Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13385 del 17/06/2011

Cassazione civile sez. II, 17/06/2011, (ud. 20/04/2011, dep. 17/06/2011), n.13385

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ODDO Massimo – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – rel. Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. PROTO Cesare Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.G.E. (OMISSIS), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 74, presso lo studio

dell’avvocato LORIEDO CAMILLO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.F. (OMISSIS), C.E.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA LUCULLO 3,

presso lo studio dell’avvocato ADRAGNA NICOLA, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GELPI VITTORIO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 506/2005 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 23/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/04/2011 dal Consigliere Dott. ETTORE BUCCIANTE;

udito l’Avvocato Loriedo Camillo difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Adragna Nicola difensore dei resistenti che ha chiesto

il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CICCOLO Pasquale Paolo Maria che ha concluso per l’inammissibilità

del ricorso, in subordine il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 9 novembre 2000 il Tribunale di Como – adito da G.M., C.F. ed C.E. nei confronti di C.G.E., con domanda di riduzione delle disposizioni testamentarie del loro rispettivo marito e padre C.A. – dichiarò inammissibile la domanda della prima delle parti attrici (in quanto aveva beneficiato di un legato in sostituzione di legittima e non vi aveva rinunciato) e accolse quella delle altre, attribuendo a C.E. e a F. C., per reintegrare la legittima loro spettante, quote corrispondenti, rispettivamente, a L. 13.981.330 e a L. 78.781.330 degli immobili che erano stati assegnati dal defunto al convenuto.

Impugnata da C.G.E., la decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Milano, che con sentenza del 23 febbraio 2005 ha attribuito a C.F. la comproprietà degli immobili in questione per una quota pari a Euro 24.710,00 e ha dichiarato cessata la materia del contendere tra C.E. e C.G.E. (avendo il primo dichiarato di rinunciare alla propria domanda di reintegrazione).

C.G.E. ha proposto ricorso per cassazione contro tale sentenza, in base a diciassette motivi, poi illustrati anche con memoria. C.F. ed C.E. si sono costituiti con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I resistenti hanno contestato pregiudizialmente l’ammissibilità del ricorso, in quanto proposto anche nei confronti di E. C., osservando che nei confronti di costui è stata dichiarata cessata la materia del contendere in seguito alla sua rinuncia all’azione, sicchè è venuto meno ogni interesse alla prosecuzione del giudizio nei suoi confronti, da parte di G. C.E..

L’eccezione va respinta, poichè le questioni, sollevate con l’ottavo e l’undicesimo motivo di ricorso implicano la necessità di pronunce da adottare in contraddittorio anche con C.E..

Con il primo motivo di ricorso C.G.E. sostiene che il procedimento di primo grado e la relativa sentenza sono affetti da nullità insanabile e rilevabile di ufficio, non essendo stati depositati dagli attori l’originale dell’atto introduttivo del giudizio, con la procura e la relazione di notificazione.

L’assunto deve essere disatteso, poichè attiene a un presunto vizio che avrebbe dovuto essere fatto valere come motivo di gravame, per il principio di conversione sancito dall’art. 161 c.p.c.: la questione non è stata affrontata nella sentenza impugnata, nè il ricorrente deduce di averla prospettata nel promuovere il giudizio di appello.

Con il secondo motivo di ricorso si afferma che la domanda di riduzione proposta dagli attori avrebbe dovuto essere senz’altro rigettata, mancando in atti il testamento da cui sarebbe derivata la lesione da loro lamentata.

Neppure questa censura può essere accolta, essendo rimasto incontroverso tra le parti, in sede di merito, il contenuto dell’atto di ultima volontà di cui si tratta, dal quale peraltro lo stesso C.G.E. fa derivare il proprio vantato diritto a conseguire nella loro interezza i beni a lui assegnati dal padre.

Con il terzo motivo di ricorso C.G.E. si duole del rigetto della sua eccezione di difetto di legittimazione passiva, sostenendo che l’asserita lesione della legittima spettante a C.F. sarebbe semmai conseguita ad atti di disposizione del de cuius in favore non di lui stesso, ma di M. G. e di C.E..

La doglianza è infondata, poichè la legittimazione delle parti deve essere verificata alla stregua non della fondatezza in concreto della domanda, bensì della pertinenza in astratto all’attore e al convenuto del rapporto dedotto in giudizio: pertinenza sussistente nella specie, date le incontroverse qualità di legittimarla di C.F. e di beneficiario di disposizioni testamentarie di C.G.E..

Per ragioni di priorità logico-giuridica, deve essere ora esaminato il dodicesimo motivo di ricorso, dato il carattere preliminare e potenzialmente risolutivo della questione che vi è posta: sostiene C.G.E. che sua sorella C.F., contrariamente a quanto ha ritenuto la Corte di appello, aveva rinunciato ante causam alla reintegrazione nella legittima, sia con una lettera inviata a lui stesso, sia con l’esecuzione volontaria del testamento.

Anche questa censura va disattesa. Del documento che secondo C.G.E. avvalora il suo assunto è stata riportata nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza, soltanto la frase relativa all’intento di “rispettare la volontà testamentaria”, manifestato da C.F., ma non anche quella che secondo la resistente completava tale locuzione, mediante l’affermazione della necessità di “tener conto delle disposizioni di legge in merito alle quote di legittima per tutti gli eredi”. E’ poi corretto il giudizio di genericità formulato nella sentenza impugnata a proposito delle prove testimoniali dedotte sul punto dall’appellante, che in effetti si riferiscono, come risulta dalla trascrizione dei relativi capitoli nel ricorso, a dichiarazioni di contenuto imprecisato, che sarebbero state rese in circostanze e a persone indeterminate, nonchè a comportamenti in nessun modo specificati.

Altre questioni di natura pregiudiziale e assorbente sono quelle sollevate da C.G.E. nel contesto dell’undicesimo motivo di ricorso, in cui si afferma che la domanda di riduzione proposta da C.E. e C.F. avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, sia perchè non avevano accettato l’eredità con beneficio di inventario, sia perchè erano destinatari, come anche G.M., di legati in sostituzione di legittima.

La tesi non può essere accolta.

Sul primo punto la sentenza impugnata si basa su due distinti argomenti, ognuno di per sè sufficiente a giustificare la decisione:

la tardività dell’eccezione formulata dall’appellante e la sua infondatezza, ai sensi dell’art. 564 c.c., trattandosi di lasciti in favore di un coerede. Soltanto la prima di tali ragioni ha formato oggetto di contestazioni da parte del ricorrente, sicchè l’eventuale loro fondatezza non potrebbe portare per lui ad alcun risultato utile.

Sull’altra questione – contrariamente a quanto afferma C. G.E. – la Corte d’appello non ha affatto mancato di provvedere: ha rilevato che per le disposizioni in favore dei tre figli il testatore aveva utilizzato lo stesso termine lascio, sicchè era arbitrario attribuirgli significati diversi, in un caso di istituzione di erede, negli altri di attribuzione di legati. A questo rilievo nessuna obiezione è stata mossa dal ricorrente.

Con il quarto motivo di impugnazione C.G.E. sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto accogliere la sua eccezione di extrapetizione, basata sul rilievo che in due udienze istruttorie gli attori avevano chiesto di ottenere 1/6 dell’asse ereditario, mentre il primo giudice aveva poi destinato loro la quota di 2/3.

Anche questa censura va respinta, in quanto dalla sentenza impugnata risulta che la domanda, come proposta da C.E. e C.F. e ribadita in sede di precisazione delle conclusioni, aveva per oggetto l’attribuzione, “secondo la quota che risulterà di giustizia”, della comproprietà degli immobili lasciati dal padre esclusivamente a C.G.E..

Con il quinto motivo di ricorso si deduce che la Corte d’appello ha basato la decisione sulle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio invalida, in quanto redatta da un perito industriale anzichè da un ingegnere o architetto, che unicamente sarebbe stato competente a stimare immobili costruiti in cemento armato, come quelli oggetto della causa.

La censura è infondata, poichè “le norme relative alla scelta del consulente tecnico d’ufficio hanno natura e finalità esclusivamente direttive, essendo la scelta riservata, anche per quanto riguarda la categoria professionale di appartenenza del consulente e la competenza del medesimo a svolgere le indagini richieste, all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito; ne consegue che la decisione di affidare l’incarico ad un professionista (nella specie, geometra) iscritto ad un altro albo diverso da quello competente per la materia al quale si riferisce la consulenza (nella specie, ingegneri), ovvero non iscritto in alcun albo professionale, non è censurabile in sede di legittimità e non richiede specifica motivazione” (Cass. 12 marzo 2010 n. 6050).

Con il settimo e il tredicesimo motivo di ricorso C.G. E. lamenta che la sentenza impugnata ha ingiustificatamente aderito alle erronee conclusioni esposte dal consulente tecnico di ufficio, che erano state fondatamente contestate dall’appellante.

La doglianza non può essere accolta, poichè il giudice a quo ha dato conto, in maniera esauriente e logicamente coerente, delle ragioni per le quali, su ognuna delle questioni sollevate da C.G.E., ha disatteso le critiche che egli aveva rivolto all’elaborato peritale. Si verte dunque in tema di apprezzamenti eminentemente di inerito, che sono stati adeguatamente motivati e non possono pertanto formare oggetto di sindacato in questa sede: le diverse valuta-zioni propugnate dal ricorrente non costituiscono idonea ragione di cassazione della sentenza impugnata, stati i limiti propri del giudizio di legittimità.

Per analoga ragione deve essere respinto il nono motivo di ricorso, con cui si sostiene che la Corte d’appello ha erroneamente disconosciuto l’avvenuta donazione, da parte del de cuius; a M. G. e a C.F., di due terzi della somma depositata su un conto bancario cointestato a loro tre. Gli elementi offerti da C.G.E. a conforto di questo assunto sono stati motivatamente ritenuti insufficienti dal giudice a quo, alla cui valutazione non può questa Corte sostituirne una propria e contraria, come il ricorrente auspica.

Con il sesto, l’ottavo, il decimo, l’undicesimo (nella parte non ancora presa in esame), il quindicesimo e il sedicesimo motivo di ricorso C.G.E. rivolge alla sentenza impugnata essenzialmente una stessa censura: non essersi tenuto conto, nei calcoli compiuti per verificare l’effettività della lesione di legittima (e non essersi dato ingresso alle prove dedotte in proposito) nè della liberalità ricevuta da C.E. mediante un atto privo della forma prescritta e quindi nullo, nè della donazione di un immobile e di denaro, di cui a sua volta aveva beneficiato C.F., nè dei pesi ereditari e dei debiti del de cuius verso lo stesso C.G.E., la nuora B.E. ed altri.

La doglianza è fondata.

La Corte d’appello ha ritenuto precluse le suddette questioni a causa della loro novità, in quanto non avevano formato oggetto di domande riconvenzionali in primo grado. Si deve invece riconoscere che si tratta di semplici difese, proponibili in ogni fase della causa, poichè sia l’individuazione del relictum, da computare detraendone i pesi e debiti ereditari, sia quella del donatum, sia l’imputazione alla quota dell’attore di ciò che egli abbia ricevuto a titolo gratuito dal de cuius, sono operazione connaturali dei giudizi di reintegrazione nella legittima, alle quali si può e si deve dare corso, nei limiti in cui gli elementi acquisiti le consentono, indipendentemente dalla formale proposizione di domande riconvenzionali in tal senso da parte del convenuto. Il che vale anche per l’accertamento della nullità e della simulazione delle alienazioni dal de cuius a C.E. (cfr. Cass. 12 maggio 1999 n. 4698): accertamento dal quale, in caso di risultato positivo, sarebbe derivata la necessità di ricomprendere per intero nell’asse ereditario i beni trasferiti a C.E., con un negozio inidoneo, per difetto di forma, a farli uscire dal patrimonio dell’alienante. Invece, quanto alla donazione di denaro di cui pure, secondo il ricorrente, sarebbe stata destinataria C.F., la Corte d’appello non ha mancato di provvedere, poichè ha respinto la tesi sostenuta in proposito da C.G.E., come si è prima rilevato in ordine al nono motivo di ricorso.

Con il quattordicesimo motivo di impugnazione si sostiene che il giudice a quo ha quantificato in maniera erronea la quota di legittima spettante a C.F., poichè non ha tenuto conto di quella di pertinenza di G.M..

Anche questa censura è fondata.

La Corte d’appello – richiamando Cass. 11 febbraio 1995 n. 1592, secondo cui “in tema di divisione ereditaria, ai fini della determinazione della quota di riserva spettante ai discendenti in relazione alle varie ipotesi di concorso con altri legittimari, non deve farsi riferimento alla situazione teorica al momento dell’apertura della successione, ma alla situazione concreta degli eredi legittimi che effettivamente concorrono alla ripartizione dell’asse ereditario, sicchè, nell’ipotesi in cui il coniuge superstite abbia abdicato alla qualità di erede per aver accettato un legato in sostituzione della legittima (art. 551 c.c.), detta quota non va desunta dall’art. 542 in tema di concorso tra coniuge e figli, bensì dall’art. 537 c.c. relativo alla successione dei soli figli” – si è uniformata a uno degli opposti indirizzi che sul tema si erano delineato nella giurisprudenza di legittimità. Il contrasto, successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, è stato però composto da Cass. s.u. 9 giugno 2006 n. 13429, con cui si è ritenuto, in base a considerazioni di carattere testuale, sistematico e teleologico, che “ai fini dell’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari ed ai singoli legittimari nell’ambito della medesima categoria, occorre far riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento, per rinunzia o prescrizione, dell’azione di riduzione da parte di taluno dei legittimari”. Da questo principio non vi è ragione di discostarsi, stante la sua coerenza con la lettera e lo scopo delle disposizioni da cui è stato tratto. Ne discende che la quota riservata a C.F. avrebbe dovuto essere determinata tenendo conto anche di quella che sarebbe spettata a G.M., ove non vi avesse rinunciato preferendo di conseguire il legato in sostituzione di legittima destinatole dal de cuius, precludendosi così, per il disposto dell’art. 551 c.c., la possibilità di esercitare l’azione di riduzione.

Restano assorbiti – poichè attengono a questioni da risolvere secondo l’esito del giudizio di rinvio – sia l’undicesimo motivo di ricorso, nella parte in cui viene denunciata la mancata pronuncia sulla domanda di risarcimento di danni, proposta ex art. 96 c.p.c. da C.G.E. nei confronti di C.E., sia il diciassettesimo, con cui il ricorrente lamenta che la reintegrazione nella legittima di C.F. sia stata disposta in natura anzichè in denaro.

La sentenza impugnata deve dunque essere cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio ad altro giudice, che si designa in una diversa sezione della Corte d’appello di Milano, cui viene anche rimessa la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il settimo, il nono, in parte l’undicesimo, il dodicesimo e il tredicesimo motivo di ricorso; accoglie il sesto, l’ottavo, il decimo, in parte l’undicesimo, il quattordicesimo, il quindicesimo e il sedicesimo motivo di ricorso; dichiara assorbiti in parte l’undicesimo e il diciassettesimo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte; rinvia la causa ad atra sezione della Corte d’appello di Milano, cui rimette anche la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2011

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