuazione
di nuove ipotesi di assunzioni a tempo determinato, individuato dalle parti sociali con
riferimento alle esigenze di carattere eccezionale conseguenti a processi di
riorganizzazione con il limite temporale del 30.4.1998. Rilevava che doveva rigettarsi
l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, non essendo stati addotti e
provati elementi ulteriori caratterizzanti il comportamento inerte delle parti dopo la
scadenza del termine.
Con riguardo alle posizioni del Prisco e del Paternostro, il primo contratto a termine
stipulato con i predetti era stato posto in essere con decorrenza rispettivamente il 2 e 3
luglio 2002, ossia successivamente all’entrata in vigore del d. Igs 368/2001 per esigenze
straordinarie conseguenti a processi di di riorganizzazione, nonché in attuazione delle
previsioni di cui agli accordi 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001, 11 gennaio, 13
febbraio e 17 aprile 2002, congiuntamente alla necessità di espletamento del servizio in
concomitanza di assenza per ferie contrattualmente dovute a tutto il personale nel periodo
estivo.
Riteneva la Corte di Milano che non potevano ritenersi integrate le ragioni di cui all’art. 1
del d. Igs 368 nel caso in cui si facesse valere una causale così ampia come quella della
ristrutturazione e che nel caso di specie la società aveva inserito nel contatto due delle
possibili causali, il che costituiva fonte di confusione. Alla stregua di tali considerazioni e
sul rilievo che anche con l’entrata in vigore del d. Igs 368/2001, emanato in attuazione
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data di messa in mora.

della direttiva Ce, il contratto a tempo indeterminato rappresentava la forma comune dei
rapporti di lavoro, osservava che le conseguenze della illegittima apposizione del termine
erano nel senso della conversione dei rapporti a tempo indeterminato e che nulla di
concreto la società aveva dedotto quanto all’aliunde perceptum e percipiendum.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la s.p.a. Poste Italiane con undici motivi,

La Maggioni è rimasta intimata. Si sono costituiti, con distinti controricorsi, il Prisco ed il
Paternostro, quest’ultimo depositando anche memoria illustrativa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la società denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372,
comma 2, c. c., ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. dolendosi dell’erronea valutazione, da
parte del giudice del gravame, del comportamento tenuto dalle parti contrattuali e
domanda, con specifico quesito, se, ai sensi dell’art. 1372 c. c., il comportamento inerte
delle parti avente durata e modalità tali da evidenziarne il completo disinteresse al
ripristino del rapporto di lavoro debba considerarsi quale mutuo consenso in ordine alla
cessazione di esso.
Con il secondo motivo, lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c. c. e degli
artt. 115, 116, 210 e 421 c.p.c., nonché omessa, contraddittoria e insufficiente
motivazione, ex ad 360, nn. 3 e 5, c.p.c., rilevando che essa società aveva richiesto in via
istruttoria ordine di esibizione del libretto di lavoro e di altra documentazione idonea
all’accertamento dei redditi percepiti dalla Maggioni dal 31.5.2002 in poi e reiterato in via
istruttoria le richieste già formulate in primo grado. Con quesito domanda se, ai sensi degli
art. 115, 116 e 210 c.p.c., il giudice sia tenuto a valutare tutte le prove dedotte, ovvero
possa ignorare le prove fornite e/o richieste da una parte, nonché se, ai sensi degli articoli
richiamati in rubrica, possa rigettare l’eccezione di scioglimento del rapporto per mutuo
consenso adducendo la mancanza di elementi ulteriori rispetto alla mera inerzia, senza
consentire alla parte oneratane di fornire la relativa prova, pure in presenza di specifica
istanza istruttoria formulata da quest’ultima, nella quale veniva espressamente chiesto di
acquisire documentazione che non poteva altrimenti ottenere.
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illustrati con memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Con il terzo motivo, la ricorrente si duole della contraddittorietà della motivazione circa un
fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5, c.p.c., osservando che la
sentenza impugnata ha prima riconosciuto e poi negato la pienezza della autonomia delle
parti sociali giudicando che la causale di cui all’art. 8 c.c.n.l. 1994 apposta ai contratti
sarebbe valida, ma al tempo stesso invalida a giustificare la legittimità della singola
assunzione a termine.

decisivo per il giudizio, ai sensi dell’ art. 360, n. 5, c.p.c., con riguardo alla ritenuta
introduzione di un rigido limite temporale di validità di una fattispecie pur in presenza della
delega “in bianco” in favore della contrattazione collettiva.
Coni li quinto motivo, ascrive alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione
degli artt. 1 e 2 della legge 18 aprile 1962 n. 230, nonché dell’art. 23 I. 56/87, ex art. 360,
n. 3, c.p.c riproponendo le medesime considerazioni di cui al precedente motivo con
riguardo al limite temporale ostativo alla stipula di contratti a termine, domandando se il
potere dei contraenti collettivi di individuare nuove ipotesi di assunzione a termine, in
aggiunta a quelle normativamente previste, stabilito dall’art. 23 I. 56/87, possa essere
esercitato senza limiti di tempo, tenuto conto che la suddetta legge non prevede alcun
limite temporale al riguardo.
Con il sesto motivo, la società denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.,
ai sensi dell’ art. 360, n. 3, c.p.c., assumendo che, per i contratti del Prisco e del
Paternostro, doveva aversi riguardo alla notoria situazione che determina il godimento di
ferie nel periodo giugno settembre, con presunzione di carenza di personale e domanda,
con quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., se, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., il godimento, da
parte del personale di ruolo, delle ferie nel periodo giugno- settembre costituisca fatto
notorio e quindi non occorra che venga specificamente dimostrato, richiamando, altresì, l’
art 35, comma 4°, del c.c.n.l.
Con il settimo motivo, la s.p.a Poste lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 23 I.
56 ./87 ex art. 360 n. 3 c.p.c., sostenendo che la causale di cui all’art. 8 c.c.n.l. 1994 sia di
carattere ampio e non possa essere sindacata nel merito e chiede se, ai fini della
legittimità di un’assunzione a termine per ferie effettuata ai sensi dell’art. 8 c.c.n.l.
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Con il quarto motivo, deduce contraddittoria della motivazione circa un fatto controverso e

26.11.1994 sia sufficiente la prova, che può trarsi da un fatto notorio, delle esigenze di
carattere generale dedotte nella causale del contratto (godimento di ferie nel periodo
giugno- settembre), senza che sia necessario fornire la dimostrazione del nesso causale
tra dette esigenze generali e la singola assunzione avvenuta nel singolo ufficio di
assegnazione del lavoratore.
Con l’ottavo, assume la omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il

sulla causale “esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di
riorganizzazione …” e che la società abbia ampiamente dedotto (producendo idonea
documentazione a sostegno) in merito alle ragioni di tale causale.
Con il nono, con il quale si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 23 della legge
56/87, ex art. 360 n. 3 c.p.c., osserva che la normativa contrattuale non preclude affatto la
possibilità di assunzione a termine motivata da più concorrenti ragioni e che è sufficiente
che sussista anche una delle esigenze generali dedotte nella causale del contratto
individuale, senza che sia necessaria la dimostrazione del nesso causale tra dette
esigenze generali e la singola assunzione avvenuta nel singolo ufficio di assegnazione del
lavoratore.
Il decimo motivo attiene alla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207,
1217, 1219 2094 e 2099 c. c., ex art. 360, n. 3, c.p.c., e con il quesito posto si domanda
se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore — a seguito
dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato — abbia diritto
al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che
abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione
lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e ss. c. c.
Contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360
n. 5 c.p.c. deduce la società, con l’ultimo motivo, con riguardo alla idoneità della richiesta
del tentativo obbligatorio di conciliazione a costituire valido atto di messa in mora.
Le censure avanzate con il primi due motivi non colgono nel segno, dovendo al riguardo
rilevarsi come questa Corte abbia più volte affermato che “nel giudizio instaurato ai fini del
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giudizio, ex art. 360 n. 5 c.p.c. rilevando che in alcun modo la sentenza abbia motivato

riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul
presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un “nel giudizio instaurato ai fini del
riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul
presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto,
affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario
che sia accertata — sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo

significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della
portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui
conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori
di diritto” (v. Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n.
23554, Cass. 11-12-2001 n. 15621).
Tale principio va enunciato anche in questa sede, rilevando, inoltre che, come pure è
stato precisato, “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo
consenso, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e
certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. Cass. 212-2002 n. 17070).
Nella specie la Corte d’Appello, confermando sul punto la sentenza del Tribunale, ha
osservato, con motivazione immune da vizi logico giuridici, che non vi era stato alcun
comportamento della lavoratrice che potesse far presumere una sua acquiescenza alla
risoluzione del rapporto e che il solo decorrere del tempo tra la cessazione di quest’ultimo
(31 maggio 2001) e la data di ricezione dell’atto di costituzione in mora del 7.1.2004 non
poteva essere in alcun modo interpretato come volontà di accettazione della risoluzione
per mutuo consenso. Quanto al rilievo circa la mancata valutazione delle istanze istruttorie
con le quali veniva richiesta la acquisizione di documentazione idonea a dimostrare che la
Maggioni aveva percepito redditi dal 31.5.2002 in poi, deve osservarsi che lo stesso risulta
formulato in dispregio del principio di autosufficienza, non riportandosi neanche il
contenuto preciso delle istanze istruttorie asseritamente avanzate e disattese dalla Corte
del merito, in ragione della ritenuta natura astratta delle enunciazioni che si intendevano
provare o in relazione alle quali era stato sollecitata l’attivazione di poteri istruttori d’ufficio.
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contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze

Gli ulteriori tre motivi, che attengono alla posizione della Maggioni, possano trattarsi
congiuntamente, atteso che con gli stessi viene dedotto, sia pure nella differente
articolazione di vizi di violazione di legge e di vizi motivazionali, che l’art. 8 del c.c.n.l. del
1994, così come integrato dall’accordo 25-9-97, subordinava la sua applicazione
unicamente all’esistenza di un processo di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti
occupazionali dell’azienda, sostenendosi in ragione di ciò che l’interpretazione di tale

23 della legge n. 56/1987, che ha condizionato anche la successiva esegesi della
disciplina contrattuale, anche dall’autonoma e concorrente violazione dei criteri di
interpretazione dei contratti. Le censure non possono essere accolte.
In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento
al sistema vigente anteriormente al d.lgs. n. 368 del 2001), sulla scia di Cass. S.U. 2-32006 n. 4588, è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23
della legge n. 56 del 1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine
rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro
idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite
della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a
quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di
individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di
riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad
assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063,v. anche Cass. 20-4-2006 n.
9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di
“delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari,
non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle
previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in
materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n.
21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

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accordo compiuta dalla Corte di Milano risulti viziata, oltre che dall’erronea lettura dell’art.

In tale quadro, ove, però, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive, la sua
inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre
Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte affermato, “in materia di assunzioni a
termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo
dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto

situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente
ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di
attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la
legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del
presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione
degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962 n.
230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass.
18378/2006 cit.).
Alla stregua di tale orientamento, ormai consolidato, deve quindi ritenersi illegittimo il
termine apposto al contratto in esame per il solo fatto che lo stesso è stato stipulato il
22.4.1999, successivamente alla data del 30 aprile 1998 ed è pertanto privo di presupposto
normativo. Né a diverse conclusioni può giungersi dall’esame dell’accordo del 18.1.2001,
ovvero della disposizione di cui all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, pure invocati dalle Poste a
sostegno del proprio assunto.
Si ha riguardo ad un accordo — stipulato ad oltre due anni di distanza dall’ultima prorogache non potrebbe coprire mai il “vuoto” normativo creatosi nel periodo precedente, rendendo
legittimi comportamenti posti in essere in contrasto con norme imperative di legge. Ed in
ogni caso il nuovo accordo non potrebbe mai travolgere diritti già acquisiti nel patrimonio di
terzi nel periodo intermedio (cfr. in termini Cass. n. 15331 del 7.8.2004).
Il sesto, il settimo l’ottavo ed il nono motivo attengono alle posizioni del Prisco e del
Paternostro, per i quali i contratti a termine risultano stipulati nel vigore del d. Igs. 368/2001
con riferimento ad una doppia causale. Al riguardo deve osservarsi che, come è stato
affermato da questa Corte e va qui ribadito, “l’indicazione di due o più ragioni legittimanti
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in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della

l’apposizione di un termine ad un unico contratto di lavoro non è in sè causa di illegittimità
del termine per contraddittorietà o incertezza della causa giustificatrice dello stesso,
restando tuttavia impregiudicata la valutazione di merito dell’effettività e coerenza delle
ragioni indicate” (v. Cass. 17-6-2008 n. 16396).
In particolare, come è stato precisato, “la legittimità della apposizione del termine al contratto
di lavoro ha sempre richiesto, sia nel regime della L. n. 230 del 1962, art. 1, che nella

concorrono due ragioni legittimanti è ben possibile che le parti, nel rispetto del criterio di
specificità, le indichino entrambe ove non sussista incompatibilità o intrinseca
contraddittorietà, ne’ ridondando ciò di per sè solo, salvo un diverso accertamento in
concreto, in incertezza della causa giustificatrice dell’apposizione del termine” (v. Cass. n.
16396/2008 cit. in motivazione).
Deve, pertanto, ritenersi che il giudice del merito non possa far discendere l’incertezza della
ragione giustificatrice dell’apposizione del termine dalla mera circostanza che nel contratto
siano indicate due distinte causali giustificatrici. Tale rilievo, tuttavia, non consente di
pervenire a conclusioni diverse da quelle adottate dal giudice del gravame, in quanto in
relazione alle esigenze sostitutive, contrariamente a quanto assume la società, non può
sostenersi la natura di fatto notorio del godimento delle ferie nel periodo giugno-settembre.
La circostanza avrebbe, invero, rilevanza con riferimento ai contratti stipulati ai sensi della
legge 56/87 e della conseguenze contrattazione collettiva che aveva specificamente
previsto la possibilità di apposizione del termini a contratti conclusi per esigenze sostitutive
del personale nel periodo suindicato, ma analoghe considerazioni non possono valere in
relazione a contratti stipulati nella vigenza del d. Igs 368/2001, attesa la diversa portata della
normativa che determina la necessità di provare che nel singolo ufficio sussistano le
esigenze sostitutive richiamate. Ed invero, è stato da questa Corte osservato che, in tema di
assunzione a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere sostitutivo, alla luce
della sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2009, con cui è stata dichiarata
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del
2001, l’onere di specificazione delle predette ragioni è correlato alla finalità di assicurare la
trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della
stessa nel corso del rapporto e che, pertanto, nelle situazioni aziendali complesse, in cui la
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disciplina successiva, l’esistenza di una condizione legittimante; ma se nel caso concreto

n

sostituzione non è riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica,
occasionalmente scoperta, l’apposizione del termine deve considerarsi legittima se
l’enunciazione dell’esigenza di sostituire lavoratori assenti – da sola insufficiente ad
assolvere l’onere di specificazione delle ragioni stesse – risulti integrata dall’indicazione di
elementi ulteriori (quali l’ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa,
le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di

identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza
effettiva del prospettato presupposto di legittimità (cfr. Cass. 26.1.2010 n. 1577). Sarebbe
stato onere della società, quindi, dimostrare il numero dei contratti a termine stipulati in
ciascuno dei mesi di durata del contratto a termine, mettere a confronto lo stesso con il
numero delle giornate di assenza per malattia, infortunio, ferie, del personale a tempo
indeterminato, al fine di consentire la valutazione di congruità del numero dei contratti
stipulati per esigenze sostitutive.
Anche l’ottavo ed il nono motivo di ricorso vanno disattesi in quanto, pur ammettendosi,
per quanto sopra argomentato, la possibilità di concorso di due causali, la censura, che si
fonda sull’assunto della non necessità della prova del nesso eziologico, potrebbe risultare
corretta solo per contratti stipulati con riferimento all’art. 25 del CCNL 11.1.01, in relazione
al quale la giurisprudenza di questa Corte ha legittimato l’interpretazione secondo cui il
legislatore ha conferito una delega in bianco ai soggetti collettivi, non imponendo al potere
di autonomia i limiti ricavabili dal sistema della L. n. 230 del 1962, ma consentendo alle
parti stipulanti di esprimersi secondo le specificita’ del settore produttivo e autorizzando
Poste Italiane s.p.a. a ricorrere (nei limiti della percentuale fissata) allo strumento del
contratto a termine, senza altre limitazioni (v. Cass. 26.9.07 n. 20157 e 20162, 1.10.07 n.
20608). Analoga impostazione non potrebbe essere valida, invece, per i contratti stipulati
nel nuovo regime del d. Igs 368/2001, ai sensi della cui normativa risultano stipulati i
contratti esaminati dalla Corte territoriale, in conformità alla quale va, dunque, compiuta la
valutazione in ordine alla legittimità del termine apposto. A tal fine è sufficiente richiamare
precedente di questa Corte n. 10033 del 27/04/2010, con il quale è stato affermato il
principio alla cui stregua l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita
dall’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 a fronte di ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di
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lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorchè non

inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo
circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni,
nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che
contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del
datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo
determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo

chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito
della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta, poi, al
giudice di merito accertare – con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da
vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità – la sussistenza di tali presupposti,
valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle
ragioni specificamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi
compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto
costitutivo del rapporto. Tanto premesso, deve rilevarsi che nella specie il giudice del
gravame ha escluso che il datore abbia assolto all’onere di indicare le ragioni giustificative
dell’apposizione del termine nel contratto di assunzione e che la doglianza delle Poste al
riguardo si fonda unicamente sulla tesi, non condivisa da questa Corte, della sufficienza
della prova in ordine alla sussistenza delle esigenze di carattere generale dedotte nella
causale dei contratti individuali, prova ritenuta correttamente non esaustiva dalla Corte del
merito.
Né, da parte della ricorrente, si fa riferimento al contenuto degli accordi sindacali richiamati
dalla causale dei contratti a termine del Prisco e del Paternostro, sicchè anche sotto tale
profilo non potrebbe sostenersi il valore integrativo della ragioni in tali accordi enunciate.
Con riguardo al decimo motivo, la ricorrente formula un quesito del tutto generico e
astratto, mancando qualsiasi riferimento all’errore di diritto pretesamente commesso dai
giudici nel caso concreto esaminato (in tal senso, sullo stesso quesito, v. Cass. n.ri 329,
330 e 331, tutte del 10-1-2011).
Anche del successivo motivo va rilevata l’inammissibilità, rivelandosi la relativa
prospettazione priva di autosufficienza, in quanto, pur evidenziandosi l’inidoneità della
richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione a configurare valido atto di messa in
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temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia

mora, non se ne riporta il contenuto, al fine di consentire alla Corte di valutare la
fondatezza del rilievo.
Infine, osserva il Collegio che, con la memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. la società
ricorrente invoca, in via subordinata, ma in modo inconferente, l’applicazione dello ius
superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5 0 , 6° e 7 0 della legge 4 novembre 2010

Va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare
nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo
pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del
controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8
maggio 2006 n. 10547, Cass. 27.2.2004 n. 4070). Tale condizione non sussiste nella
fattispecie, benché, con sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 siano state
dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5, 6 e 7,
della legge 4 novembre 2010, n. 183, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101,
102, 111 e 117, primo comma, della Costituzione.

Il ricorso va, in conclusione, respinto. Nulla va statuito sulle spese di lite del presente
giudizio in relazione alla Maggioni, rimasta intimata, laddove le spese sostenute dagli altri
due controricorrente, per la regola della soccombenza, vanno poste a carico della
ricorrente nella misura per ciascuno di essi liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società al pagamento in favore di ciascuno dei
controricorrenti costituiti delle spese di lite del presente giudizio, liquidate in euro 50,00 per
esborsi ed in euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.
Nulla nei confronti della Maggioni.
Così deciso in Roma, il 4.4.2013

n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010.

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