Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13383 del 26/05/2017

Cassazione civile, sez. lav., 26/05/2017, (ud. 09/02/2017, dep.26/05/2017),  n. 13383

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27776-2015 proposto da:

ENI S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO, 23/A,

presso lo studio dell’avvocato GIAMPIERO PROIA, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato SIMONE PIETRO EMILIANI, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.A. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA VITO GIUSEPPE GALATI 100-C, presso lo studio dell’avvocato ENZO

GIARDIELLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIUSEPPE GIAMMARINO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6360/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 23/09/2015 r.g.n. 518/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA MARIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SIMONE EMILIANI;

udito l’Avvocato ENZO GIARDIELLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 1131/15 il Tribunale di Napoli, dichiarato risolto alla data del licenziamento disciplinare (ossia al 27.11.13) il rapporto di lavoro tra ENI S.p.A. e G.A., condannava la prima a pagare al secondo l’indennità di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, (nel testo novellato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1).

Con sentenza pubblicata il 23.9.15 la Corte d’appello di Napoli, in parziale riforma della pronuncia di prime cure, applicava in favore del lavoratore la tutela reintegratoria di cui al cit. art. 18, comma 4 con pagamento a carico della società di 20 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto.

Per la cassazione della sentenza ricorre ENI S.p.A. affidandosi a sette motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

L’intimato resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia violazione degli artt. 1175, 1375 e 2015 cod. civ., in relazione agli artt. 2 e 24 Cost. e agli artt. 594, 595 e 598 cod. pen., per non avere i giudici di merito ravvisato gli estremi della giusta causa di recesso nella condotta del lavoratore, che era stato licenziato per avere arrecato – nel difendersi, mediante lettera del 2.7.13, da una contestazione disciplinare – un ingiusto e grave nocumento all’onore, alla reputazione e all’immagine del suo superiore D.S. (che aveva accusato di svolgere una sorta di guerra personale nei suoi confronti) e della società nel suo complesso, accusando il predetto suo superiore di aver illegittimamente esercitato i propri poteri e di aver dolosamente intrapreso una guerra personale contro di lui; tale lettera di giustificazioni – prosegue il ricorso era stata fatta recapitare dal controricorrente non solo al suo superiore, ma anche all’organismo di vigilanza e ai superiori dello stesso D.S.; inoltre – continua la censura – all’origine della contestazione disciplinare vi era un inesistente stato di malattia del lavoratore, il che escludeva la prova della veridicità delle accuse da lui mosse al proprio superiore; il motivo prosegue con il negare che si sia trattato (contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale) di mero esercizio del diritto di difesa o di critica da parte del lavoratore incolpato in sede disciplinare, esercizio che presuppone pur sempre i requisiti di verità, continenza e pertinenza nelle affermazioni difensive.

Il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4, per non aver spiegato la sentenza impugnata se le accuse mosse dal lavoratore al suo superiore avessero rispettato o non il limite della continenza.

Il terzo motivo denuncia omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio, consistente nella veridicità o meno dell’accusa secondo cui il superiore dell’intimato gli avrebbe cagionato un’ingiusta lesione del suo stato di salute: anzi, la visita medica a tal fine disposta dalla società aveva escluso lo stato di malattia lamentato dal lavoratore, che poi non aveva proposto ricorso all’organo di vigilanza D.Lgs. n. 81 del 2008, ex art. 41, comma 9.

Il quarto motivo deduce violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, nella parte in cui la sentenza, nell’applicare la tutela reintegratoria, ha equiparato all’insussistenza del fatto, la diversa ipotesi dell’esistenza o meno d’una sproporzione tra infrazione contestata e sanzione applicata.

Il quinto motivo denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, che consente la tutela reintegratoria soltanto in caso di insussistenza materiale del fatto contestato.

Con il sesto motivo si lamenta violazione dell’art. 2119 cod. civ. e L. n. 604 del 1966, art. 1 nella parte in cui la sentenza non ha ravvisato nella condotta contestata al lavoratore un notevole inadempimento dei suoi obblighi.

Il settimo motivo deduce violazione della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, in relazione al c.c.n.l. energia e petrolio, per non avere la Corte territoriale considerato che tale contratto prevede la sanzione del licenziamento non solo per insubordinazione, ma anche per azioni considerate delittuose a termini di legge e per tutte le altre gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel lavoro e comunque per ogni ipotesi di inadempimento che, per la sua gravità, importi sanzione espulsiva.

2. Il primo, il secondo, il sesto e il settimo motivo da esaminarsi congiuntamente perchè connessi – sono infondati.

Contrariamente a quanto suppone la società ricorrente, l’esercizio del diritto di difesa – coperto da intangibile garanzia, grazie all’art. 24 Cost., anche in sede di procedimento disciplinare L. n. 300 del 1970, ex art. 7 – non è affatto condizionato ai requisiti di verità, continenza e pertinenza, requisiti che invece attengono all’esercizio di ben diverso diritto (quello di cronaca) e servono a scriminarne eventuali profili di diffamazione.

Nè può ritenersi (come la stessa sentenza impugnata sembra suggerire, con motivazione che però va sul punto corretta ex art. 384 c.p.c., comma 4) che nella lettera di giustificazioni disciplinari il lavoratore abbia altresì mosso delle critiche alla società e al suo superiore: è un’operazione interpretativa che scinde e legge in maniera atomistica il tenore della missiva, che invece va valutato nel suo insieme e alla luce della dichiarata finalità difensiva.

Nè peraltro – sia detto per mera completezza espositiva – il ravvisare un esercizio del diritto di critica gioverebbe alla società ricorrente, atteso che tale diritto può incontrare solo i limiti della pertinenza e della continenza.

E’ noto che il diritto di critica non si risolve, come quello di cronaca, nella narrazione veritiera di fatti, ma si esprime mediante un giudizio o un’opinione su cose o persone, opinione che, proprio perchè tale, non può essere rigorosamente valutata in termini di verità e obiettività (cfr. Cass. n. 13646/06).

In altre parole, rispetto ad una critica (per sua natura soggettiva, essendo espressione di convincimenti e valutazioni personali del dichiarante) neppure si pone l’alternativa vero/falso, che rileva – invece – nell’esercizio del diritto di cronaca (estraneo alla vicenda in esame).

Al più nell’esercizio del diritto di critica (che, giova ribadire, non è configurabile nel caso di specie, versandosi in tema di esercizio del diritto di difesa) può pretendersi la verità (sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive) solo dei fatti presupposti e oggetto della critica medesima (cfr. Cass. n. 7847/11).

Ma nel caso di specie l’illegittimo esercizio del diritto di critica (che, secondo la ricorrente, sarebbe consistito nell’avere il lavoratore sostenuto di essere vittima d’una guerra personale mossagli dal superiore) partirebbe da presupposti di fatto storicamente pacifici tra le parti (le iniziative disciplinari adottate nei confronti dell’odierno controricorrente), controversi solo nella loro valutazione (e su ciò legittimamente potrebbe esercitarsi il diritto di critica).

Indubbio, poi, sarebbe nel caso di specie il requisito della pertinenza delle affermazioni secondo cui G.A. sarebbe stato vittima d’una guerra personale mossagli dal superiore, requisito insito nell’esigenza del lavoratore di difendersi dimostrando l’infondatezza dell’addebito e spiegando quella che egli riteneva esserne la vera origine.

Del pari indubbia sarebbe la continenza delle espressioni adoperate, avendo la sentenza impugnata espressamente affermato – contrariamente a quanto suppone la società – che i modi usati dall’odierno controricorrente sono stati “assolutamente urbani e mai volgari”: ciò esclude in radice qualsivoglia ipotesi di violazione dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4.

Ma ad ogni modo su ciò fa premio, giova rimarcare, che quello dell’odierno controricorrente è stato solo un legittimo esercizio del diritto di difesa, di guisa che va escluso che i fatti ascrittigli nella lettera di contestazione possano configurare (v. sesto motivo) inadempimenti contrattuali di sorta (perchè qui iure suo utitur neminem laedit) o – peggio – azioni delittuose (v. settimo motivo).

E sempre nell’ambito della suddetta finalità difensiva si colloca anche la trasmissione della lettera di giustificazioni all’organismo di vigilanza e ai superiori del D.S., dai quali l’odierno controricorrente chiedeva di essere tutelato.

Da ultimo, è appena il caso di segnalare l’irrilevanza ai presenti fini dell’esistenza o meno del precedente stato di malattia del lavoratore, atteso che la contestazione disciplinare oggetto della presente lite (e che ha dato causa al licenziamento) è riferita ad altro, ossia al contenuto della lettera di giustificazioni.

3. Il terzo motivo va disatteso per due concorrenti e autonome ragioni.

In primo luogo va disatteso in virtù del preliminare e dirimente rilievo che la censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non è stata dedotta ritualmente secondo quanto sancito da Cass. S.U. n. 8053/14 (e dalle successive pronunce conformi) in tema di oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4: il ricorso – secondo tale costante giurisprudenza – deve non solo indicare chiaramente il fatto storico del cui mancato esame ci si duole e il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, ma anche il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.

Quest’ultimo onere non è stato rispettato nel caso di specie.

In secondo luogo, ove pure si volesse supporre che l’avere G.A. espresso il proprio convincimento di essersi ammalato a cagione delle altrui vessazioni (in sentenza si legge di precedenti licenziamenti irrogatigli e dichiarati illegittimi dal Tribunale e di un patito demansionamento) integri astrattamente gli estremi del delitto di diffamazione o di altro reato (il che non è), ad ogni modo esso resterebbe pur sempre scriminato dall’esercizio d’un diritto (v. art. 51 cod. pen.) – vale a dire quello di difesa (v. paragrafo che precede sub 2.) -, esimente che ha validità generale nell’ordinamento, non limitata al mero ambito penalistico (cfr. Cass. n. 25682/14).

Nella contraria ipotesi, non si vede come sarebbe possibile difendersi in sede disciplinare negando gli addebiti, perchè ciò di per sè potrebbe essere sempre letto come implicita Accusa di abusi da parte del datore di lavoro e, per ciò solo, fungere da fonte di ulteriore responsabilità disciplinare e/o penale.

In altre parole, il diritto di difesa (di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e art. 24 Cost.) da garanzia per l’incolpato si trasformerebbe sempre, di fatto, in ulteriore occasione di responsabilità anche se esercitato in modo civile, pertinente e continente.

D’altronde, diversamente opinando, per simmetria dovrebbe ritenersi del pari non scriminato dall’esercizio di altro diritto (quello relativo al potere disciplinare, riconosciuto al datore di lavoro dall’art. 2106 cod. civ.) già il solo fatto di attribuire al dipendente condotte dolose astrattamente suscettibili di integrare gli estremi d’un reato (oltre che d’una infrazione disciplinare).

Ma – a tutta evidenza – in tal modo si darebbe luogo a scenari giuridicamente contraddittori e insensati.

4. Il quarto motivo è infondato: è pur vero che nella motivazione della sentenza impugnata si leggono affermazioni di non gravità del fatto.

Nondimeno, ne seguono altre in termini di “esercizio legittimo del diritto di difesa” (il che esclude, come s’è detto, ogni sia pur minima rilevanza disciplinare della condotta contestata), di “oggettiva inesistenza giuridica e fattuale” di quanto ascritto all’odierno controricorrente, di insubordinazione “inesistente”, di “carenza totale di prova dei motivi di recesso”.

Pertanto, dalla lettura complessiva e unitaria della motivazione emerge sostanzialmente che la Corte territoriale non ha ravvisato nella condotta di G.A. alcun profilo di illiceità disciplinare o di altro genere e, quindi, questione alcuna di sproporzione tra sanzione e fatto.

5. Anche il quinto motivo è infondato.

Si premetta che dell’art. 18, il comma 4 deve intendersi come riferito a fatti ontologicamente disciplinari.

Ciò si desume non solo e non tanto dal rilievo che la norma si esprime in termini di fatto “contestato”, quanto dal riferimento, immediatamente successivo, alle “… condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili…”.

Ora, la lettera del comma 4 non lascia margini di dubbio circa l’applicabilità della tutela reintegratoria c.d. attenuata in caso di licenziamento intimato per una condotta punibile (in virtù di contratti collettivi o codici disciplinari) con mera sanzione conservativa.

Più problematico è, invece, il significato della locuzione “insussistenza del fatto contestato”, da interpretarsi o come inesistenza (anche solo giuridica) del fatto o come inesistenza del fatto materiale (o mero fatto).

Secondo la prima opzione ermeneutica la reintegra nella forma c.d. attenuata di cui al cit. art. 18, comma 4 spetterebbe sia quando il,fatto materiale si riveli insussistente sia quando, pur esistente, nondimeno non presenti profili di illiceità.

In altre parole, l’insussistenza del fatto contestato, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, comprenderebbe anche quella del fatto materialmente sussistente, ma non illecito, non essendo plausibile che il legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione.

La seconda opzione riserva, invece, la tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 cit. alla sola evenienza dell’insussistenza materiale del fatto, di guisa che, ove esso materialmente sussista (pur non integrando gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo), ai sensi del comma 5 sarebbe dovuta la mera tutela indennitaria (ancorchè c.d. forte).

La prima opzione è quella accolta, in sede di legittimità, da Cass. n. 18418/16, Cass. n. 20540/15 e Cass. n. 20545/15.

Nello stesso senso è anche Cass. n. 10019/16, sia pure con una particolare posizione, solo accennata, sul tema della proporzionalità.

In senso difforme è Cass. n. 23669/14, che però, essendo riferita ad un’ipotesi di insussistenza materiale del fatto contestato, pacificamente rientrante nella tutela reintegratoria c.d. attenuata, non procede oltre nell’interpretazione della norma, di guisa che il riferimento al fatto materiale come oggetto della disposizione in commento sembra essere più un mero obiter dictum.

Ritiene questa Corte di condividere la prima opzione interpretativa, secondo la quale nella locuzione “insussistenza del fatto contestato” il fatto deve intendersi in senso giuridico e non meramente materiale.

In primo luogo, va tenuto presente che il mero fatto come giustamente osservato da certa dottrina – non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data norma. Non lo si può apprezzare e non può produrre effetti giuridici senza riferimenti normativi. Diversamente, per definizione ricade nell’irrilevante giuridico.

Ad analogo risultato conduce l’approccio ermeneutico sotto una visuale strettamente processualistica.

Per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 141/06) giusta causa o giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni (non a caso, L. n. 604 del 1966, ex art. 5 la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di lavoro).

E tutte le eccezioni, proprio perchè tali, sono composte da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significatività giuridica (in termini di impedimento, estinzione o modificazione della pretesa azionata dall’attore).

In altre parole, per sua stessa natura l’eccezione non ha mai ad oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.

Lo stesso punto d’arrivo è suggerito in un’ottica sostanzialistica e di coerenza interna del vigente art. 18 Stat., nonchè di compatibilità costituzionale.

Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale si otterrebbe l’illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all’art. 18, comma 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita.

L’esito sarebbe quello d’una irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., oltre che d’una intrinseca e inspiegabile aporia all’interno della medesima disposizione di legge.

6. In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare in favore del controricorrente le spese del, giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2017

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