Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 13337 del 01/06/2010

Cassazione civile sez. un., 01/06/2010, (ud. 18/05/2010, dep. 01/06/2010), n.13337

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Primo Presidente f.f. –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di sezione –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. PICONE Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA 18, presso lo studio

dell’avvocato RICCI EMILIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ARIETA GIOVANNI, per delega in calce al ricorso; – ricorrente –

contro

PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA

GIUSTIZIA; – intimati –

sul ricorso 2583-2010 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA 18, presso lo studio

dell’avvocato RICCI EMILIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

MARESCA ARTURO, ARIETA GIOVANNI, per delega in calce al ricorso; – ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, PROCURA GENERALE PRESSO CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE; – intimati –

avverso leordinanze nn. 157/2009depositata 01/12/2009 per

il ricorso r.g. n. 1553/2010 e n. 171/2009 depositata il 22/12/2009 per il ricorso

r.g. n. 2583/2010, entrambe del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/05/2010

dal Consigliere Dott. PASQUALE PICONE; uditi gli avvocati Emilio RICCI, Giovanni

ARIETA, Arturo MARESCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA

Raffaele, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Fatto

PREMESSO IN FATTO

1. Su richiesta del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della Magistratura – CSM -, con ordinanza n. 157 del 13 novembre 2009, depositata in data 1 dicembre 2009, ha disposto la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio della Dott.ssa S.C., giudice del Tribunale di Roma, nei cui confronti era pendente un procedimento penale (giunto alla fase del depositoex art. 415 bis cod. proc. pen.) per falso materiale (artt.476-482 cod. pen.) e induzione al falso ideologico con inganno (artt.48-479 cod. pen.).

2. I fatti di rilevanza penale concernevano la falsificazione di una tessera di riconoscimento rilasciata dalla Corte di appello di Roma nel 1993, avuto riguardo alla data di nascita, indicata in ” (OMISSIS)” anzichè in “(OMISSIS)”, e/o l’utilizzo di tale atto falso in occasione della stipulazione di atti notarili di compravendita immobiliare.

3. La Sezione disciplinare ha ritenuto documentalmente accertato – almeno ai fini della misura cautelare -, sulla base di atti pubblici e giudiziari (in particolare, atto di citazione proposto dall’incolpata nei confronti di altro soggetto), che la Dott.ssa S. aveva assunto un’identità diversa da quella reale per aver fatto uso – in occasione della stipulazione di diverse e rilevanti transazioni immobiliari (anche intrecciate con quelle della madre quotista di riferimento di una società di capitali operante nel settore immobiliare) – di una tessera di riconoscimento su cui era riportata una data di nascita erronea.

3.1. Ha argomentato la Sezione, in particolare, che tale condotta – anche a prescindere dalla sussistenza dei delitti di falso – era caratterizzata da una “assoluta noncuranza della delicatezza della funzione giudiziaria”, dovendosi imputare alla Dott.ssa S., in ogni caso, il mancato controllo vuoi degli atti notarili vuoi di quelli processuali, nonchè di avere ingenerato, con il suo operato, un’identità fittizia sia tributaria, sia ai fini di una eventuale azione esecutiva, nonchè per le eventuali comunicazioni e notifiche.

4. Contro l’ordinanza sopra specificata la Dott.ssa S. propone ricorso per Cassazione (r.g.n. 1553/2010) articolato in sette motivi.

5. Con istanza del 19 novembre 2009, la Dott.ssa S. chiedeva la revoca (o la sospensione) dell’ordinanza n. 157/2009del 13 novembre 2009, invocando la tutela generale in materia di maternità e paternità di cui alD.Lgs. n. 151 del 2001, atteso lo stato di gravidanza con interdizione dal lavoro a far data dal 13 novembre 2009.

6. La Sezione disciplinare, con ordinanza n. 171 del 2009, ha rigettato l’istanza nell’assunto dell’inapplicabilità della normativa invocata al personale della magistratura, dovendosi ritenere che la disposizione si riferisca ad eventi il licenziamento – interni al rapporto di lavoro, mentre il procedimento disciplinare regolato dalD.Lgs. n. 109 del 2006, si pone come evento esterno al rapporto, con irrogazione di sanzioni rimozione e sospensione – dipendenti da accertamenti e valutazioni del tutto estranee al rapporto di lavoro e ad opera di una autorità diversa dal datore di lavoro.

7. Contro questo provvedimento la Dott.ssa S. propone altro ricorso per cassazione (r.g.n. 2583/2010) articolato in quattro motivi.

8. I soggetti intimati con i due ricorsi (Ministero della giustizia e Procuratore generale presso la corte di Cassazione) non svolgono attività di resistenza.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

1. I due ricorsi devono essere riuniti perchè l’eventuale fondatezza della questione posta con il secondo ricorso, dell’inapplicabilità della misura cautelare della sospensione a magistrato per il quale sia iniziato il periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonchè fino al compimento di un anno di età del bambino, determinerebbe la cessazione della materia del contendere oggetto del primo ricorso (per l’applicabilità dell’art. 274 cod. proc. civ., anche al giudizio di Cassazione, vedi, tra le altre decisioni,Cass. S.u. n. 18125/2005).

2.1 motivi del secondo ricorso, che devono essere esaminati unitariamente perchè concretano diverse argomentazioni concernenti una questione unica, sono in sintesi i seguenti:

1) applicabilità in via generale delD.Lgs. n. 151 del 2001, anche al personale della magistratura, ai sensi del R.D. 30 aprile 1942, n. 12, art. 276 , comma 3, dovendosi ritenere insussistente qualsiasi contrarietà o incompatibilità delle relative disposizioni con lo status di magistrato;

2) pertinenza, ad ogni livello, del procedimento disciplinare al rapporto di lavoro del magistrato e necessità di una specifica disamina del rapporto tra procedimento disciplinare e normativa a tutela della maternità e paternità;

3) nella valutazione comparativa tra interdizione dal lavoro per maternità e sospensione cautelare facoltativa, in mancanza di una disposizione espressa, si deve ritenere la preminenza della prima, la quale ha carattere obbligatorio (con sanzione penale a carico del datore di lavoro che non vi ottemperi), mira alla tutela di beni fondamentali (salute e maternità) ed è garantita da una tutela e da un trattamento previdenziale sostitutivo della retribuzione, mentre la seconda è meramente facoltativa, non ha carattere sanzionatorio ma mira solo ad evitare il concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, prevedendo solo un assegno alimentare, inidoneo ad assicurare la tutela prevista anche sul piano patrimoniale alla maternità, tutela che resterebbe indebitamente compressa;

4) violazione delD.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, disposizione che stabilisce non solo il divieto di licenziamento nel periodo di interdizione, ma anche quello di sospensione dal lavoro, giustificandosi la norma con l’esigenza di evitare il prodursi, in tale periodo, di un trauma anche solo psichico per la lavoratrice madre.

3. La Corte giudica il secondo ricorso non fondato.

4. Il complessivo assetto normativo delineato dalD.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151- Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dellaL. 8 marzo 2000, n. 53, art. 15- assicura una protezione economica (con l’attribuzione di un trattamento di tipo indennitario, sostitutivo della retribuzione), una protezione di tipo personale (con riferimento alla possibilità di soddisfare le primarie esigenze del nascituro o del nato, garantendo assenze giustificate dal lavoro ed agevolazioni di tipo sociale) ed una protezione sul piano del rapporto di lavoro (con la conservazione e l’integrità del posto di lavoro), a fronte di una situazione personale e familiare particolarmente sensibile e “debole” qual’è quella dello stato di gravidanza e poi, con indicazioni più articolate, della maternità (o paternità). L’art. 54 costituisce una tessera – in funzione accessoria rispetto al diritto di usufruire dei congedi parentali – di questa complessiva tutela ed è rivolto ad inibire la cessazione e/o la sospensione del rapporto di lavoro in un momento particolarmente delicato – ossia la fase della gravidanza fino a tutto il periodo di interdizione dal lavoro – dove è necessario, da un lato, assicurare una tranquillità, anche psicologica, per la madre (così da evitare possibili ripercussioni negative sul nascituro) e, dall’altro, di conservare un trattamento economico adeguato per affrontare la nuova, e più onerosa, situazione familiare.

4.1. Si tratta, invero, di un assetto legislativo che costituisce diretta attuazione di diversi principi costituzionali di primaria rilevanza, quali gli artt.2,3,31,32e37 Cost., e che colloca quale fondamentale centro dell’interesse da tutelare la posizione del nascituro, del nato o, comunque, del minore entrato nel nucleo familiare. Ed infatti, la tutela ex art. 54 è stata estesa anche al padre (che usufruisca del congedo e fino ad un anno di vita del bambino), nonchè alle ipotesi di affidamento e di adozione di minore.

La normativa si inserisce a pieno titolo nell’ambito della tutela (minima) prevista a livello comunitario con la Direttiva n. 96/34/CE, che si riferisce a tutti i lavoratori (Clausola 1, comma 1) e, tra l’altro, prevede (Clausola 3, comma 4) che gli Stati “prendono le misure necessarie per proteggere i lavoratori dal licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale”.

5. In ragione delle descritte finalità dell’intervento normativo, è fuori discussione la sua applicabilità, in linea generale, anche ai lavoratori dipendenti dalle pubbliche amministrazioni, specie nell’attuale quadro normativo caratterizzato dalla “contrattualizzazione” della maggior parte dei rapporti di lavoro pubblico (attuata con le norme ora raccolte nelD.Lgs. n. 165 del 2001), che comportano la tendenziale omologazione delle discipline del lavoro privato e di quello pubblico. Ma, all’interno del lavoro pubblico, la legislazione attuale conosce anche la categoria degli impiegati in “regime di diritto pubblico” (D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 3e63, comma 4), per i quali il fatto costitutivo del rapporto non è il contratto ma il provvedimento amministrativo e la natura pubblica che lo contraddistingue comporta che gli atti incidenti su quello che è un vero e proprio status dell’impiegato abbiano natura di atti autoritativi dell’organo munito del relativo potere. Il rapporto di servizio dei magistrati, ordinari, poi, all’interno della categoria di quelli in “regime di diritto pubblico”, è contrassegnato da ulteriori tratti di specialità in ragione della funzione di rilevanza costituzionale, tra i quali punto di emersione non certo secondario è l’attribuzione ad un giudice speciale (la Sezione disciplinare del CSM) della competenza in materia di sanzioni disciplinari e relative misure cautelari.

Per tutti gli impiegati in regime di diritto pubblico e per i magistrati ordinari in particolare si pone pertanto, con riferimento ai singoli istituti, il problema della compatibilità delle norme dettate per la tutela del lavoro in generale con la disciplina speciale cui sono assoggettati, pur restando ferma la soglia minima di tutela garantita dalla legislazione comune.

6. In base al detto principio non si dubita, sia in sede di prassi amministrativa, sia da parte del giudice munito di giurisdizione esclusiva sulle controversie inerenti al rapporto d’impiego dei magistrati ed estranee alla materia disciplinare (il giudice amministrativo), dell’applicabilità in generale anche ai magistrati ordinari della normativa primaria a tutela della maternità e paternità nei profili patrimoniali e personali; alcune disposizioni sono state però ritenute non compatibili con lo status del magistrato, come quella recata dalD.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42 bis, (relativo all’assegnazione temporanea dei lavoratori dipendenti di amministrazioni pubbliche con figli di età inferiore a tre anni), introdotto con laL. n. 350 del 2003, art. 3, comma 105, (vedi C.d.S., sez. 4^, 7 marzo 2007, n. 1069).

7. La controversia pone il problema specifico se le disposizioni contenute nelD.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54(ma anche nell’art. 55) siano compatibili con la disciplina dell’impiego pubblico e, in particolare, con quella del rapporto di servizio dei magistrati ordinari.

Al quesito deve essere data risposta negativa sulla base delle seguenti considerazioni:

a) la norma si riferisce solo al licenziamento (e in relazione a tale potere parla della sospensione), e cioè, secondo il preciso significato tecnico risultante dal codice civile e dalle leggi in materia, all’esercizio del diritto potestativo del datore di lavoro di risolvere il rapporto mediante negozio giuridico unilaterale e recettizio;

b) coerentemente, il successivo art. 55, si occupa esclusivamente delle ”dimissioni”, negozio giuridico unilaterale con il quale è il lavoratore ad esercitare il potere di risolvere il rapporto;

c) l’intento di regolare esclusivamente i poteri privati originati da fattispecie contrattuale (tra i quali quello di sospensione) emerge con evidenza dalla distinzione tra licenziamento per giusta causa consistente nella colpa grave della lavoratrice (escluso dal divieto e per il quale non sussiste obbligo di preavviso) e le altre tipologie di recesso, nonchè dalla disposizione che esonera il dipendente dimissionario dall’obbligo del preavviso (art. 55, comma 5);

d) radicalmente diversa è la disciplina dell’impiego in “regime di diritto pubblico”: è ignota a questo tipo di rapporto di lavoro la distinzione tra recesso per giusta causa e non, nonchè l’obbligo del preavviso (dovendo il provvedimento che risolve il rapporto essere emanato all’esito del procedimento previsto dalla legge); l’istituto delle dimissioni, poi, non ha nulla a che fare con la figura del diritto potestativo di risolvere il rapporto, risolvendosi nel mero potere di dare impulso, con la domanda, ad un procedimento amministrativo destinato a concludersi con un provvedimento dell’amministrazione (in caso di esito positivo, accettazione delle dimissioni, cui si collega l’effetto estintivo del rapporto);

l’ordinamento contempla per gli impiegati in regime di diritto pubblico un sistema di garanzie di stabilità del rapporto (anche con riguardo alle ipotesi di sospensione) di livello ben superiore a quello apprestato per coloro che lavorano in base al contratto (tipicità della cause di risoluzione o di sospensione, cui corrispondono i nominati provvedimenti della pubblica autorità), tale da escludere in radice ogni possibilità di discriminare le lavoratrici madri o comunque di risolvere o sospendere il rapporto a causa dell’esercizio del diritto ai congedi parentali e, conseguentemente, idoneo, nel pieno rispetto dei principi costituzionali e comunitari, a sostituire la tutela (minore) della legge generale (che, tra l’altro, consente di risolvere il rapporto per giusta causa);

e) la speciale regolamentazione del rapporto di servizio dei magistrati ordinari, poi, nella parte in cui prevede che sia un organo giurisdizionale speciale a determinare la cessazione del rapporto per motivi disciplinari, ovvero a disporre la sospensione cautelare, non presenta margini di compatibilità con la condizione giuridica della nullità dell’atto di recesso (o di sospensione) sul piano sostanziale e con l’applicazione dell’art. 54, cit. nella parte in cui commina una sanzione amministrativa nel caso di infrazione del divieto di licenziamento o di sospensione (comma 8), previsioni che confermano ulteriormente come i destinatari della norma siano soltanto i soggetti titolari di poteri contrattuali cui è vietato l’esercizio del potere di licenziare o di sospendere.

8. Neppure può essere condivisa la tesi della ricorrente secondo cui la sospensione del rapporto di lavoro determinata dall’astensione obbligatoria per maternità, con inibizione aliunde dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali, comporterebbe il venir meno della funzione propria dell’istituto della sospensione cautelare.

La finalità delle misure cautelari previste in materia disciplinare è quella, in generale, della tutela immediata del prestigio, dell’imparzialità e dell’immagine esterna ed interna della pubblica amministrazione, nonchè dell’ordinato svolgimento proprio dell’attività dell’amministrazione e della giurisdizione attraverso l’allontanamento del dipendente o del magistrato “pericoloso”. La sospensione dal servizio del magistrato rappresenta la misura cautelare tipica, inserita nel sistema processuale disciplinare e destinata a soddisfare le esigenze cautelari dettate dai vari eventi cui può dar luogo il comportamento dell’incolpato. Con riguardo specificamente alla sospensione facoltativa dalle funzioni e dallo stipendio (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22), assume rilievo l’esigenza di evitare che l’esercizio delle funzioni giudiziarie in condizioni di menomata credibilità possa minare la necessaria fiducia che i cittadini debbono riporre nel magistrato. Ma la detta sospensione consiste propriamente nell’allontanamento dalle funzioni con la sospensione dallo stipendio e “il collocamento del magistrato fuori dal ruolo organico della magistratura” (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 10, comma1,), cioè, secondo la nozione di ruolo, dall’insieme legislativamente predeterminato dei magistrati e dalla sede nella quale esercita la funzione. Questo rilievo è sufficiente per dimostrare l’autonomia della sospensione cautelare rispetto ad altre ipotesi di sospensione della fattualità del rapporto di servizio, cui non si connette il particolare effetto del collocamento fuori ruolo.

9. Vi sono, infine, le considerazioni della ricorrente concernenti la compromissione della tutela patrimoniale garantita alla lavoratrice madre in caso di sospensione cautelare.

La sospensione dal servizio, infatti, incide sul rapporto sinallagmatico tra prestazione lavorativa e retribuzione, rapporto che, con riguardo alla misura cautelare viene stabilito dalla legge con la previsione di un assegno alimentare – in misura rigida e predeterminata a seconda dell’anzianità del magistrato:D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 10, comma 2, – mentre, rispetto alla tutela della maternità, trova la sua soluzione nell’erogazione di un trattamento di tipo indennitario tendenzialmente corrispondente (o quasi) alla retribuzione. Il fondamento delle due previsioni è radicalmente differente: nel primo caso si vuole salvaguardare un’esigenza strettamente alimentare che prescinde dalle condizioni effettive, personali e familiari, in cui versa il magistrato cautelarmene sospeso e ciò fino alla definizione del procedimento disciplinare.

Si tratta, quindi, di un assegno personale, mirato a consentire la “sopravvivenza” dell’interessato nelle more del procedimento.

Nel secondo caso, invece, la conservazione di un trattamento economico sostanzialmente inalterato rispetto alla retribuzione è funzionale alla preservazione della salute sia della mamma che del bambino, beni fondamentali che non debbono essere sottoposti a rischio.

9.1. Orbene, atteso che la misura dell’assegno alimentare è direttamente stabilita dalla legge e sottratta ai poteri di determinazione della Sezione disciplinare del CSM, l’ordinanza n. 157/2009. nel disporre la sospensione cautelare, si è limitata a richiamare la previsione legislativa dell’assegno alimentare (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 10, comma 2).

L’ordinanza quindi non si occupa della specifica questione se al magistrato assoggettato alla misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio spetti, con riguardo al periodo di astensione obbligatoria per maternità, l’assegno alimentare oppure l’indennità di maternità, questione che, di conseguenza, esula dall’oggetto della controversia nonchè dalla competenza delle Sezioni unite della Corte di Cassazione. Si tratta infatti di questione relativa ad un profilo meramente patrimoniale del rapporto di servizio (questione per la cui risoluzione potrebbero rilevare le considerazioni contenute nella sentenza costituzionale 14 dicembre 2001, n. 405, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale delD.Lgs. n. 151 del 2001, art. 24, comma 1, nella parte in cui escludeva la corresponsione dell’indennità di maternità in caso di licenziamento per giusta causa), come tale estranea al provvedimento di sospensione cautelare.

10. Conclusivamente, il ricorso r.g.n. 2583/2010 deve essere rigettato sulla base di questo principio di diritto: “La sospensione cautelare facoltativa dei magistrati dalle funzioni e dallo stipendio, di cui alD.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, comportando il collocamento fuori del ruolo organico, può essere disposta anche nei confronti di coloro che sono in congedo per maternità, non potendo trovare applicazione al rapporto di servizio dei magistrati il divieto di sospensione (e di licenziamento) di cui alD.Lgs. n. 151 del 2001, art. 54, che presuppone la natura contrattuale del rapporto di lavoro, mentre risulta estranea al tema della legittimità della sospensione cautelare la questione se il magistrato sospeso abbia diritto all’assegno alimentare oppure alle provvidenze economiche previste per la tutela della maternità”.

11. L’esito di rigetto del ricorso r.g.n. 2583/2010 comporta che debba essere esaminato il ricorso r.g.n. 1553/2010.

Con questo ricorso si deduce, con argomentazioni che vanno scrutinate unitariamente stante la connessione logico-giuridica, l’11 legittimità dell’ordinanza n. 157/2009per violazione di legge e gravi vizi di motivazione (mancanza, manifesta illogicità, omessa e insufficiente motivazione) sotto i profili di seguito esposti in sintesi.

f) Non vi sarebbe stata alcuna valutazione – necessaria trattandosi di sospensione facoltativa – sulla gravità dei fatti, nè una delibazione sul periculum e sul fumus boni iuris del procedimento penale: sarebbe mancata, in particolare, ogni disamina della documentazione prodotta dall’incolpata.

2) Da tale documentazione – ritualmente prodotta nel giudizio disciplinare ed inserita anche nel ricorso per cassazione – risulterebbe (oltre all’insussistenza della falsità materiale nel documento) che, in alcuni atti, la Dott.ssa S. è erroneamente identificata (con riguardo alla data di nascita) nella premessa degli atti medesimi, ma risulta esattamente identificata nella parte relativa all’autentica e alla certificazione della sottoscrizione da parte del notaio, mentre in altri atti risulta esattamente identificata nella totalità delle parti dell’atto, riapparendo l’errore solo nella successiva richiesta di registrazione dell’atto pubblico (di per sè di pertinenza notarile).

3) Lo stesso notaio rogante – con atto ritualmente depositato nella procedura disciplinare e indicato e riprodotto nel ricorso – avrebbe riconosciuto che le errate indicazioni di data di nascita sono derivate da errore di battitura.

4) Nessun beneficio era stato tratto da tali errori avendo la Dott.ssa S. regolarmente adempiuto le obbligazioni contratte ed estinto il mutuo (mentre dalla documentazione giudiziaria emergerebbe che l’inadempimento è della controparte); anche ai fini tributati; inoltre, l’intero patrimonio era stato sempre regolarmente dichiarato.

5) Non sarebbe in alcun modo provato che l’errore sugli atti notarili sia stato conseguente all’uso della tessera di riconoscimento con erronea data di nascita.

6) Anche ai fini della comunicazione e delle notifiche nei successivi contenziosi, nessun beneficio è derivato alla Dott.ssa S., la quale anzi – rilevando l’errore nel precedente atto notarile – aveva comunicato i dati esatti (anche alla controparte) al fine di procedere alla correzione, atto prodotto ed inserito anche nel ricorso per Cassazione.

7) La ricorrente, infine, rileva la contraddittorietà della motivazione sotto un ulteriore profilo: da un lato, si contesta l’uso di un atto falso; dall’altro, invece, si ritiene che la Dott.ssa S. avrebbe in ogni caso omesso di controllare gli atti notarili e processuali erroneamente compilati da terzi e tale omissione giustificherebbe di per sè l’irrogazione della sospensione delle funzioni. In tale prospettiva, pertanto, non sarebbe neppure chiaro quali siano le condotte effettivamente contestate ponendosi tali comportamenti in aperta reciproca contraddizione, parendo, comunque, il mero omesso controllo del tutto sproporzionato rispetto al requisito della gravità richiesto dalD.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22e insuscettibile di integrare i delitti contestati in sede penale.

12. La Corte giudica anche questo ricorso non fondato, risultando le censure in parte inammissibili e per altra parte infondate.

13. Ai sensi delD.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. a), b) e c), i fatti che costituiscono reato punito con pena detentiva costituiscono illeciti disciplinari ove sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna. La sentenza penale irrevocabile di condanna (cui è equiparata a tali effetti la sentenza di applicazione della pena su richiesta) ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 653, comma 1 bis, inserito dallaL. n. 97 del 2001).

IlD.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, prevede l’adottabilità della misura cautelare della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, con collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura, anche prima dell’inizio del procedimento disciplinare, nei confronti del magistrato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo punibile, anche in via alternativa, con pena detentiva (art. 4, comma 1, lett. a), o quando al medesimo possono essere ascritti fatti rilevanti sotto il profilo disciplinare incompatibili per la loro gravità con l’esercizio delle funzioni.

14. La giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte, malgrado la formulazione letterale della norma che sembrerebbe distinguere nettamente tra le due ipotesi (procedimento penale per delitto non colposo e fatti rilevanti solo sotto il profilo disciplinare), sul rilievo nella natura facoltativa della misura cautelare e della necessaria attribuzione alla Sezione disciplinare del potere di valutazione discrezionale, precisa che in entrambi i casi è indispensabile la formulazione di un giudizio in ordine alla rilevanza dei fatti contestati, astrattamente considerati, nonchè la delibazione della possibile sussistenza degli stessi (sentenza n. 28046/2008). In tali termini si è confermato l’indirizzo giurisprudenziale formatosi nella vigenza del precedente ordinamento disciplinare (cfr.Cass. S.u. n. 11284/1994,12949/1995,13602/2004).

Tuttavia, non avendo la misura cautelare natura di sanzione disciplinare, la medesima giurisprudenza precisa altresì che non è richiesto l’accertamento della sussistenza degli addebiti (riservato al giudizio penale o a quello di merito sull’illecito disciplinare).

Naturalmente tale particolare e delimitata estensione degli oneri di motivazione del giudice disciplinare non possono non riflettersi sul tipo di censure formulabili nel giudizio di Cassazione e sul sindacato esercitabile dalle Sezioni unite sulla motivazione del provvedimento impugnato. Del resto, in relazione all’ipotesi della sospensione cautelare dal servizio di magistrato sottoposto a procedimento penale, si è osservato (sia pure in riferimento alla previgente normativa disciplinare) che il giudice disciplinare dispone di ampi spazi di libera valutazione, i quali comportano un divieto di sindacabilità diretta da parte del giudice di legittimità, che può esercitare un controllo limitato alla ragionevolezza della compiuta applicazione delle previsioni normative, attraverso la correttezza e la congruità logica della motivazione (Cass. S.u. n. 10214/2006).

15. Ciò premesso, e con riguardo specifico all’ipotesi qui ricorrente della sottoposizione a procedimento penale, i richiamati orientamenti giurisprudenziali necessitano di alcune ulteriori precisazioni.

Come si è già osservato, ilD.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, si riferisce a due ipotesi distinte: la prima è quella della sottoposizione del magistrato a procedimento penale per delitto non colposo punibile, anche in via alternativa, con pena detentiva; la seconda è costituita dalla possibilità che al magistrato possano essere ascritti fatti rilevanti sotto il profilo disciplinare che, per la loro gravità, siano incompatibili con l’esercizio delle funzioni. Se ne ricava la rigidità del presupposto richiesto per l’esercizio del potere di sospensione nella prima ipotesi, in linea, del resto, con il rapporto tra procedimento penale e giudizio disciplinare, quale delineato negli attuali assetti legislativi;

l’ampiezza di valutazione discrezionale nella seconda.

La distinzione tra le due ipotesi ha un’ovvia incidenza sul contenuto degli oneri di motivazione del giudice disciplinare: nella seconda, infatti, il giudice disciplinare non può limitarsi a considerare la gravità in astratto del fatto disciplinarmente rilevante e la sua incompatibilità con l’esercizio delle funzioni, ma deve soprattutto valutare il cd. fumus e cioè la serietà degli elementi raccolti ai fini della prova della responsabilità; nella prima, invece, gioca un ruolo fondamentale l’evento descritto dalla norma ed assunto a presupposto dell’eventuale sospensione, sicchè non è consentito al giudice disciplinare formulare una prognosi di esito favorevole al magistrato del procedimento penale, non potendosi ammettere che in questo modo si addivenga al risultato di negare, nella sostanza, la sussistenza del presupposto stesso della sospensione cautelare facoltativa nei termini indicati dalla legge.

Decidere allora se sospendere o non il magistrato sottoposto a procedimento penale è l’esito di valutazioni di ordine diverso: se i fatti per i quali si procede in sede penale, considerati in tutti i profili della fattispecie concreta, siano di gravità tale da rendere incompatibile la continuazione dell’esercizio delle funzioni anche in una diversa sede (vediCass. S.u. n. 17904/2009; in senso analogo, nel quadro del precedente ordinamento disciplinare, cfr. Cass. S.u.

n. 13602/2004).

16. Il principio di diritto sopra enunciato rende il dispositivo dell’ordinanza impugnata conforme al diritto, ancorchè la motivazione necessiti di una parziale correzione (art. 384 c.p.c., comma 2).

16.1. Sono inammissibili tutte le censure rivolte a denunciare l’omessa o insufficiente valutazione delle difese svolte e dei documenti prodotti dall’incolpata al fine di dimostrare l’insussistenza dell’ipotesi di reato e, in ultima analisi, la “ingiustizia” del procedimento penale. Ci si riferisce, in particolare, alla denuncia di omessa motivazione – neppure al fine di ritenerne l’irrilevanza o l’inattendibilità o altro in ordine alla stessa esistenza della produzione documentale della difesa e alle conseguenze, sia pure limitatamente al fumus e al periculum necessari per l’irrogazione della misura cautelare, che ne potrebbero derivare (delibazione sulla sussistenza dei fatti contestati ed esistenza dell’illecito penale; assenza, in concreto, di una diversa identità tributaria per aver l’interessata sempre adempiuto ai relativi obblighi; assenza, in concreto, di pregiudizio sulla sfera delle comunicazioni o delle notifiche ovvero dell’imputabilità quale destinatario di azioni esecutive). Si tratta, per quanto osservato in precedenza, di fatti privi del requisito della decisività nella parte in cui investono l’inesistenza dei presupposti per l’instaurazione del procedimento penale.

16.2. Sono infondate le censure di motivazione omessa, insufficiente e illogica in ordine alla gravità dei fatti e all’incompatibilità con la permanenza nelle funzioni. L’ordinanza verifica la ricorrenza dell’ipotesi della sottoposizione a procedimento penale per delitti puniti con pena detentiva e pone in rilievo come i fatti addebitati al magistrato fossero caratterizzati da gravità tale da comprometterne l’immagine, rendendo incompatibile la permanenza in servizio con la salvaguardia del bene del decoro e della credibilità della funzione giudiziaria.

E’ vero che, come non manca di denunciare la ricorrente, l’ordinanza contiene anche diffuse considerazioni in ordine alla rilevanza disciplinare dei fatti addebitati anche nell’ipotesi in cui fossero non configurabili i delitti ascritti. Questa parte della motivazione è frutto di errore di diritto nella parte in cui estende alla fattispecie di sospensione cautelare per pendenza del procedimento penale i principi propri della diversa ipotesi della mera rilevanza disciplinare dei fatti ascritti al magistrato, nell’assunto implicito che il giudice disciplinare possa anche giungere a negare l’esistenza del presupposto della prima ipotesi. E tuttavia l’errore non inficia la conformità a legge della decisione, atteso che questa parte della motivazione è pienamente recuperabile in termini di valutazione di tutte le circostanze del caso concreto, della gravità dei fatti e dell’incompatibilità con l’esercizio delle funzioni.

Ed infatti, in aggiunta alle considerazioni già svolte circa l’uso di un atto falso e l’assunzione di una falsa identità anche in atti giudiziari nei confronti di terzi, vi sono quelle concernenti le cospicue contrattazioni per l’acquisto di importanti beni, nel quadro di attività commerciali nel settore commerciale, e le conseguenze che l’assunzione di un’identità diversa avrebbe potuto comportare, unitamente al rilievo che la qualità professionale poteva concorrere a ingenerare affidamento degli interessati, in tal modo formulando in modo esauriente e completo il giudizio di gravità sul piano deontologico dell’ipotesi di falso materiale commesso da privato e induzione al falso ideologico in atto pubblico con inganno. 17.

Conclusivamente, il primo ricorso (r.g. n. 1553/2010) deve essere rigettato in base al seguente principio di diritto: “La sospensione cautelare facoltativa, prevista dalD.Lgs. n. 109 del 2006, art. 22, per il caso di magistrato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo punibile, anche in via alternativa, con pena detentiva, impone al giudice disciplinare di valutare la gravità dei fatti ascritti in sede penale, tenendo conto del titolo dei delitti e tutte le circostanze del caso concreto ai fini del giudizio circa la lesione del prestigio e della credibilità dell’incolpato tale da non essere compatibile con l’esercizio delle funzioni, restando escluso che possa altresì formulare una prognosi circa l’esito del procedimento penale, non essendo attributario del potere di negare, nella sostanza, lo stesso presupposto previsto dalla legge – l’essere sottoposto a procedimento penale – per la sospensione cautelare nella detta ipotesi”.

21. Nessun provvedimento deve essere adottato in ordine alle spese e agli onorari del giudizio di cassazione, in difetto di attività di resistenza.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni unite, riunisce il ricorso r.g.n. 2583/2010 al ricorso r.g.n. 1553/2010; rigetta i ricorsi riuniti; nulla da provvedere sulle spese e gli onorari del giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, il 18 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 1 giugno 2010

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