Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13349 del 18/05/2021

Cassazione civile sez. trib., 18/05/2021, (ud. 08/02/2021, dep. 18/05/2021), n.13349

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7678 del ruolo generale dell’anno 2014

proposto da:

GE Power Controls Italia s.r.l., in persona del legale

rappresentante, rappresentata e difesa, per procura speciale a

margine del ricorso, dagli Avv.ti Angelo Ciavarella e Rita

Imbrioscia, elettivamente domiciliata in Roma, via Beethoven, n. 52,

presso lo studio di quest’ultimo difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 138/11/13, depositata in data 26

settembre 2013;

udita la relazione svolta nella camera di Consiglio del giorno 8

febbraio 2021 dal Consigliere Triscari Giancarlo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Ge Power Controls Italia s.r.l. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno di imposta 2005, aveva contestato il mancato assoggettamento ad Iva su alcune fatture emesse nei confronti di EI. Ital. S.r.l., in quanto non correttamente le operazioni di vendita erano state considerate non imponibili ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 58, posto che era stato accertato che la merce, dopo essere stata trasportata in Germania, era ritornata in Italia; avverso l’atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Milano; avverso la decisione del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: non sussisteva nel giudizio un litisconsorzio necessario con la società cessionaria EI. Ital. S.r.l; non sussistevano i presupposti per l’applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 58, in quanto non vi era stata alcuna triangolazione, come era confermato dal fatto che la cessionaria aveva provveduto al pagamento dell’imposta;

la società ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a tre motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 58;

in particolare, parte ricorrente evidenzia che, ai fini dell’applicabilità della previsione di cui all’art. 58, cit., era necessario verificare che fin dall’origine l’operazione era stata voluta come cessione nazionale in vista di un trasporto a un cessionario residente in altro paese membro, sicchè, per il cedente, era sufficiente dare la prova di avere provveduto a trasportare i beni direttamente nel paese di destinazione, non potendosi dare rilevanza alla circostanza che, successivamente al perfezionamento della triangolazione comunitaria, il materiale fosse rientrato in Italia, non costituendo fatto imputabile alla ricorrente, poichè ascrivibile unicamente al rapporto sottostante tra la cessionaria e la destinataria e fuori dal proprio potere di controllo;

evidenzia, inoltre, che la circostanza che la controparte EI. Ital s.r.l. aveva riconosciuto che la responsabilità era addebitale unicamente a se stessa, provvedendo al pagamento di quanto richiesto con l’atto di contestazione alla stessa inviato, costituiva argomento a favore della tesi della ricorrente;

il motivo è infondato;

è fatto certo e non contestato che la merce, ceduta dalla ricorrente a EI. Ital s.r.l. e traportata in Germania su incarico della cessionaria, è stata poi reintrodotta in Italia da parte della società destinataria presso la medesima cessionaria;

va quindi osservato che il D.L. n. 331 del 1993, art. 58, prevede espressamente la non imponibilità dell’Iva delle operazioni di cessione di beni, anche tramite commissionari, effettuate nei confronti di cessionari o commissionari di questi, se i beni sono trasportati o spediti in altro Stato membro a cura o a nome del cedente, anche per incarico dei propri cessionari o commissionari di questi;

la “ratio legis” che giustifica la non imponibilità delle operazioni di cessione intracomunitarie od alla esportazione va individuata nella incentivazione delle esportazioni dei prodotti nazionali o comunitari ed è rivolta ad evitare doppie imposizioni (relativamente alle operazioni di cessione intracomunitarie tra soggetti passivi, la disciplina “temporanea” degli scambi tra Paesi UE, in vigore fino a che non verrà introdotto il regime fiscale definitivo, prevede infatti il principio dell’assoggettamento ad IVA nel Paese di destinazione: cfr. Corte giustizia in data 27.9.2007, C-184/05, Twoh International BV, punto 22), venendo ad essere considerato lo scambio intermedio del bene (tra fornitore e primo cessionario) in funzione meramente strumentale – e dunque regolato fiscalmente in modo analogo – alla operazione di cessione attuata con il trasferimento del bene al destinatario estero o comunitario;

in questo contesto, dunque, la spedizione od il trasporto materiale del bene oltre il territorio doganale dello Stato in cui è residente il cedente costituisce condizione necessaria affinchè possa ritenersi realizzata la operazione di cessione non imponibile che costituisce l’oggetto della previsione normativa;

correttamente, dunque, il giudice del gravame ha ritenuto che il successivo rientro della merce in Italia in favore della medesima cessionaria costituiva fatto impeditivo della applicabilità del regime di non imponibilità in esame;

nè può rilevare la considerazione espressa dalla ricorrente circa la propria estraneità in ordine al comportamento successivo della cessionaria;

invero, questa Corte ha precisato che “per beneficiare della non imponibilità IVA, il bene oggetto della cessione nazionale deve essere materialmente trasferito fuori del territorio doganale della Comunità ovvero deve essere materialmente introdotto all’interno del territorio del Paese membro ove risiede il soggetto destinatario: la prova dell’effettivo trasferimento della merce deve essere fornita dal fornitore-cedente in quanto, in difetto di tale condizione, riacquista rilevanza fiscale la operazione di cessione conclusa tra cedente e primo acquirente, in quanto venendo meno il collegamento funzionale con la operazione intracomunitaria od alla esportazione, detta operazione viene ad essere imponibile essendosi verificata la condizione di territorialità della imposta, e nei confronti del cedente insorge pertanto la obbligazione tributaria essendo lo stesso tenuto al versamento dell’IVA evasa, anche nel caso in cui il mancato trasferimento del bene nel Paese comunitario od estero sia dipeso da illecita condotta del soggetto – acquirente, salvo che il fornitore dimostri la propria completa estraneità alla frode e di aver fatto incolpevole affidamento sulla liceità della operazione in quanto, pure avendo prestato la massima diligenza richiesta ad un esperto del settore, non sia stato tuttavia in grado di rilevare e prevenire la frode (Cass. civ., 27 settembre 2013, n. 22172; Cass. civ., 27 ottobre 2010 n. 21956; Cass. civ., 7 ottobre 2011 n. 20575; Cass. civ., 11 maggio 2012 n. 7389; Cass. civ., 27 luglio 2012, n. 13457);

in sostanza, laddove il cedente intenda avvalersi del regime di non imponibilità previsto dal D.L. n. 331 del 1993, art. 58, lo stesso non solo deve dare prova della originaria intenzione del cedente e del cessionario di destinare la merce acquistata ad un terzo residente in altro Paese membro, ma anche, laddove non si realizzi il presupposto del trasferimento delle merce in quanto la stessa, pur essendo uscita dal territorio nazionale, è stata successivamente fatta rientrare presso il medesimo cessionario, che il venire meno del suddetto presupposto sia avvenuto per fatto a sè non imputabile, avendo fatto incolpevole affidamento sulla liceità dell’operazione nonostante la massima diligenza prestata;

sotto tale profilo, non correttamente parte ricorrente postula che le vicende successive al trasferimento della merce al di fuori territorio nazionale non sono ad essa imputabili in quanto ascrivibili unicamente al diverso rapporto tra la cessionaria ed il terzo destinatario;

l’applicazione del regime di non imponibilità dell’operazione postula la liceità dell’operazione, dunque l’effettività del trasferimento presso un destinatario residente in altro Paese membro, presupposto contrastato dall’accertamento del successivo rientro della merce presso la medesima cessionaria;

in realtà, con il presente motivo di censura, parte ricorrente si limita ad evidenziare la propria estraneità al comportamento successivamente tenuto dalla cessionaria, senza, tuttavia, dedurre alcunchè in ordine alla sussistenza di un proprio comportamento diligente che lo aveva condotto a prestare incolpevole affidamento sulla liceità dell’operazione;

nè può valere il profilo di censura relativo al comportamento tenuto dalla cessionaria che ha provveduto al pagamento di quanto richiestole con l’atto di contestazione alla stessa notificato;

la stessa ricorrente, invero, evidenzia che l’amministrazione finanziaria aveva emesso nei confronti della cessionaria un atto di contestazione con la quale era stata irrogata una sanzione per mancata regolarizzazione di fatture di acquisto ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6;

la irrogazione della sanzione nei confronti della cessionaria, basata sulla contestazione della mancata emissione dell’autofattura, si pone, invero, in stretta correlazione con il recupero dell’Iva non versata da parte della società ricorrente una volta accertata la imponibilità dell’operazione ed è per tale ragione che la cessionaria ha provveduto al pagamento della sanzione, senza che da tale comportamento possa farsi derivare, come invece sostenuto dalla ricorrente, una esclusione della responsabilità nei confronti della medesima;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per omessa motivazione, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, n. 4), e per omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., per avere rigettato la richiesta di integrazione del contraddittorio con la società cessionaria EI. Ital. S.r.l. con una motivazione che non consente di controllare la ragione della decisione;

il motivo è inammissibile;

questa Corte (Cass. civ., 11 ottobre 2018, n. 25154; Cass. civ., 25 gennaio 2018, n. 1876; Cass. civ., 26 settembre 2013, n. 22083; Cass. civ., 23 gennaio 2009, n. 1701) ha più volte precisato che il vizio di omessa pronunzia, denunciabile ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è configurabile solo nel caso di mancato esame, da parte della sentenza impugnata, di questioni di merito, e non anche in caso di mancato esame di eccezioni pregiudiziali di rito;

si è, altresì, precisato che il mancato esame di questioni meramente processuali da parte del giudice non può dar luogo ad un vizio di omessa pronuncia, configurabile esclusivamente in relazione al mancato esame di domande o eccezioni di merito, ma solo ad una nullità della decisione per violazione di norme processuali diverse dall’art. 112 c.p.c., se ed in quanto si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data alla problematica prospettata dalla parte (Cass. civ., 11 novembre 2016, n. 23067; Cass. civ., 12 gennaio 2016, n. 321; Cass. civ., 24 novembre 2005, n. 24808);

ciò precisato, la doglianza relativa alla mancata pronuncia sulla richiesta di chiamata in causa del terzo è inammissibile sia in relazione alla individuazione dell’art. 112 c.p.c., come parametro normativo di riferimento, sia in relazione all’invocato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14, non essendo in alcun modo riscontrabile un rapporto di litisconsorzio necessario con la società EI Ital s.r.l. in relazione alla pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria nei confronti della ricorrente, essendo unicamente questa il soggettivo passivo tenuto al pagamento dell’imposta;

del resto, la stessa ricorrente evidenzia solo un interesse processuale alla presenza in giudizio di EI. Ital. S.r.l. unicamente per consentire che quest’ultima “fosse parte attiva del processo al fine di far emergere ruoli e responsabilità dei fatti contestati”, senza specificare in alcun modo sotto quale profilo, invece, quest’ultima avrebbe dovuto essere considerata parte necessaria del giudizio;

va quindi ulteriormente aggiunto che, secondo questa corte (Cass. civ., 26 agosto 2019, n. 21706) l’autorizzazione del giudice alla chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, ai sensi dell’art. 106 c.p.c., ove non si verta in ipotesi di litisconsorzio necessario di cui all’art. 102 c.p.c., è discrezionale, potendo il giudice rifiutarla sulla base di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo (cfr. Cass. Sez. U, 23 febbraio 2010, n. 4309; Cass. civ., 6 luglio 2006, n. 15362). Il provvedimento del giudice che autorizzi, o rifiuti di autorizzare, la chiamata in causa di un terzo, ai sensi dell’art. 269 c.p.c., non ha quindi natura decisoria, sicchè non può formare oggetto di appello o di ricorso per cassazione ed è insuscettibile di passare in cosa giudicata (Cass. civ., 20 dicembre 2005, n. 28227; Cass. civ., 26 aprile 2005, n. 8688); peraltro, va osservato che il giudice del gravame ha comunque preso in considerazione la questione, evidenziando che “i primi giudici si sono espressi chiaramente ed esaurientemente sulla richiesta del litisconsorzio da parte della società ricorrente. Le considerazioni da essi espresse al riguardo appaiono esaurienti e precise, per cui essere vanno interamente confermate ed il contribuente, oltre a criticarle, non apporta nessuna considerazione che permette un’analisi diversa da quella già effettuata”;

questo passaggio motivazionale argomenta sulla questione della non necessità della integrazione del contraddittorio facendo riferimento a quanto già deciso dai giudici di primo grado, alle cui ragioni, sul punto, fa riferimento in sede di svolgimento del processo, ove si era evidenziato che non sussisteva, per i giudici di primo grado, un litisconsorzio necessario in quanto EI. Ital. s.r.l. “non interagisce nel rapporto processuale, in quanto non destinataria dell’avviso di accertamento”;

in sostanza, il giudice del gravame, riportandosi alla decisione del giudice di primo grado, ha ribadito la diversità di posizioni rispetto all’obbligazione tributaria in contestazione da parte della ricorrente, da un lato, e della cessionaria, dall’altro, ed in questa separazione dei rapporti nei confronti del fisco si incentra la valutazione della insussistenza di una situazione processuale di litisconsorzio necessario;

non correttamente, dunque, parte ricorrente lamenta l’omessa pronuncia del giudice del gravame sulla questione in esame;

le successive considerazioni, pur espresse con il presente motivo di ricorso, relative al fatto che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del gravame, la ricorrente aveva addotto argomentazioni diverse da quelle esposte nel ricorso introduttivo, oltre che non conferenti con il vizio di cui all’art. 112 c.p.c., sono prive di specificità, in quanto parte ricorrente rimanda genericamente al contenuto dell’atto di appello, senza riprodurre il contenuto del medesimo e di quello di primo grado;

inammissibile, infine, è la ritenuta violazione dello Statuto del contribuente, art. 7, comma 1, per non avere la ricorrente potuto conoscere il processo verbale redatto a seguito dell’ispezione fiscale presso la società cessionaria, profilo in relazione al quale aveva, pertanto, richiesto l’integrazione del contraddittorio, sia in quanto la questione attiene, eventualmente, al vizio di motivazione dell’atto impositivo, che non risulta prospettato nei precedenti giudizi ed oggetto di contestazione, sia in quanto non conferente con il vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c.;

con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 9, in quanto era risultato in giudizio che la società cessionaria aveva iniziato ad adempiere con pagamenti periodici alla propria obbligazione nei confronti dell’erario, per cui, non avendo impugnato l’atto di contestazione, si sarebbe assunta la responsabilità per l’omesso assoggettamento a Iva delle operazioni, sicchè da questo doveva farsi discendere che la ricorrente non aveva compiuto alcun comportamento irregolare, da attribuirsi eventualmente alla cessionaria, e, in ogni caso, doveva darsi rilevanza al fatto che il pagamento della sanzione aveva l’effetto di liberare la ricorrente in quanto eseguita dall’obbligato solidale;

il motivo è inammissibile;

in primo luogo, va evidenziata la novità della questione, non risultando che la stessa era stata prospettata nei precedenti giudizi di merito;

in secondo luogo, lo stesso si limita a prospettare ragioni di violazione di legge senza alcuno specifico riferimento alla parte motivazionale della sentenza che si sarebbe pronunciata in contrasto con le previsioni di legge indicati;

peraltro, con riferimento al profilo della non rilevanza del pagamento delle sanzioni da parte della cessionaria, si è già avuto modo di esprimere le considerazioni in sede di esame del secondo motivo di ricorso;

in conclusione, è infondato il primo motivo, inammissibili il secondo ed il terzo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente;

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente che si liquidano in complessive Euro 4.500,00, oltre spese prenotate a debito;

dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2021

 

 

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