Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13367 del 26/05/2017
Cassazione civile, sez. I, 26/05/2017, (ud. 23/03/2017, dep.26/05/2017), n. 13367
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPPI Aniello – Presidente –
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –
Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –
Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
G.F., G.M., GA.MA., G.E., in
proprio e quali eredi di A.G. e G.C., rappr. e
dif. dall’avv. Piergiorgio Finocchiaro e dall’avv. Piero Paternò
Ragusa, elett. dom. in Roma, presso lo studio del secondo, in via
Monte Sacro n. 25, come da procura a margine dell’atto;
– ricorrenti –
contro
FALLIMENTO (OMISSIS) s.r.l., in pers. del curatore fall., rappr. e
dif. dall’avv. D.C.V., elett. dom. presso l’avv.
Giovanni Magnano San Lio, in Roma, via dei Gracchi n. 187, come da
procura a margine dell’atto;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza App. Catania 24.7.2010, n. 909/10 in
R.G. n. 1837/08;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del
giorno 23 marzo 2017 dal Consigliere relatore Dott. Massimo Ferro;
viste le memorie dell’avvocato V. Di Cataldo per il controricorrente;
il Collegio autorizza la redazione del provvedimento in forma
semplificata, giusta decreto 14 settembre 2016, n. 136/2016 del
Primo Presidente.
Fatto
FATTI DI CAUSA
Rilevato che:
1. G.F., G.M., Ga.Ma., G.E., in proprio e come eredi di A.G. e G.C. impugnano la sentenza App. Catania 24.7.2010, n. 909/10 in R.G. 1837/2008, con cui è stato respinto il proprio appello avverso la sentenza Trib. Catania 28.9.2007, n. 3403/07, in ciò confermando la dichiarazione di responsabilità dei medesimi, nella qualità citata di eredi di A.G., già amministratrice della società fallita (OMISSIS) s.r.l., con condanna al risarcimento del danno verso il fallimento attore per euRo 268.815,82, in proporzione alle rispettive quote ereditarie;
2. per la corte, l’effettuazione di rilevanti vendite sottocosto, non altrimenti e tempestivamente giustificate dagli appellanti, era da porsi in corretta relazione causale con il dissesto, dato che vi era una sostanziale equivalenza – per come ricostruita dalla c.t.u. – tra debiti contabilizzati e valore di magazzino, così che una siffatta liquidazione avrebbe integrato la venuta meno della integrità del patrimonio sociale;
3. il danno era stato determinato, pur se in misura maggiore della differenza tra attivo e passivo fallimentare, secondo un’imputazione specifica del pregiudizio finale subito dalla citata operazione, affermazione già del primo giudice e non sottoposta a censura specifica;
4. veniva poi respinto l’appello incidentale del fallimento, volto alla domanda di responsabilità estesa ad altri addebiti, non essendo stato provato che la pur dimostrata mancata redazione dell’inventario iniziale fosse in relazione causale con uno specifico pregiudizio, posto che la contabilità era stata comunque ricostruita e l’esercizio relativo del 1991 si era chiuso in attivo; la medesima conclusione concerneva l’omessa sottoscrizione degli inventari annuali e dei verbali di assemblea dei soci, mentre non risultavano nuove operazioni nel 1994, dopo la perdita del capitale, ad eccezione della già contestata vendita sottocosto;
5. con quattro motivi si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’erroneità del provvedimento ove ha: a) condiviso il giudizio del tribunale di tardività della difesa sulla giustificazione quale vetustà della merce venduta sottocosto, solo perchè dedotta in comparsa conclusionale; b) negato la notorietà del fatto per cui normalmente le vendite sottocosto sono praticate dalle imprese nell’imminenza della cessazione dell’attività; c) ricostruito il nesso eziologico tra vendita sottocosto e dissesto, posto. che la prima circostanza viene assunta proprio per evitare il secondo, specie a fronte di merce che altrimenti (come nel settore della moda) diviene obsoleta; d) trascurato che nessuna qualificazione di mala gestio era stata conferita alla svendita e nessuna omogeneità sussisteva tra il valore delle merci acquistate e quelle rinvenute poi dal fallimento.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
Considerato che:
1. il primo motivo è inammissibile, poichè la censurata tardività dell’ampliamento del thema decidendum, per come ricostruita dai giudici di merito, non è stata ripresa in questa sede mediante una ordinata e specifica individuazione di quelle circostanze di fatto, attinenti alla vetustà della merce, che ne avrebbero giustificato una regolare vendita sottocosto e la cui decisività sarebbe stata trascurata dalla corte; in ogni caso secondo la giurisprudenza non rileva neppure l’omessa pronuncia su una domanda inammissibile e a maggior ragione su una mera deduzione difensiva generica (Cass. 12412/2006);
2. il secondo motivo è inammissibile, censurandosi un apprezzamento di fatto solo genericamente ora contrastato, apparendo logica l’obiezione della corte ove ha opposto agli appellanti principali che l’invocazione di una presunta prassi di vendita sottocosto da parte degli operatori a fine attività costituisce una mera tesi, dunque non di per sè prova del secondo fenomeno, di cui non sono stati forniti al giudice di merito più puntuali elementi integrativi;
3.il terzo motivo è inammissibile, costituendo apprezzamento di fatto la circostanza che il realizzo sottocosto integrava direttamente il depauperamento del patrimonio sociale e il dissesto, come attestato dal confronto tra i debiti in allora ed il valore di quell’attivo, del tutto abbassato dalla citata operazione;
4. il quarto motivo, attinente a principio correttamente richiamato dalla corte e non contestato per la sua applicabilità (Cass. s.u. 9100/2015), è parimenti inammissibile, involgendo un insindacabile apprezzamento di fatto, su cui il giudice di merito correttamente ha esercitato uno scrutinio di collegamento tra la condotta depauperativi e la finale determinazione del pregiudizio, i cui termini di riferimento sono stati utilizzati come parametri per individuare la diversa entità dell’attivo che sarebbe stata conseguita ove quell’operazione non si fosse tenuta, considerando il patrimonio residuato nel finale attivo concorsuale.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, conseguendone la condanna dei ricorrenti alle spese del procedimento, come da liquidazione esplicitata in dispositivo.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso, condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento, liquidate in Euro 7.200 (di cui Euro 200 per esborsi), oltre al 15% a forfait su compensi e agli accessori di legge.
Motivazione semplificata.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 marzo 2017.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2017